Un giovedì sera camminavo per le stradine meno battute di Temple bar, sentendomi Joyce nel 1910 con sopra le spalle tutta la pesantezza del tempo, e accanto ai negozi turistici e ai pub pieni di gente vedevo un vecchio suonare la chitarra e una donna forse “senza tetto” sdraiata a terra con in mano una bottiglia che cantava al suo ritmo, e mi rendevo conto di come la mia noia e le mie inquietudini fossero forse solo il capriccio di un cuore emigrante ancora bambino.
Forse cercavo qualcosa in quelle strade, ma non sapevo cosa. E finivo sempre in oblii non catartici e mistici che mi riportavano alla mia infanzia felice e completa nei campi dall'erba verde e dalla terra rossa del Salento nei pomeriggi dolci di aprile. E altri pensieri che credevo potessero aiutarmi a penetrare il nocciolo dell'esistenza e permettermi di vedere l'altra faccia delle cose, la sostanza e il loro autentico significato. Credevo. Immaginavo.
Tante tante altre sere camminavo con la musica nelle orecchie e la testa tra le nuvole, in cerca di ispirazioni - spiegazioni - vie d' uscita o entrata. Ero io, giovane poeta in essere o senz'essere, sognante e senza musa, che vagava e si perdeva nell'orizzonte sempre un po' nuvoloso del cielo irlandese, che mi lasciava spesso inappagato e insofferente.
Eppure Dublino mi aveva sempre trattato bene. Più di quanto meritassi probabilmente. Mi aveva avviato alla vita vera. Forse abbiamo così tante cose dentro che una città da sola non le riesce a contenere tutte. E l'alta marea del Liffey talvolta pareva essere la mia anima che voleva uscire fuori.
Sentivo i rumori della city e il chiacchierio dei turisti in Dame street ed era qualcosa che non mi toccava più come prima. Era ormai parte conosciuta di me, della mia vita. Stava cambiando la mia posizione nei confronti di Dublino e della mia esperienza in Irlanda. Forse tutto quello che mi era successo – da mio fratello a Sophie e dagli amici che andavano e venivano alla solita nostalgia di casa – stavano cambiando tutto. E provavo ora un leggero fastidio che ancora non riuscivo a decifrare internamente.
Mi chiedevo se dopo tutto quel tempo fosse davvero il posto giusto per me o se invece fossi lì per puro caso e dovessi prendere in mano i miei anni e decidere dove andare, cosa fare, chi diventare. Mi chiedevo se fossi stato solo scaraventato da una qualche macchina del tempo fredda e calcolatrice allo scopo di farmi espiare peccati forse commessi in un'altra vita sotto altri cieli; se Dio, per una volta, non c'entrasse nulla. E poi pensavo che Dublino è sempre stato un porto di mare.
E l' Irlanda è un'isola. È facile sentirsi un po' isolati quando si vive su un'isola. Ed essa mi pareva così lontana fisicamente e psicologicamente da casa o dal resto del continente che certe volte mi sentivo quasi in esilio. Come Napoleone a Sant'Elena. Solo che il mio esilio l'avevo scelto io ed era stata una mia decisione. E me ne ero andato e vi ero persino ritornato, sempre “mea sponte”.
Beati quelli che sanno sempre dove vanno, che riescono a capire chi sono e cosa vogliono dalla vita, che non hanno problemi a cogliere la differenza tra desideri e bisogni, prima che sia troppo tardi.
