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Doveva scattare l’input giusto per decidermi ad un viaggetto perlustrativo. E, come succedeva anche nei miei vent’anni gloriosi, stavolta c’é voluto il richiamo psicoemotivo. La voglia dei revival sentimentali. Revival, poi. Se così si può chiamare. M’ha sballato il cervello il vizio di contattare collezionisti ed esperti di musica contemporanea che sanno tutto di dischi ed interpreti sfornati dal dopoguerra in poi.
Contattandoli via e-mail per rimpolpare il background per i miei articoli e percorsi di costume nell’Italia e dintorni, ho riscoperto un mio vecchio idolo, tuffandomi a riascoltare un bel gruzzolo di suoi successi. Ha fatto parte di un gruppo musicale. Uno di quelli nati e poi spariti nel corso di poche stagioni. Ma per me è stato uno importante che m’ha attraversato e spennellato di colori vulcanici l’adolescenza, guarendomi dalle inevitabili giornate grigie che ti regala il primo impatto col mondo dei coetanei, spietato ed incurante delle tue fantasie da idealista folle. Strimpellavo i primi accordi di chitarra, scrivevo qualche articolo sognando di pubblicarlo sui mensili che andavano forte all’epoca, Tuttamusica su tutti.
M’ero messa a fantasticare su Bill che non era neppure il leader di quella formazione. Ma mi aveva colpito il suo sguardo azzurro, un po’ miope dietro quegli occhialetti ed i capelli tagliati corti col ciuffo castanobiondo dritto.
M’aveva conquistato quella sua aria da ragazzo acqua e sapone che contrastava un po’ i ceffi ribelli che avrei amato appena un paio d’anni dopo con l’era sfrontata dei capelloni beat. Per me che avevo 14 anni, un carisma ed un sex-appeal ancora tutto da conquistare, lui restava quasi inaccessibile. Non ero tanto avventurosa da spingermi fino a cercarlo mentre se ne andava in giro per l’Italia e più che scrivere una lettera alla casa discografica e sperare che un’anima pia mi spedisse almeno una foto sua e del gruppo, in riscontro, non andavo. Riuscii perfino a vederlo, invece.
Un po’ di sfuggita, immersa com’ero in un dialogo in ogni caso problematico per me con il leader della sua band, molto più ciarliero e forse cinico di lui, addetto alle pubbliche relazioni. Il capobanda che era rimasto colpito dal tono della mia lettera e cercava d’indagare come e perché loro m’avevano scioccata e che diavolo di fantasie mi facevo, garantito che se lo domandava inquadrandomi con quell’aria impacciata e bamboccia che sfoggiavo ai tempi. Incapace di valorizzare quel po’ di buono che potevo ritrovarmi. Lui, Bill intendo, mi arrivò davanti all’improvviso. Con quel suo passo felpato e un po’ timido come lo sguardo azzurro dietro gli occhialetti e riuscii a scambiarci appena due parole, beandomi di quella sua parlata nordica con la “erre” un po’ arrotata, bloccata com’ero dall’emozione e il timore reverenziale. Era meglio se mi capitava qualche anno dopo, quand’ero libera di complessi e trasformata in un’intervistatrice d’assalto, consapevole del bel fisico e dell’atteggiamento d’aggancio disinvolto che m’ero conquistata. Ma in quel periodo ormai lui era sparito dall’orizzonte musicale.
Per tutto il viaggio ha fatto un caldo boja e mi sono stramaledetta per aver scelto un pomeriggio d’estate balordo per un happening attraverso l’appennino tosco-emiliano. Vedo l’insegna del casello e m’incuneo con un sospiro di sollievo. Ce l’ho fatta. Ho sbocconcellato un panino con succo d’ananas all’autogrill mezz’ora fa, immaginando cosa dirgli al telefono e come presentarmi. Ora mi addentro con il mio fuoristrada per una stradina, seguendo le indicazioni e penso a come ho scoperto il suo numero. Dopo il dialogo col mio amico collezionista che m’ha rinfocolato la passione, ho cliccato sulle pagine bianche di Virgilio ed ho digitato il suo nome. Dopo un paio di tentativi, ho beccato il suo indirizzo. Qualche occhiata vorace alla cartina stradale ed eccomi a due passi da lui. E’ un sabato sera. Magari ci sono poche possibilità di beccarlo a quest’ora. Come niente è uscito. Ma sono pronta ad attendere, trovarmi posto in qualche hotel, pur di assaporarmi questo viaggio all’indietro nei tempo alla conquista degli amori mai condotti in porto.
