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Ci muoviamo lenti attraverso i cumuli nella strada. Oggi che il vento tira prepotente, l’odore è quasi dolce.
Sacchi sfondati stanno flosci ai lati, accerchiati da grossi copertoni di camion, bottiglie di plastica e di vetro, lattine d’olio e di coca cola, profilattici usati, carta, carta in quantità, fogli di giornale, di libri, cartone, buste sottili, forse lettere strappate. Ci sono anche montagnole di metallo, contorto e arrugginito, il vento le trova e le suona come strumenti antichi. Sono le sei del mattino. E’ l’ora migliore.
Chi doveva venire è già venuto. I predatori saranno già nei loro rifugi a selezionare la roba. Si muovono presto, vengono quando al notte è ancora a metà. Sono pericolosi, se li incontri intenti a cercare.
I servi dei ricchi portano la roba appena fa buio. Noi tutti stiamo nelle nostre case a spiarli, non ci è permesso avere contatti con loro, rischiamo la vita, è la legge e poi comunque sono anche armati.
I predatori escono non appena quelli se ne vanno. Hanno le tute spesse, i predatori. Hanno i mezzi apposta, che sanno far andare ancora. Escono e cercano. Non si può ostacolare il loro lavoro. A tarda mattinata, quando la loro selezione è finita, vengono nei nostri rioni a venderci la roba. Spesso scambiamo le loro cose con ciò che produciamo noi. Frutta insipida, ortaggi smunti, topi magri. E’ tutto quello che abbiamo per vivere, e tutta la nostra merce di scambio. In cambio riceviamo oggetti utili, pentole, scatole, a volte elettrodomestici ancora funzionanti. Per chi se li può permettere. Per chi sa come farli andare, visto che non c’è corrente e bisogna inventarsela.
Alle sei del mattino il borgo è tranquillo. Uccelli roteano e scendono in picchiata tra i vicoli, ma a noi non badano, se no raramente. Quando sono davvero affamati. L’odore è intenso ma dolciastro. Ancora non stagna il fumo nero della città alta, ancora non l’ha portato l’aria calda delle macchine accese laggiù.
Usciamo tenendoci stretti. Abbiamo dormito tutti assieme come sempre e mia nonna sta iniziando a morire. Ho dormito male perché lei si lamentava tutto il tempo. Le gambe se ne stanno andando ormai, sono viola e gonfie. Sarà difficile trovare dove seppellirla e forse saremo costretti a rivolgerci agli uccelli.
Passo dalla sua casa e lei è già pronta. E’ il nostro primo vero appuntamento. Ci siamo conosciuti qualche giorno fa. Stavamo rispettivamente con le nostre famiglie al campo del pozzo. Mi disse che era un mese neanche che s’erano trasferiti. Dalla costa verso qui, verso l’entroterra. Mi disse che la costa ormai è invivibile, e il mare scuro come la notte non dava più niente. I pesci galleggiavano gonfi e morti e immangiabili.
Fui contento di parlare con lei. C’era del morbido nelle sue parole taglienti, e come mi guardò bastò a farmela piacere. “Finalmente una donna vera” pensai mentre le stringevo la mano. Ci demmo appuntamento per stamattina.
Nei giorni scorsi io ho preparato il nido. Ho cercato il punto migliore. Ho raccolto, finito il lavoro nel campo del pozzo e in quello del cibo, i materiali utili. Ho trovato i resti di un materasso nella parte più profonda del borgo, lungo la vallata delle serpi. Non è stato facile portalo su. Stoffe lunghe e spesse le ho prese da un rudere di camion ancorato lungo la strada verso il paese più vicino. Le ho strappate con le mani e coi denti, quel tanto che bastava.
Ho portato del cibo, che tengo ben legato sotto la maglia. Dell’acqua. Sarà già calda, ma utile lo stesso.
Ho predisposto tutto. Ho creato il nostro angolo d’amore. E l’ho nascosto ben bene, dietro la montagna di plastica e di relitti d’auto, dove non ci si spinge mai nessuno. Voglio che sia tutto perfetto, che noi si possa stare bene.