Io no, spesso no. Non capisco chi sono e cosa voglia realmente. Ricordo di essere stato adolescente ma come in qualche altra dimensione, con mille facce di me, incertezze e paure e desideri biologici poi tramutatisi in illusori e dannosi conformismi: il lavoro, i soldi, le responsabilità, la crescita, la carta di credito nel portafoglio e accanto a me lo spettro di un paventato imborghesimento e della perdita di entusiasmo e fame di vita. Senza accorgermene. Si deve crescere, ed ero cresciuto. Ma quando dal lettore mp3 uscivano per caso vecchie canzoni di quegli anni come “Siamo solo noi” o “Con un deca” di colpo tornavo a quella dimensione e quell'età e risentivo tutta l'inquietudine di noi giovani adolescenti della provincia, che dalla provincia volevamo scappare come se si trattasse di una gabbia in cui nessuno ci aveva messo. Ci eravamo semplicemente nati. Limitante, troppo limitante per menti incendiarie come le nostre. Cantavano che con un deca non si poteva andar via. Ed era proprio così. E dove potevamo poi andare noi altri? Senza soldi, e non avevamo ancora nemmeno la patente. E non succedeva mai un cazzo di niente nel piccolo paese a parte qualche solito bullo che rompe e l'ansia da prestazione di importanti partite di calcio nei pomeriggi estivi.
Se magari fossi nato in un altro posto sarebbe stato diverso? Io sarei stato diverso? Me lo chiedo sempre. Se invece di Nardò fossi nato e cresciuto a Roma, Londra, Berlino o New York quali cose di me sarebbero rimaste e quali no? Come sarebbe andata la mia vita? In che direzione? Sfido io a trovare delle risposte. Certo che ora avevo i soldi e la patente, e non ero più un ragazzino, e potevo andare ovunque. Ma quelle sensazioni restavano. Quelle così forti dell'età adolescenziale sono le più dure a morire. E allora andavo sempre in giro con la musica nelle orecchie e nel cuore cantando ad alta voce per le strade di Dublino rendendo ignari passanti partecipi di un mio qualche non meglio decifrato fastidio passato o presente.
Le canzoni hanno questo potere immenso di rimandarti dritto dritto, attraverso il tempo e lo spazio, in un momento preciso della tua vita. Deve essere questo un esempio della memoria “evocativa” di cui parlava Proust.
Forse tutto quello che cercavo in quelle sere era sentire per un attimo la pienezza della vita, seppur distratta, in un altro e alto sentimento, negli angoli oscuri di una città apparentemente ospitale. Quelle sere la mia mente traboccava e forse andava troppo forte. Ero una povera anima vagante, sfregiata e sudata dopo tante corse, in cerca di risposte – più o meno certe, più o meno infallibili– che parlava tra sé e sé sul pavimento freddo davanti all'uscio di un take-away e a un paio di commessi orientali che ridevano dall'altra parte del vetro.
Tornavo a casa pensando che forse era solo un po' di solitudine. Sì, sì, mi convincevo che era solitudine la mia. E speravo che ci sarebbe stato sempre qualcuno ad aiutarmi, se ne avessi avuto bisogno, lungo il mio cammino di essere pensante – sofferente, camminante, scrivente - talvolta sprofondante tra quelle strade che parevano inghiottirmi nella loro umida oscurità come se fosse la polpa immonda della terra.
Arrivavo a casa e mettevo su una qualche canzone del Boss. Mi stendevo sul letto a guardare il soffitto e ascoltare “Backstreets”. Poi chiudevo gli occhi e pensavo al giorno dopo.
Era la solitudine dell' emigrante, di qualsiasi giovane emigrante che, quando tornava a casa dopo la disco alle quattro del mattino, desiderava ardentemente che quella ragazza che gli camminava quattro o cinque metri innanzi si girasse all' improvviso e gli dicesse “Hey cosa fai tutto solo? Mi accompagni a casa?”. Sognavo già prima ancora di andare a dormire.
Poi andavo a dormire e sognavo di nuovo. Strani sogni, come al solito.