Deve essere poco più avanti. Una stradina, un piccolo parcheggio. Una serranda semiabbassata ed una vetrata. Mi sa che è qui. Spengo il motore. Tiro fuori il telefonino e compongo il numero, dopo averlo controllato sull’agendina. Due squilli, una voce che risponde. Neppure mi domando se potrò incappare in una moglie gelosa. Non posso farmi certi scrupoli, ormai. Dopo tutti questi chilometri sotto il sole fino a sfiorare la notte.
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L’uomo se ne stava con i gomiti sul tavolo ed ogni tanto scartabellava vecchi appunti. La TV era accesa su un vecchio film ma lui gli degnava appena un’occhiata, ogni tanto. Non capiva bene perché aveva deciso di restarsene lì, quella sera snobbando anche l’offerta di bere qualcosa al pub di Johnny che era l’unico amico vero che gli era rimasto ed aveva aperto quel piccolo localetto su in collina che risfoderava un po’ le vecchie follie degli anni 50 e 60, flipper, juke box con canzoni d’epoca, biliardo, calciobalilla. Di solito ci capitava qualche ragazzino un po’ imbranato che evitava le discoteche verso il mare, qualche volta un piccolo stuolo di signore un po’ avanti con gli anni alla ricerca d’avventure erotiche a buon mercato e le solite caricature dei vecchietti dell’ west che raccontavano storie di guerre mai combattute e si fiondavano sul tressette e la briscola neanche fossero giochi da casinò. Stava suonando il telefono. Si allungava verso l’angolo del vecchio tavolo in noce, un po’ scrostato per raggiungerlo. Chi diavolo chiamava a quell’ora, il sabato sera? Pensava che forse era Johnny che riprovava a cercarlo. Si schiariva appena la voce. “Pronto...” Un silenzio, dall’altra parte. Qualcuno stava vivendosi la sua crisi d’impatto interpersonale. Poi un breve respiro affannato ed una voce femminile. “Pronto.. sei Bill?”
L’uomo non riusciva a tradire un sorriso. Era tanto che nessuno lo chiamava con quel nome. Ormai tutti, accennando a lui, dicevano “il signor Maffucci” o semplicemente Guglielmo e per gli amici più intimi era semplicemente Willy o Lupo Solitario. Quel “Bill” era come una miccia che esplodeva nel silenzio della notte. “Sono io...chi parla?” Poi stava a sentire, tamburellando sul tavolo. C’era una tipa dall’altro capo che parlava di un incontro di troppi anni fa. Quando lui era una promessa dell’industria discografica italiana e si godeva qualche exploit col suo gruppo. S’erano incontrati...un pomeriggio a metà degli anni 60. Lei era una ragazzina imbranata, lui un 25enne un po’ troppo stravolto dal successo improvviso, antidivo com’era e nascondeva l’emozione in quello sguardo miope.
“Certo che é un bel colpo, venirmi a cercare dopo tanto tempo...avevo proprio l’aria dei Principe Azzurro per te? Non ti piaceva più Vandelli dell’Equipe o la voce-guida dei Camaleonti?” Parlava cercando di fare il duro, mirava a smontarla. Ascoltava le sue risposte. Gli piaceva lui proprio perché aveva quell’aria apparentemente innocente, un po’ fuori dal mondo. Forse rispecchiava un po’ se stessa, immersa in quell’età ingrata che è l’adolescenza. L’uomo allungava le gambe su una sedia. Si accendeva una sigaretta. “Perché ho mollato la musica? Mah...non era più il momento. Avevamo esaurito il nostro repertorio. Non ci andava di buttarci sul beat... Eppoi avevo avviato una mia attività…..Quale? M’ero buttato nel commercio di pelli.” Ascoltava e ridacchiava un po’. “E’ vero...proprio un salto in un altro pianeta. Ma andava bene, come attività. Sono stato anche all’estero. Ed ora ho messo su una grossa industria. Faccio su e giù fra qui e il resto del mondo. Sono il boss di una grossa industria d’abbigliamento per giovani. Il mercato inglese non ha più segreti per me.” Fumava e inseguiva nuvole di fumo che salivano verso il soffitto. “Sposato? Sì...all’epoca ero sposato con Linda. Poi ci siamo lasciati ed ho preso a convivere con Jodie, conosciuta in un viaggio a Liverpool. Mi ha dato altri tre figli ed ora sono totalmente preso dal lavoro, ogni tanto porto i nipotini sul mio piccolo yacht...”
