Ho visto un luogo, eccellente.
E’ racchiuso tra massi precipitati dalle montagne lontane, all’interno alcune canne di bambù, alberi sottili e alti, cespugli di more, un rigagnolo d’acqua confluiva in una pozza, grilli salterelli, cicale, farfalle, api e lui, un fauno.
Era caldo, un pomeriggio fermo dal gusto di barolo, il calore che inalavo andava a mettersi al posto del sangue. Sotto i piedi, piccoli scricchiolii. Camminavo sopra un immenso sommerso, micro natura scossa dal mio incedere lento. Fili d’erba rimanevano incollati alle caviglie umide, le mani scompigliavano le fluorescenze di una vegetazione pronta a disperdersi nel primo vento.
Alle orecchie, oltre ai versi dei piccoli insetti una melodia, acuta, lineare, dolce.
Cercai di direzionare le orecchie come potrebbe fare un lupo verso quel suono di strumento, girai su me stessa parecchie volte ma il suono si spostava di continuo. Ora proveniva dalla roccia lì in fondo, ora da dietro quest’albero frondoso, insomma, ero curiosa e felice di trovarmi in quel luogo.
Poi, vicino ai bambù che superavano di un palmo l’altezza di un uomo, dove le radici prendevano un po’ d’acqua, all’ombra, scorsi il profilo inconfondibile. Un fauno, in perfetta armonia con il paesaggio, suonava il flauto.
Lo so, è fuori dai canoni affermare che era bellissimo, ma lo era! Il profilo del viso lungo, fronte e naso su un’unica retta che però rientrava sopra le lebbra con le alette delle narici ben dilatate e la bocca, ben formata, si allungava sulle guancie, all’insù. Il mento, benché ricoperto dalla barbetta caprina, era spiovente e ricadeva sul collo taurino. I capelli annodati, sulla nuca si fondevano alla peluria mascolina della schiena. Accovacciato a terra, le zampe muscolose erano ispide. Lucenti gli zoccoli.
Prima roteò gli occhi su di me, occhi lucidi, intensi, provocatori, poi lentamente si voltò e smise di suonare solamente per liberare la bocca e arricciarla in un sorriso. Accattivante, delizioso, mi guardava e una grande attrazione mi fece procedere verso lui.
Nei suoi occhi vedo me, rigida, una montagna di giudizio, etica, morale, coscienza. Un moto sussultorio arrivava fino ai miei piedi, le ginocchia cedono, il ventre si scalda, l’aria non mi basta.
Di nuovo il fauno libera schegge che trafiggono quest’aria spessa. Mentre all’orecchio arriva il turbine sonoro che mi riporta a me stessa, il turbine al ventre è tutt’altra cosa. Quella cosa che credevo dissennatezza, allontanata come una malattia era lì, davanti a me, e voleva essere ascoltata. E’ come se dicesse “sono una cosa naturale, al di la del tuo controllo.”
Disposta a tutto, avevo un tarlo che girava ancora nelle circonvulsioni del mio cervello (o dovrei dire intestino?) e cioè chi mi garantiva che non avrei sofferto dato che i fauni quando sono disturbati durante il loro riposo pomeridiano, mordono? Però anche questo dubbio volò via, come una farfalla, le mosche, le api. Tutto si mosse, si spostò di posto, strisciò via, ciascun passo del mio lento incedere allontanò le altre creature da noi, losciandoci soli.
I suoi occhi nei miei, terre inesplorate tempi astrali onde violente dalle spume calde, pruriginose, bellezza.
Profondo marino
Nero
Opaco
Guizzante
Chimerico
Come una ninfa, selvatica, danzo tra le onde di questa sorgente illusoria. Immaginata.
La mia pelle è liscia e la schiuma del mare crepita sulle braccia, sul viso, l’anca.
Immagino di essere dipinta. Alcuni scogli sullo sfondo, una baia verdeggiante sulla destra, blu oltremare screziato da bianco piombo delle nuvole, aria, aria tra le canne e l’acqua, onde schiumose intralciate dal mio corpo che guizza veloce e respira acqua salata.
Immagino che il fauno si sia nascosto tra le canne per osservarmi lasciandomi intatte tutte le facoltà di giudizio e di condotta. Lui mi sta inserendo in un dipinto dove, se sbircio, sono bellissima.