Un altro inverno stava passando e aspettavo con trepidazione l'arrivo della primavera, da sempre la mia stagione preferita e quella del mio compleanno. Cercavo ispirazioni ma ben presto il clima irlandese mi “deinspirò”. Quell'anno da fine marzo in poi il sole si vide solo sporadicamente, mentre per tutto il tempo vi era solo un terrificante cielo a specchio sempre uguale a sè stesso, ogni giorno, ogni settimana, ogni mese per tre mesi circa. Mi resi conto che stavo male. Il cielo a specchio era un po' come avere qualcosa nel culo per giorni e settimane. Alla fine, quando raramente e per grazia divina, si apriva e si poteva di nuovo prendere visione del suo colore azzurro sotto quelle nuvole assassine, mi sentivo come se mi fossi tolto un peso, come se finalmente avessi cagato dopo mesi di stitichezza. Iniziavo a capire che ero diventato leggermente meteoropatico.
O forse, più semplicemente, avevo bisogno di luce e colori, un po' più spesso di quella misera razione concessa dall'Irlanda. Ogni giorno mi chiedevo come diavolo facessero gli irlandesi a vivere tutta la loro vita in questo paese con questo clima di merda. E come facevo io a restarci,dopotutto. Io che ho bisogno della luce del sole come quasi dell’aria che respiro. Io che vengo dal Sud, io che son cresciuto nei giardini di “casa Apollo”. E la cartina del Salento attaccata sul muro della mia stanza con raffigurate le nostre bellissime spiagge non riusciva ad alleviare la sofferenza. Invece mi faceva sognare le strade della mia Nardò, le corse sugli scooter a sedici anni, il mare della marina, la terra rossa, i colori e i sapori. E non capivo cosa ci stessi facendo lì. Dal secondo anno in poi non l’ ho più capito. Tempi duri per qualunque emigrante.
A marzo ed aprile feci due incontri che alleviarono un po' le mie pene. Naturalmente, ancora una volta, si trattava di due belle fanciulle francesi. In ordine temporale conobbi prima Melodie e poi Sophie. Gli stessi nomi, nello stesso ordine, delle mie prime due ragazze francesi anni prima. “Oddio”, pensai, “ma sta ricominciando tutto daccapo? Un altro ciclo di francesi tutte con gli stessi nomi?”. Altre fottute coincidenze mi si dischiudevano davanti come vasi di pandora mezzi aperti.
Melodie era una parigina doc e nonostante quanto mi dicessero delle parigine – che fossero “posh”, con la puzza sotto il naso, fredde e distaccate – lei mi pareva tutto il contrario. Aveva sicuramente lo charme e il portamento della tipica ragazza di Parigi, ma era calda, oh sì se era calda! Ed era simpatica, scherzosa e dal carattere molto semplice. Era venuta a Dublino in vacanza a trovare la sua migliore amica e restava per quasi una settimana. Ci vedemmo per qualche giorno e lei sembrava molto presa, tanto da scrivermi dei messaggi che suonavano da innamorata nonostante ci fossimo conosciuti solo qualche giorno prima. Mi scriveva nel suo poco corretto ma simpatico italiano “Io volio farti l’amore” - che faceva il suo porco effetto- e giocava a chiedermi quando sarei andato a Parigi a trovarla, e poi anche quando sarei andato a Parigi a vivere con lei. Fu la prima volta che pensai realmente alla possibilità di andare a vivere nella “Paname” cantata dal vecchio caro Pelù. Una città a cui non avevo mai pensato proprio per quei luoghi comuni sui parigini e la loro antipatia. Certo che se erano tutti come lei mi sarei trovato ottimamente. Ma non era il tempo quello di fare tale importante passo.
Sophie invece veniva dall'Alsazia (che insieme alla Lorena riecheggiava nei ricordi di studio della storia a scuola), dalle parti di Strasburgo. Viveva a Cork dove stava studiando e la incontrai una sera al Dicey's (che da questo punto di vista funziona meglio di qualsiasi agenzia per appuntamenti) mentre era a Dublino in visita per un paio di giorni. Ci risentimmo nei giorni successivi quando aveva bisogno di un posto dove dormire a Dublino. Io le offrii subito di stare da me. Lei accettò ma quando arrivò a Dublino con i suoi amici e andammo al pub uscì fuori dalla conversazione che aveva il ragazzo in Francia. Delusione sul mio volto, che cercavo di nascondere penosamente. Non avevo minimamente pensato alla possibilità che potesse avere il ragazzo. E ancor più perché era molto bella, con un fisico da fotomodella. E io non le avevo mai chiesto nulla in merito. Alla fine tornammo a casa mia e le preparai il divano. Ormai il sogno di averla nel mio letto andava svanendo. Speravo in qualche sorpresa o in qualche strana congiunzione astrale che potesse aiutarmi. Qualcosa successe. Un colpo di fortuna. Poco dopo anche lei sarebbe ripartita per la Francia, e da allora non la sentii più, ma ogni tanto la pensavo.
