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Ti prego non tornare mai più
di Sabina Marchesi
Pubblicato su PB9


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E’ da un pezzo ormai che nessuno mi viene più a trovare. Allmeno non come prima, quando ero in quell’altro posto, in quell’ospedale tutto bianco pieno di luce con quei corridoi lunghi lunghi che non finivano mai.

Oh la mamma, lei viene sempre, lo so. Anche quando dormo, lo sento che lei c’è. Lei è ancora con me, ma gli altri no. Non vengono più a trovarmi da tanto, tanto tempo.

Qui poi non è bello come il posto dove stavo prima. Proprio non mi piace. Ma mi sono abituato, ora che ho imparato le regole e gli orari, adesso che so come devo muovermi, quello che devo fare, quello che posso e che non posso rischiare, ora va tutto molto meglio di prima.

Beh, io li sento quelli che sono appena arrivati quanto piangono, e come si sentono soli, poverini, ma poi dopo un po’ li vado a trovare e gli spiego come funziona, gli dico quello che devono fare, come devono comportarsi, e dopo anche loro si sentono meglio, almeno un poco.

Quello che non mi va proprio giù è che qui non è tanto allegro, non ci sono quei dottori con il naso da pagliaccio, e nemmeno le infermiere vestite da befana, ma se mi hanno mandato qui immagino sia un posto buono quanto un altro, del resto quando si è ammalati da tanto tempo come me, queste cose diventano molto meno importanti.

Ci sono bei viali pieni di alberi, tanto verde, e la mattina presto si sta bene davvero, c’è in giro un’aria fina che sembra primavera, ma ormai non mi ci raccapezzo più col trascorrere del tempo, e a volte non so più che stagione è, tanto i miei giorni ormai sono tutti uguali, o quasi.

Quando viene la mamma lei mi parla sempre tanto, e mi porta tutti i miei giochi, i miei pupazzi e le costruzioni lego. Lei lo sa quanto mi piacciono. La mamma mi ha capito sempre. Anche quando sono scappato dal mio lettino e mi sono arrampicato sulla scala antincendio, e tutti si sono arrabbiati. Ma a lei non importava se invece di morire di leucemia io fossi morto cadendo dal tetto. Io lo so questo. Invece al Papà e a tutti gli altri è sembrata una differenza fondamentale.

Ma cosa credono? Che anche se ho solo otto anni, io non lo sappia che tanto ci devo morire in questo posto? E in questo posto o in un altro, nel lettino attaccato a tutti quei tubi, o cadendo dalla scala antincendio in mezzo al cortile, che importanza volete che abbia?

Insomma è andata così, io sono scappato, e il personale, le infermiere e i dottori, tutti si sono agitati e hanno cominciato a cercarmi dappertutto, poi hanno sentito la gente gridare, mi hanno visto, e dopo, dopo mi hanno portato qui in questo altro posto.

Non so nemmeno quanto tempo sia passato, forse non ho nemmeno più otto anni, ne avrei dovuti compiere nove, ma non sono sicuro perché nessuno è venuto a festeggiarmi e allora forse mi sbaglio.

Sì lo so che a un bambino malato non è che si stiano a portare torte e candeline, ma immagino che almeno la mia mamma se lo sarebbe dovuto ricordare che era il mio compleanno, ma non è venuta nemmeno lei.

E questo è strano. Certo che ora ha da fare col bambino nuovo è sempre tanto stanca quando viene. Io la vedo che ha gli occhi segnati e la faccia tirata, e la vorrei abbracciare ma se lo faccio poi si mette a piangere. Forse non sta bene che io lo chiami il bambino nuovo, in fondo è mio fratello, ma io non lo conosco, non l’ho mai visto, qui da me non l’hanno mai portato.

Immagino non sia posto questo adatto per i bambini, tranne me, che ovviamente ci devo stare per forza e poi, in fondo, nemmeno io ce lo vorrei.

Dunque dopotutto hanno fatto bene a non portarlo. Ma non mi piace vedere la mamma tanto stanca e triste. Quando c’ero io a casa ci facevamo tante risate assieme. Lei giocava con me sul tappeto, mi aiutava a costruire quelle torri altissime, e le si illuminavano gli occhi.

Allora sì che era bellissima, aveva qualcosa che le rideva dentro. Ma ora no. Non sembra più lei, e ogni volta che viene si mette a piangere e non si ferma più e allora alla fine il Papà le si avvicina e la trascina via e le dice: “Ti avevo detto di non venire, no? Lo vedi che ti fa solo male?”

E io sono lì e non posso dire niente. Ecco di tutte le cose questa è quella che fa più male: non poterle parlare.

L'ho detto anche a quel ragazzo che è arrivato ieri. Lui è caduto con la moto in autostrada, e la sua unica preoccupazione è che si è ferito al viso nell’incidente e ha paura che la sua ragazza ora non lo voglia più.

