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Piove.
Piove ancora.
Piove sempre.
Non sembra finire.
Mai.
Una pioggia fine, lenta, continua, insistente.
Sono giorni ormai, settimane che piove sui canneti, sui cespugli, sulle pietre, sui prati, sull’acqua del Tevere che vedo laggiù oltre gli alberi.
Peschi in fiore.
Sto all’asciutto, al caldo in una bella stanza di 4 metri su 4. È così che l’ho progettata. C’è una sola entrata, una portafinestra che dà sulla veranda. Tutt’intorno alle pareti scorre una finestra a nastro. Da ogni lato posso vedere il verde delle colline, gli alberi fioriti. Le pareti sono bianche.
Pareti di carta.
Carta speciale, sia ben inteso. Ho fatto costruire il mio piccolo rifugio ispirandomi allo stile e alle tecniche dell’antico Giappone. L’ho voluto al centro di questo giardino d’alberi di pesco in una valle dell’Umbria.
Ma la mia mente, il mio cuore, tutto il mio essere sono in Giappone. Là, dove picchi rocciosi e pini contorti intrappolano le nebbie. Lente, eterne nebbie sfilacciate, costantemente lavate dalla pioggia...
Come in quelle valli, anche in questa la pioggia non sembra voler terminare. L’acqua non riesce a penetrare nelle pareti di carta di riso, scivola via come su pergamena.
Intorno a me, notte e giorno, contro le pareti, i vetri, il tetto di bambù ascolto la più bella armonia del creato: l’interminabile ticchettio della pioggia!
Tic tic tic tic, come in un negozio d’orologi, il battito di mille cuori d’insetti, il fluire amplificato di granelli di sabbia in una clessidra.
Non mi disturba.
Anzi...
Sto qui per questo.
Anche per questo.
*
Non ho freddo.
In questa casa non c’è la minima traccia d’umidità. Nel caminetto s’accende un bel fuoco. Di tanto in tanto metto un pezzo di ramo morto. Mi siedo a terra, apro i palmi delle mani e resto ad assaporare il calore, ad ascoltare il fuoco.
Il legno si consuma lentamente, con un brusio di migliaia di voci, sussurri sovrapposti. Incomprensibili.
Seguo il movimento delle fiamme che scivolano, danzano e svaniscono scoppiettando faville.
Riflessi, penombre, bagliori, opacità.
In queste poche parole è riassunto il mio mondo.
Il mio mondo visibile.
Ma, il mio vero universo è quello che mi racconta, che mi porta da lontano la pioggia.
È per la pioggia che sto in questa casa.
È per la pioggia che ho rinunciato a tutto.
Per la pioggia e per gli haiku.
Per comporli.
Gli haiku, l’unica maniera che ho d’entrare in contatto con la pioggia, di capirla, d’essere un tutt’uno con essa e con l’Invisibile della quale è messaggera.
*
Tutto è cominciato due anni fa.
Centro di Roma, su una bancarella un libro attirò la mia attenzione. In copertina la riproduzione d’una stampa orientale. Tra picchi di roccia e nebbie, un ponte di legno. Varie figurine, ombrelli aperti, avanzano a fatica contro una pioggia di tratti fini, insistenti, obliqui.
Lo presi. Il volume sembrava più che vecchio, antico. Cercai data e luogo di pubblicazione, ma non riuscii a trovarli. La carta ingiallita rimandava un sottile odore di terra bagnata. Una trentina di pagine in tutto. Su ogni pagina, una sola poesia di tre brevissimi versi. Trovai una Prefazione:
L’Haiku è una poesia di concentrazione. Un'immagine racchiusa in diciassette sillabe.
Sono solo tre versi di cinque-sette-cinque sillabe. La caratteristica di un Haiku è uno sbalzo,
una sensazione di spazio, un capovolgimento. E’ nato in Giappone nel diciassettesimo secolo.