A parte questi due incontri, per il resto, fu un periodo scialbo e per nulla gratificante. Il lavoro, ancora una volta, non mi soddisfaceva più. Non vedevo un mio futuro in quell'azienda e in quel settore troppo distante da me. Ma chi ha deciso poi che l'essere umano debba starsene seduto davanti ad un computer concentrato per otto ore? Parlo dell’essere “cogitante”. Quello del vecchio “cogito ergo sum” che è diventato un “cogito ergo BUM”. E sì, qua sta esplodendo tutto. Esplodono menti e pensieri, esplode la stessa terra che una volta apparteneva a tutti. Ora è di pochi. Sarà colpa del maledetto capitalismo che comunque ci dà da mangiare. Spesso, non sempre. Ad alcuni, non a tutti. C'è in giro un subdolo virus che riesce a creare cancri grandi quanto tutto il mondo e che un giorno se lo mangeranno pure il mondo. Ma il mondo forse non li vede. E nascono bambini ma non come una volta. E crescono non come una volta. I giocattoli non sono più quelli di una volta. I giocattoli prendono vita. Prendono vite. E tutto diventa più grande, a banda larga... Ma forse lo spazio vitale diventa ancor più piccolo, a vescica compressa.
Certi giorni non ce la facevo proprio. Mi sentivo come a scuola a sedici anni con tutta la ribellione adolescenziale ancora rombante nelle viscere. Forse è vero che stavamo meglio quando stavamo peggio. Forse stavano meglio i nostri genitori e nonni che vivevano nelle campagne con poco ma sereni. Lenti ma in salute. E non c'erano ansie, depressioni, stress e menate varie. E non c'erano computer, cellulari, stupide vanità. Ogni generazione ha l'era che si merita. E credo proprio di voler uscire da questo mondo dove siamo numeri di multinazionali, di controlli silenziosi e sorrisi costruiti in strabilianti pubblicità. Nuovi eserciti avanzano splendidamente in giacca e cravatta. Belli e sorridenti. Tutto legale, per carità. Io ho voluto essere sempre out. Non in. Fatemi uscire,please. Magari ci fosse una pillola da inghiottire per diventare un placido e felice consenziente. La mia vita scorrerebbe liscissima. Come ci sono finito qua dentro? Chi diavolo sono loro per dirmi a che ora devo andare in bagno? E quanto debbo impiegare a farmi una cagata? E non sono mica mia madre. Credo proprio che non sono venuto al mondo per produrre alcunché ma sono già il prodotto di qualcosa di più bello, di più alto. Affanculo tutto questo marciume intellettuale di cui sento la puzza a migliaia di kilometri di distanza. La puzza della vergogna non provata quando va provata. Ah quanto puzza avere il potere in mano. Aspetto con fanciullesco candore la salvezza di chi tornerà a riprenderci e a ridarci la vera libertà in un nuovo imperituro e gentil rinascimento dell' uomo e dell'anima. E l’uomo tornerà al centro di tutto con i suoi pensieri dorati cadenti come comete sulla mente di altri uomini e ci sarà uno scoppio alla fine per un nuovissimo ordine scevro di ogni inutile moderna sovrastruttura. Continuo ad essere, contraddittoriamente, un gioioso insofferente attaccato a quello che offre la vita reale, tutto ciò che c'è di reale spesso nascosto, sempre e comunque secondo la mia personale e forse errata interpretazione del qui e ora che talvolta mi pare essere un bel caldo minestrone di fede, volontà talvolta egoista, menefreghismo, ingenuità e irrazionalità dei sensi.