Stava in silenzio ad ascoltare la tipa che s’era un po’ stranita, forse non s’aspettava quella virata improvvisa. “Beh...d’altronde l’età per essere nonno, ce l’ho. Ma qualche avventura me la concedo ancora, quando vado all’estero. E’ qui in Italia che ho sempre il fiato sul collo. Non so se è più gelosa Jodie o mia nuora Monica che sotto sotto ama più me di mio figlio....” Ridacchiava e si versava un po’ di bourbon dalla bottiglia sul tavolo, senza mollare il telefono. “Come sono oggi? Beh...ho ancora tutti i capelli anche se un po’ più argentati...Evito il lambrusco e i tortellini per mantenermi abbastanza asciutto e mi vesto sportivo....Insomma, sono un matusa apprezzabile per dirla col linguaggio di quei tempi...“ Tamburellava ancora sul tavolo e si guardava attorno sconcertato. “...Vederci? Eh...é un po’ dura...Mi hai beccato per miracolo. Fra poco, qui a casa ho una cena di lavoro. No...nessuna teenager da sballo che mi trascina nelle discoteche di Riccione...Figurati le mie donne che casino monterebbero...Però mi ha fatto piacere, sentirti. Sarebbe stato bello ricordare quei tempi gloriosi....” Un altro sorso di bourbon, inghiottito con una smorfia. “Davvero ogni tanto ascolti ancora i nostri dischi? Io non ho voluto più sentirli invece. E’ un momento chiuso. Si va avanti”.
Un “Ciao, ci si risente”. Un numero scribacchiato su un foglio, quello della tipa. Stracciato all’istante. Poi lo sguardo fisso nel vuoto. Voglia di assopirsi e non pensare a nulla. L’industria, la moglie inglese gelosa, la nuora innamorata di lui. Tutte belle storie per camuffare una realtà insopportabile. Quel piccolo laboratorio di pellami aperto col socio giovane, appena il momento d’oro del gruppo musicale cominciava a smarrirsi contro l’ondata beat. I compagni di band che prendevano altre strade. Lui che non aveva voglia d’avventurarsi. La paura di sbagliare che gli prendeva la mano.
In fondo non era mai stato un divo, meglio adattarsi ad un mestiere meno spericolato. La chitarra gettata in un angolo e quella piccola impresa avviata senza troppo entusiasmo. Il socio più coraggioso di lui che si faceva largo ed apriva un’altra piccola industria mirando al mercato straniero. Lui che restava a dirigere un paio di garzoni fabbricando guanti scadenti per motociclisti di provincia e giubbotti destinati al mercato del sabato, roba sottocosto.
Poi, quella maledetta sera un cortocircuito che mandava a fuoco un’apparecchiatura difettosa e lui che si sentiva raggiungere da quelle schegge bollenti. Sentiva come uno schiaffo rovente sul viso. Lo portavano via con l’autoambulanza e rimaneva un bel pezzo al reparto ustionati. Gli ci sarebbe voluta una plastica per guarire quei due sfregi sulla guancia destra. Quando aveva visto in cassetta “L’uomo senza volto” era scoppiato a piangere.
Linda ormai s’era imbarcata in una storia col suo socio giovane e gli aveva portato via anche il figlio, convincendolo che i compagni l’avrebbero messo al bando a vita, con quel padre ridotto a mostro da baraccone. Era rimasto a gestire quel piccolo deposito, dando lavoro a qualche apprendista, vivendo del poco denaro che racimolavano, cominciando ad odiare gli sguardi intrusivi della gente e soprattutto cercando di dimenticare il momento del boom quando gli si aprivano tutte le porte e col suo sguardo schivo ed azzurro dietro gli occhialetti assaporava la magia del successo. Fortuna che la sua storia non era uscita dai ristretti confini della provincia. Non erano venuti a stanarlo per gettare in pasto la sua tragedia alle cronache o parlarne nei salotti televisivi assatanati di scandali.
Ed ora quella voce femminile che riemergeva dal passato. Ormai sarà una donna adulta anche lei. Magari una bella donna. Gli ha accennato che scrive. Sarà anche un tipo sensibile, profondo. Forse gli avrebbe fatto bene passare una serata con lei. Sarebbe rinato. Ma sapeva che avrebbe sentito come un bisturi doloroso, rimestare nella piaga della memoria e non avrebbe trattenuto un grido disperato. Meglio affogare tutto nell’alcol e non fermarsi a pensare. Si alzava lentamente, chiudeva tutto ed usciva a respirare un po’ di fresco. Fuori era buio, appena due fanali accesi nella notte.
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Stavo quasi per ripartire quando vidi quell’ombra avanzare lungo il piccolo sentiero. Ero decisa ad andarmene, ormai. Lui era perso. Industriale arricchito e circondato dalle attenzioni femminili. L’età matura gli aveva portato gloria e successo anche se aveva mollato la chitarra ed il microfono. Avevo il nodo alla gola. Un viaggio a vuoto. Avevo spiato oltre la serranda, non riuscendo ad intravedere che una luce fioca accesa. Oltre quel piccolo magazzino doveva esserci lo stabilimento e forse la sua casa, riuscivo ad intravedere i piani alti illuminati, oltre quel deposito dimesso. Era lì che aveva istallato il suo regno di piccolo magnate.