Ogni Haiku ha bisogno di un silenzio intorno,
soprattutto un vuoto mentale (una lentezza) entro cui stagliarsi.
Sono immagini concentrate pronte ad esplodere,
ora con un balzo, ora con un tuffo di luce.
Piccoli suoni per dilatare il tempo, e per fermarlo un po’.
Nudi e crudi, a volte i suoni escono a passeggiare.
Poter fermare un po’ questo nostro tempo e nulla più.
Comprai il libro.
A casa, lo sfogliai, lessi qualcuna di quelle poesie in miniatura, poi lo misi su uno scaffale fra altri libri e lo dimenticai.
La domenica seguente, come spesso capitava, io e mia moglie decidemmo di fare una gita in macchina fuori Roma con i nostri bambini, Sara di 3 e Fabio di 7 anni. L’autostrada fino ad Orte, poi ci addentrammo nell’Umbria. Era una bella giornata di primavera, gli alberi in fiore, le colline coperte di verde tenero.
Arrivammo in una vallata in cui scorre il Tevere. All’improvviso iniziò a piovere, una pioggerella fine, obliqua. Ci riparammo in un’osteria isolata e ne approfittammo per pranzare.
- Cos’è?, chiesi al proprietario indicando una macchia rosata in fondo alla valle.
- Un frutteto di peschi. Peccato...
- Perché dice così?
- All’abbandono. È in vendita da anni, ma nessuno lo compra, come almeno un terzo della terra che vede qua intorno. I giovani se ne vanno dalla campagna. È vero che questa valle è particolarmente piovosa. Gli specialisti dicono microclima. Forse là dietro, continuò indicando il fianco della collina, adesso non piove e non pioverà per l’intera giornata. Chi lo sa perché, ma questa valle attira le nuvole come una calamita il ferro. Anche la mia osteria è in vendita. Sono gli ultimi giorni.
- E dove andrete?
- A Orvieto, apriamo una pizzeria.
- In bocca al lupo, allora.
- Crepi.
*
Tornando verso Roma non ho quasi pronunciato una parola.
- Perché sei così silenzioso?, m’ha chiesto mia moglie. Non ti sarai mica arrabbiato per una gita andata a male?
Mi sono voltato. L’ho guardata attentamente, poi ho risposto:
- Per niente.
Il giorno dopo mi sono licenziato dal lavoro, ero impiegato alle poste, ho messo in vendita la casa al mare e ho pensato seriamente di comprare il frutteto in quella valle nell’Umbria.
Poco tempo e tutto era fatto.
Per la pioggia e gli haiku ho abbandonato mia moglie e i miei due figli, non sono andato al letto di morte di mio padre, non ho più rivisto né i miei fratelli né mia madre.
*
Sto bene qui.
Mi piace questa casa.
Basandomi su foto d’antichi rifugi giapponesi, ho disegnato un progetto, l’ho presentato ad un architetto dicendo che, senza badare a spese, doveva realizzare tutto con soli materiali provenienti dal Giappone.
È costato molto far costruire questa stanza di 4 metri su 4 con veranda e caminetto. Ma non sono i soldi ad interessarmi.
Nel rifugio non ci sono né bagno né cucina. Per i miei bisogni corporali esco nel frutteto, per cucinare ho un piccolo fornello a gas. Ogni dieci giorni passa con la macchina il signor Paoli, un tipo d’un paese qua vicino per portarmi quello che mi serve.
Mi sento bene tra queste pareti di carta.
La finestra a nastro mi circonda di verde, pioggia e milioni e milioni di fiori rosa.
Dove potrei vivere meglio di qui?
Laggiù, vedo le acque del Tevere che si raccolgono in un’ansa, rallentano e brillano come una lama d’acciaio.
Solo qui riesco a concentrarmi, a fare astrazione.
Da tutto.
Da tutti.
Qui sono riuscito a comporre i miei primi haiku.
Vero è che li ho gettati.