Nei pomeriggi di domenica di inizio primavera, ancora fredde e sempre piovose, facevo lunghe passeggiate con compagna solo la musica rock sempre anima-salvante, passando a guardare la gente, fuori e dentro i negozi dello shopping, dei pub o nei bus.
E speravo magari in un incontro casuale, quell'incontro che poteva cambiare tutto. Desideravo. Volli sempre volli...
Ma per le stradine di Temple Bar vedevo solo anime oscure agitate e inquietanti uscire fuori da piccoli vicoli, e chissà da dove venivano e dove andavano, chissà perché... Forse erano spacciatori. Ma io cercavo spacciatori d'amore, di un amore qualsiasi. Una categoria professionale ancora non iscritta agli albi ufficiali e non reperibile vita natural durante. Certe domeniche mi sentivo DAVVERO solo, e nessuno - forse nemmeno io- poteva mai capire la mia solitudine. Quella degli spiriti inquieti, che vorrebbero avere qualcuno accanto o stare dall'altra parte del mondo. Che pagherebbero per avere un lover vicino, o per lo meno rivedere la famiglia e i vecchi amici, da cui sanno farsi capire. Del cui umorismo spesso riescono a cibarsi e sostanziarsi. Delle due l'una, almeno, se possibile. E sembrava che i passanti capissero dalla mia faccia che avevo un'evidente dipendenza da affrontare. Tutto era visibile e lampante sulla mia faccia! Speravo che sarei stato perdonato un giorno per tutte le mie debolezze e le mie altrettanto deboli voglie terrene.
Nostalgie da emigrante che mi facevano cadere in una specie di buco temporale pieno solo delle ossa e dei cuori infranti di tutti quei giovani sprezzanti poeti del passato, battuti dalla sorte, perdenti e perduti nel nulla. Come me, in quel pomeriggio. Vicini a me. Deliravo sanamente.
E il mio unico “thrill”, l' unica emozione era prendere la Luas (la metropolitana di superficie della città) senza naturalmente pagare il biglietto da S. Stephen's Green a casa mia: una sola fermata. Per provare un po' di adrenalina (!?) e anche per pigrizia. O andare al solito Tesco Express vicino casa a fare la spesa, l' ennesima della settimana. Quando non sapevo che fare, andavo a fare la spesa. I cassieri del Tesco avranno pensato “ma quanto cazzo mangia questo qui?”. Avevo fame ma non solo di cibo. Avevo fame di una fame che non si sazia con un basso consumismo.
Certe domeniche erano davvero “lunatiche” come cantava un certo signor Rossi anni prima. Oh, davvero, accidenti alla malinconia, alla noia che ci prende e che non va più via.
Decisi che era arrivato il momento di cambiare. E lo feci. Diedi le dimissioni ai primi di maggio a sangue freddo.
Così volli godermi i miei ultimi tempi a Dublino. Mi dedicai a fotografare gli angoli della città, alcune situazioni o scritte sui muri che carpissero il mio occhio e fossero in qualche modo originali. Che avrei portato per sempre con me. E le persone, le facce: tutti i dubliners, quelli nativi e i nuovi, come me e altri emigranti, che là avevano trovato casa nel corso degli anni.
Camminando per le strade si incontrano sempre vari personaggi che in qualche modo caratterizzano l'atmosfera unica di questa città. Su Grafton Street è impossibile che non ci siano almeno un paio di musicisti che fanno “busking” (suonano dei pezzi con chitarra o altri strumenti lasciando al passante la possibilità di donare qualche moneta), a tutte le ore. Nei pomeriggi di sabato e domenica, specie nelle belle giornate, si trovano artisti di strada di ogni genere. Chi intrattiene il pubblico con piccoli show di magia, destrezza e divertimento. Chi canta e suona. Chi fa sculture di sabbia - impossibile non aver visto almeno una volta un tizio che crea un cane di sabbia - chi disegna o compone ritratti personali a richiesta.