Non dovevo avventurarmi senza sapere. M’aveva preso un raptus dei miei soliti da eterno Peterpan. Volevo volare anche senza ali. Acciuffare le nuvole anche sapendo che non si sarebbero mai fatte strappare. Velleitaria e destinata a ricadere al suolo, Icaro pretenzioso. M’ero sognata una serata fra un sorso di cocktail ed un sorriso, a ricordare i successi dei bei tempi con lui che si faceva perdonare quel pomeriggio sbagliato di tanti anni fa, avvolgendomi in un’atmosfera di revival tempestoso.
Avrebbe dovuto bastarmi la mia vita d’oggi. Macché.
Vedevo l’ombra che s’avvicinava e sporgevo la testa fuori dal finestrino. Avanzava a passi lenti, quasi annoiati. Timorosi. Si guardava attorno. M’accorgevo che ruotava la testa a destra e a sinistra come a spiare se c’era qualcuno là in giro. Mentre si avvicinava, vedevo materializzarsi la sagoma d’un uomo adulto, abbastanza robusto, un po’ appesantito dagli anni. La maglietta un po’ sbrindellata e vecchi jeans logori.Forse è un vagabondo o il guardiano del magazzino. Passava poco distante la mia macchina. Mi sporgevo per guardarlo meglio. I capelli argentati e la barba un po’ lunga sulle guance....Mi sentivo scossa. Su una guancia, come due crudeli pennellate del destino, due cicatrici. Due sfregi spaventosi. Mi riveniva in mente il film “L’uomo senza volto”. Avevo come un brivido. Si girava verso di me, forse attratto da quei fanali accesi. Ero rimasta ad aspettare, ripensando alla telefonata, prima di ripartire.
Ed in un attimo, quello sguardo chiaro dietro due lenti colorfumo mi spalancava un oceano di dubbi. Stavo per scendere dalla macchina, chiamarlo. Ma vedevo che lui tentennava un attimo, poi proseguiva. Aveva l’aria di un uomo sofferente, impaurito dal destino che non gli aveva risparmiato colpi fatali.
Accendevo il motore, partivo e gli passavo davanti. Si girava ancora un minuto a fissarmi. Era quello sguardo chiaro, sempre quello sguardo chiaro, a tradirlo. Gli regalavo un sorriso tenero, quasi una carezza affettuosa al posto di quel salto in un mondo di memoria magica che aveva paura di compiere. In fondo, erano simili a queste sue d’oggi più concrete, più visibili, le ferite dell’anima che mi portavo dentro ai tempi del nostro primo incontro.
Lontano, fra le luci più forti, era autostrada. Mandavo giù il groppo alla gola che m’avrebbe detto di restare e m’inoltravo lungo il sentiero. Fa sempre un male cane, lasciarsi alle spalle un’ipotesi di vita.
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Patricia Wolf
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Prefazione / Indice / Scheda
Verrà l'alba e avrà il suono di una radiosveglia di Patricia Wolf
2011 pg. 191 - A5 (13,5X21) BROSSURATO
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Il racconto sta al romanzo come i cento e i duecento metri stanno alla maratona.
Io amo l’immediatezza, la velocità e lo scatto rabbioso. (…)
Altre informazioni / L'autore
Il racconto sta al romanzo come i cento e i duecento metri stanno alla maratona.
Io amo l’immediatezza, la velocità e lo scatto rabbioso. (…) Forse è perché mi sento più Berruti o Mennea piuttosto che Abebe Bikila, che ho scelto il racconto come forma espressiva e nel racconto concentro tutta la foga, la rabbia e la poesia di cui mi sento capace. (...)
Nel racconto c’è uno slancio corto e improvviso che ti catapulta a testa in giù, nel culmine dell’abisso e può farti scorgere splendidi fondali marini da cui riemergere, con un altro balzo verso l’alto, pugni protesi verso il cielo, quasi rigenerato da quel viaggio rapidissimo nel tuo inconscio.
(P.W.)
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Verrà l'alba e avrà il suono di una radiosveglia di Patricia Wolf
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Nel racconto c’è uno slancio corto e improvviso che ti catapulta a testa in giù, nel culmine dell’abisso e può farti scorgere splendidi fondali marini da cui riemergere, con un altro balzo verso l’alto, pugni protesi verso il cielo, quasi rigenerato da quel viaggio rapidissimo nel tuo inconscio.
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