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“C’era una volta una bellissima principessa. Aveva lunghe ciglia setose che incastonavano la preziosità degli occhi colore del cielo d’estate. Tra i capelli, lucenti come il grano maturo, erano intrecciati piccoli fiori variopinti e profumati. La veste intessuta di perle e fili di seta, gonfiata da una brezza leggera, abbozzava appena le forme ancora acerbe del suo giovane corpo”. Spensierata, in quel mondo di fiaba, la principessa viveva felice e, innamorata dell’amore, fantasticava l’arrivo del principe azzurro. “C’era una volta…” le ripeteva ossessivamente il cervello, mentre rannicchiata in posizione fetale tentava di proteggere il suo corpo dalla furia inaudita di un essere che di umano non aveva più neanche l’aspetto. “La penetrante fragranza delle viole e della lavanda, avrebbe accompagnato i loro passi, chicchi colmi e maturi di uva dorata, dissetato la loro arsura e la verde e soffice coltre dei campi, sarebbe stata la tacita testimone dell’avverarsi di un sogno”. La donna si riscuote, siede in terra poggiando la schiena allo stipite della porta di legno chiaro e cerca di rilassarsi, massaggiandosi le tempie con le mani. Trasale però, quando incautamente sfiora uno zigomo. Il dolore lancinante l’artiglia di nuovo mentre sotto ai polpastrelli delle dita la pelle brucia gonfia e febbricitante. “Un leprotto grigio si avvicina timoroso osservando incuriosito le scaramucce giocose dei due innamorati. Il tempo apparentemente fermo viene bruscamente riscosso da un sibilo basso e sordo: una freccia si conficca nel piccolo cuore dell’animale che con un ultimo disperato sussulto si ferma per sempre”. Un senso di vertigine la riporta al presente. La donna sbarra gli occhi e faticosamente cerca di mettere a fuoco le immagini che danzano davanti alle sue iridi dilatate. Non è il castello incantato ma uno spartano e misero ambiente: la sua casa. La osserva stupita, come fosse la prima volta. Per quanto tempo è rimasta priva di sensi? Un minuto, un’ora? Un giorno forse? L’aria viziata dall’odore delle sigarette di cui sono impregnati i mobili le pizzica il naso. Nella penombra della sera, le tende penzolano lugubri, come funerei fantasmi, sui vetri opachi delle finestre. Tutto è in disordine, sembra che un tornado abbia scaricato la sua furia primitiva e selvaggia in quella stanza. Finito il minuzioso esame un gemito convulso esce dalle sue labbra. Facendo appello a tutte le sue forze per non urlare dal dolore che, impietoso, le martella ogni parte del corpo, cerca di sgranchire i muscoli intorpiditi. Prova a rialzarsi, vacilla, avanza di un passo poi indietreggia. Per non cadere si aggrappa allo spigolo del tavolo in attesa che il lancinante capogiro svanisca e finalmente, con un sospiro, riconquista la posizione eretta. «C’era una volta una fanciulla ingenua e innamorata trasformata, dall’incantesimo di un mago crudele, in una giovane lepre e costretta, per sopravvivere, ad una continua fuga dalla realtà per sfuggire ai dardi assassini di un cacciatore malvagio. E c’è solo un modo per porre fine alla maledizione…» Aveva conosciuto quell’uomo in un’afosa e accecante giornata estiva. Lei in bicicletta, sulla strada non asfaltata, tornava dal mare, lui a bordo di una lucida macchina sportiva si era smarrito. Indossava un costoso abito alla moda, scarpe firmate, le aveva promesso aurore rosate, tramonti di fuoco, collane di stelle e notti d’amore interminabili. Lei, con l’umore salmastro del mare, ancora sulla pelle, gli aveva creduto e così, come una falena attratta dalla luce di una lampada, aveva bruciato le sue giovani ali. Si sentiva felice, come la principessa delle favole e senza voltarsi indietro, con una valigia piena di sogni e speranze, era partita con lui per inseguire la sua personale chimera. La nuova vita l’accoglie piena di specchi e lustrini, di luci ammiccanti e colori sgargianti ma il tempo, che non è galantuomo, ben presto le mostra la realtà. Confusa, stordita, disillusa conosce la mortificazione del corpo e l’umiliazione della mente, ingoia il sapore acre della polvere e respira il fetore putrido della bestialità e dell’ignoranza. «C’era una volta» sussurra a se stessa mentre sente i passi di suo marito avanzare strascicati e incerti sul pavimento. La porta si spalanca con violenza mentre una lezzo di alcool e di sudore invade il piccolo locale. La donna trattiene il conato di vomito che le sale alle labbra, ma per la prima volta è tranquilla. La paura non gli attanaglia lo stomaco in una morsa d’acciaio né le scorre nelle vene in gelidi gorghi di ghiaccio. È ferma nella sua convinzione: lotterà per sé e per la nuova vita che è germogliata nel suo grembo, offrirà a quel figlio concepito da una violenza, il suo estremo atto d’amore. Finge di dormire anche se i suoi muscoli sono guizzanti sotto la pelle e i nervi tesi fino allo spasimo. Sa che lui è ubriaco e la cercherà, che si avvicinerà e al suo ennesimo rifiuto… “C’era una volta… e questa sarà una favola a lieto fine perché è la nostra favola, cucciolo mio!” pensa con rabbia, mentre l’uomo ubriaco si getta pesantemente a sedere sul letto e le volta la schiena per sfilarsi i pantaloni. L’alito è caldo e pesante, quando si china sul suo collo a sussurrargli oscenità perverse, sicuro di averla in pugno. Lei si volta e lo guarda in silenzio. I suoi occhi carichi di odio lo trafiggono. È bellissima, un piccolo angelo scivolato all’inferno come testimoniano gli arabeschi violacei che si allargano sul suo zigomo e il labbro tumefatto, simile ad una rosa precocemente appassita, solcato da piccole stille di sangue rappreso. Lui resta per qualche momento accecato dal bagliore di un ricordo che si è aperto un varco nella mente offuscata, poi scrolla la testa ed un ghigno malvagio gorgoglia dalla sua gola mentre fili di bava e di lussuria escono dalle sue labbra. Il pesante silenzio che avvolge ogni cosa è lacerato dal respiro ansimante dell’uomo e mentre la luna avvolge di luce opalescente i due corpi distesi nel letto, un debole bagliore saetta nell’aria. Quindi in rapida successione, uno, due, sei colpi di pistola e lo stupore incredulo che distende i lineamenti aggrottati del volto e si scioglie nell’immobilità della morte. E mentre come una ninna nanna, la voce della donna, dolce e sommessa ripete: «C’era una volta…», la sua mano corre a sfiorare il ventre impercettibilmente rigonfio in una carezza piena d’amore.
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Cinzia Baldini
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