Poi si vedono gruppetti di ragazzini e ragazzine di non più di tredici anni che vestono e si comportano come se fossero già grandi. E teenagers sempre in tuta e con sguardi da duro che si atteggiano a piccoli capi branco come se quelle strade fossero di loro proprietà. I soliti knackers, spesso irritanti e rompicazzo.
Gli irlandesi se ne vanno in giro a fare shopping o nei pubs ad iniziare lunghe maratone di alcool e partite di calcio, calcio gaelico, rugby, hurling o qualche altro strano sport che capiscono e seguono solo loro. Dal primo pomeriggio fino a notte. Sono molto social gli Irlandesi, e il pub è veramente la loro seconda casa. Gli stranieri invece se ne vanno al Living Room o al pub australiano a seguire le partite di calcio dei loro rispettivi campionati.
E ormai riesco a riconoscere la nazionalità delle persone da un semplice sguardo. Gli italiani, specie i turisti, sono riconoscibili dal giubbotto in stile bomber o da quello col cappello in piuma. E poi vestono con camicia e maglione anche d'estate, supponendo che qui sia inverno anche a luglio.
Certo non è l'estate italiana, ma non fa nemmeno un tale freddo da giustificare tutto ciò. Da dire anche che noi emigranti siamo sicuramente più abituati a questo clima dopo anni vissuti qui, rispetto a chi viene dall'Italia come turista e sente il vento del nord per la prima volta sulla propria pelle.
Le italiane sono riconoscibilissime dalle scarpe Hogan, il cui fatturato credo che dipenda per il 99,9% dal mercato nostrano. Il resto probabilmente dal Canton Ticino. Non ho mai visto una straniera indossare le Hogan. Mai. Solo le Italiane. Stesso dicasi per le giacche Belstaff, da non confondere con la città Belfast, Irlanda del Nord. Per chi non lo sapesse.
Potrei scrivere un bell'articolo sulle tendenze di moda delle ragazze in fatto di scarpe. Una sorta di “sociologia delle scarpe da donna”. Le ragazze polacche, per esempio, indossano spesso le Puma. Non so per quale arcano motivo ma le Puma vanno alla grande in Polonia. Le francesi amano gli stilettos, perfetti per il loro portamento. Le tedesche adorano gli stivali veri e propri, quasi sempre in nero. Le americane si dividono tra scarpe di ginnastica e stivali, a seconda della giornata.
Le scandinave senza dubbio sono le più avide consumatrici di Converse al mondo! Bianche, nere, blu, gialle, rosa, qualsiasi colore purché siano Converse. È verosimile che ci sia una legge apposita che obbliga ad avere almeno un paio di Converse in casa.
Le baltiche sono piuttosto varie. Amano gli stivaletti, gli stivali ma anche le ballerine o scarpe sportive. Belle ragazze le lituane, lettoni, estoni. Gli Italiani le amano molto e a Dublino ce ne sono tantissime. Ma ogni volta che ne vedo una mi domando per quale motivo non abbia mai visto o sentito di un un uomo lituano per esempio. Mai. Forse non esistono o si sono estinti nel corso delle ultime decadi. Un giorno in strada conobbi una bella ragazza lituana, Sandra, e le chiesi proprio di questo. Mi rispose che in Lituania ci sono in media cinque donne per ogni uomo. Cavolo! Ma se ne stanno tutti a casa. Solo le donne emigrano. Fortuna per noi, direi.
E le irlandesi? Anche loro usano moltissimo le Converse, ma anche un tipo di stivale morbido, acquistabile anche al Penneys per pochi Euro, talmente morbide che il tacco spesso e volentieri si piega verso l' interno e fa precipitare la pianta del piede praticamente a terra. Le celebri “nonricordoilnomecazzo”.