Arriviamo che il sole fa già bruciore sulla pelle. Le tende ci eviteranno le ustioni. Farà sicuramente un caldo soffocante, dentro, ma eviteremo il contatto diretto sul corpo. Saremo nudi. Avremo acqua.
Le mostro il nido. Sembra stupita e toccata.
“Ma quando l’hai fatto?” mi chiede con una voce di cristallo.
“Nei giorni scorsi”
“Sei stato bravo”
“Avevo voglia di te”.
Ci spogliamo sotto il tendaggio che ho fatto attorno al materasso. Ho usato aste di legno marcio, pezzi di telaio di biciclette e di moto. L’ ho forato in basso per permettere l’ingresso dell’aria.
“Fa caldo, però staremo bene”
Iniziamo a spogliarci lentamente. Tra poco le mostrerò la vera sorpresa che ho disposto per lei. Quando è nuda, nuda in tutto, spoglie braccia nere, gambe gonfie, il petto ricoperto da una fuliggine come la mia, i capelli attaccati (l’aria che ci avvolge e che non si può eliminare, te la porti addosso sempre, da che nasci), io vedo quanto sia davvero bella. Il suo senso è gonfio, è stata incinta poco fa, ha partorito e sfamato la famiglia, era il suo turno. Ha i seni pieni di latte ancora. Me lo ha detto come a suggerirmi che mi avrebbe fatto un dono in più.
Mi eccito nel vedere come si sfrega e si gratta la pancia, in un automatismo di gesti che noi conosciamo tutti. La pelle prude e uno ci fa l’abitudine. La gratto io, adesso, e lei lo fa a me. E’ piacevole riceverlo.
Si stende sul materasso, ho cercato di tagliare le molle sporgenti, ho fatto quello che potevo.
Si stende e prima di salirle sopra, tiro fuori dalla tasca nascosta la boccetta che ho comprato a costo di un duro sacrificio. Ho sacrificato il mio cane per quella boccetta. E’ piena quasi fino a metà di un vecchio profumo. E’ scaduto, come dice la scritta. Ma ha un profumo meraviglioso, uno dei più fantastici profumi che io abbia mai sentito.
“Senti” le dico ansioso “questo è per te: puoi tenerlo tutto. Ne spruzzo un po’ qui, adesso. Per stare bene”.
Lei non crede ai suoi occhi, al suo naso. Appena vaporizzo quell’aroma, chiudiamo gli occhi. E’ qualcosa che ha a che fare col paradiso, forse colla nostra infanzia. Le vengono le lacrime.
La bacio in bocca, sulle labbra screpolate e aperte in tagli profondi rosso vivo.
Le sono sopra, la monto veloce. Spingo. Lei mi cinge le braccia sulla schiena e mi preme forte a sé, forte, stretto, senza respiro. Spingo. Le mie gambe veloci sfregano contro le sue, mentre il mio cazzo la apre e non trova resistenze. Gode e grida, e dice parole sue della sua lingua, quelle della costa. Sono parole belle a sentirsi anche se non ne conosco il significato.
La giro diverse volte, la prendo da sopra, l’appiattisco sotto di me, sulla pancia, le tiro i capelli attaccati tra loro, e le mordo l’orecchio, il collo. Sa di legno bagnato, di pioggia acida e del mio profumo. Più di tutto del mio profumo. Mi inebria. Mi pare di stare amando una donna di su, della città alta. Chiudo gli occhi e la vedo bianca, la pelle linda come è impossibile che sia, una statua levigata di rosa, una liscia conchiglia aperta.
Le sono sopra. Con fragore ed impeto, mi spingo attraverso il suo buco come a cercare riparo in lei, e dentro questo odore di celeste, di passato, di giorno e di notte, di un mare terso come il cielo di vecchissime foto, dentro il profumo di cui ci siamo avvolti, nel nido che sta roteando, io e lei e il mondo che si disfa fuori, sempre più colmo dei suoi resti, sempre più devastato.
Vengo svuotandomi, facendo uscire la mia rabbia, muta, la mia voglia di esistere, e donandogliela.
Il verde del mio sperma la ricopre dalla pancia al viso. Ci sdraiamo di fianco.
Riprendiamo forza bevendo insieme il suo latte.
©
Vito Ferro
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