Io ho cercato di spiegargli che non è certo la sua faccia il problema, ma è stato inutile. Lui è appena arrivato. Gli ci vorrà tempo per raccapezzarsi e per capire come funzionano le cose, qua dentro.

Io ormai sono bravissimo. Ho capito tutto, so come funziona. Ho imparato a conoscere gli orari, i turni, e il personale. Ormai sgattaiolo via quando voglio, e so sempre quando è ora di tornare prima che qualcuno se ne accorga e cominci a fare storie. Ho individuato anche tra il personale di turno quali sono gli elementi più tranquilli, quelli che se anche mi vedono sgattaiolare via e poi tornare indietro, non fanno baccano e non dicono niente. Anzi uno di loro l’altra notte mi ha pure strizzato l’occhio e mi ha detto: “vai, piccolo mio, vai dalla tua mamma….”

Ma io quando scappo non vado dalla mia mamma, perché lei piangerebbe troppo se mi vedesse andarmene in giro con tutti quei tubicini attaccati, e le cicatrici dove mi hanno ricucito. Io vado a giocare, con le mie costruzioni, vado a far salire ancora un poco la mia torre di lego, un pezzo alla volta. Proprio come facevo quando ero ancora a casa e mi alzavo la notte a lavorare alla torre, un piano e poi l’altro, a piedi nudi, senza farmi sentire, e poi la rismontavo perché la mamma non si accorgesse che mi ero alzato e non stesse a prendersi pena per me. Ma lei se ne accorgeva lo stesso.

E adesso faccio la stessa cosa, me ne vado a giocare coi miei lego e alzo la torre e poi la rismonto perché la mamma non abbia modo di accorgersene. Ma lei secondo me lo sa bene, perché ogni volta che vado ci trovo sempre dei pezzi nuovi fiammanti. I giunti, i cardini, le finiture, i ponti, tutti quelli che a me piacciono tanto, e dunque la mamma lo sa, che vado a giocare, se no non li comprerebbe, perché il bambino nuovo è troppo piccolo ancora per giocare con queste cose.

Ieri notte l’ho incontrato il bambino nuovo, e l’ho anche morso, temo. Lo so che non avrei dovuto, ma stava toccando i miei giochi, e io non voglio che li tocchi. Sono MIEI.

Quando sono tornato ero molto dispiaciuto e gliel’ho raccontato a quel ragazzo della moto. Gli ho detto: “ lo vedi che non è tanto lo stato della tua faccia il problema, il problema è che ora non riesci più a parlarci con la tua famiglia, tu vuoi dirgli tante cose ma non puoi”.

Se no io glielo direi alla mia mamma che mi dispiace tanto averlo morso, quando si è messo a piangere avrei tanto voluto non averlo fatto, ma poi è arrivata la mamma e c’era anche il papà con lei, e lui non avrebbe mica capito, così sono dovuto scappare via, ed ora sono spaventatissimo perché so che succederà qualcosa di tremendo adesso, me lo sento.

Oh, quel ragazzo, lui ha tentato di consolarmi, ma io lo so che ormai non c’è rimedio. Il fatto è che non avrei dovuto morderlo, ecco! E’ pure carino, mi somiglia anche, è quasi uguale a me com’ero da piccolo nelle foto che la mamma mi faceva vedere sempre.

Oggi è venuta la mamma e mi ha portato tutta la torre lego, bella montata, che arrivava quasi al soffitto, ha pianto un poco, ha messo in cima alla torre una busta ed è andata via lentamente ma senza mai voltarsi indietro.

Ho paura di leggere, ma so già quello che c’è scritto, per filo e per segno: io la mamma la conosco bene.

Sulla busta c’è scritto: “ Ti Prego Non Tornare Mai Più” e il biglietto dice: “ Lo so che tu vieni a casa a giocare la notte, come quando ti alzavi dal letto e facevi salire la torre e poi la disfacevi pensando che io non me ne sarei accorta, ma io lo sapevo, come so che adesso torni da noi, e ti ho sempre aspettato sperando di vederti, ma ieri notte hai spaventato il fratellino così tanto che abbiamo dovuto chiamare il dottore, quello che curava anche te, e non riuscivamo a calmarlo, e per questo io ti dico bambino mio, non tornare più da noi: Ti Prego Non Tornare Mai Più”

Avrei tanto voluto correrle dietro, ma lo so anche io che ci sono cose che proprio non si possono fare, e allora me ne resto qui, arrampicato sulla cima della mia cappella, nel cimitero monumentale di Bergamo, a sentire il rumore del vento, e a parlare con quel ragazzo della moto che ha la faccia rovinata ma che non lo sa ancora che quello non è il suo vero problema.

Il problema è che lui ormai con la sua ragazza non ci potrà parlare mai più, e se andrà a trovarla la notte per farle una carezza, quella griderà e chiameranno il medico anche per lei.

E allora anche a lui qualcuno prima o poi dirà:”Ti Prego Non Tornare Mai Più”.

© Sabina Marchesi





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