Mi costa molta fatica immaginarli, farli emergere dal profondo del mio essere. Li scrivo di getto solo dopo una lunga attesa, un abbandono totale alla pioggia, alla sua freschezza, al suo incessante ticchettio. Ma quando li leggo non sono mai soddisfatto.
A volte un suono, un accordo di sillabe, un significato mi soddisfa; l’insieme mai.
Mi sembra sempre che manchi qualcosa o che ci sia qualcosa di troppo.
Strappo il foglio, ne prendo un altro e attendo.
*
È più d’un anno ormai che vivo fra colline, il fiume, alberi in fiore, pezzi di carta, pioggia e inchiostro. Un tipo d’inchiostro che ho fatto venire dal Giappone e che odora di mare e metallo riscaldato; strano, vero?
Quando ho l’ispirazione, prendo un piccolo pennello, lo intingo nella boccetta d’inchiostro e traccio parole su questi fogli di carta da lettera.
Questo è stato il primo haiku che ho scritto:
getti di pioggia
scuotono, sferzano
l’animo mio
Ridicolo, vero?
L’ho strappato.
La regola di 5, 7, 5 sillabe era rispettata, il suono “sferz” mi piace ancora, ma la poesia è un’altra cosa...
Cosa?
Non so dirlo, ma sento che è un’altra cosa.
Non mi scoraggio.
In silenzio attendo. Attendo di catturare l’haiku perfetto, quello che possa riassumere tutto e così giustificare questa mia reclusione dal mondo.
Ma, voglio sottolinearlo, se mi sono separato dal mondo è solo per ascoltarlo meglio, per seguire con più attenzione i suoi palpiti, entrare in sintonia con l’intero universo.
Follia?
Forse.
Ciò che più mi sta a cuore, ciò a cui tutto il mio essere tende è essere altro da me, altrove... In uno scambio continuo con le forze prime dell’universo, immerso in quello straordinario pullulare di cui sento soltanto eco effimere.
Chiuso tra queste pareti di carta, immerso nel canto della pioggia ho l’impressione di sentire deboli vibrazioni, come d’esplosioni provenienti dal centro della terra. A volte, mi sembra di rintracciare il movimento delle onde degli oceani, vedere le fluorescenze di minuscoli esseri che vivono negli abissi... Ma, nei momenti di maggior gioia, direi quasi d’estasi, ho l’illusione di captare le melodie del ruotare dei pianeti, il respiro delle galassie, vedere intorno a me onde, scie colorate.
Vorrei solo essere medium, nel senso primo della parola: mezzo di comunicazione con i grovigli d’energie che attraversano ogni istante l’universo.
Vorrei scrivere un haiku che riesca a captare queste forze, ad entrare in comunione con esse.
Uno, uno solo mi basterebbe.
Solo di muschio
velluto della terra
la pioggia ride
Non è questo.
L’ho strappato, come tanti altri:
Serpenti d’acqua
su mille fiori rosa
che non brillano
Umida pioggia
vaghi per boschi ignoti.
Senza confini.
All’improvviso,
nella casa antica
gocce cadono
piovve una notte
e, incessabilmente,
a te pensavo
quieto sedevo
occhi colmi di luce
e trasparenze
Queste dovrebbero essere le parole e il ritmo capaci d’invischiare le forze vive dell’universo?
Con un sol gesto ho gettato lontano da me fogli, boccetta, inchiostro e pennello!
Una sciabolata nera ha squarciato il pavimento laccato di bianco.
Queste sarebbero le tracce d’un sismografo in sintonia con il movimento delle onde, con il volo degli uccelli, il frusciare degli alberi, il brulicare degli insetti, la danza delle fiamme?
Queste sarebbero le parole incantate che come una formula magica mi farebbero entrare in sintonia col Tutto?
Mi sono gettato a terra e ho morso a sangue le mani.
*
Piove.
Piove ancora.
Piove sempre.
Solo il suono di queste gocce mi dà il coraggio d’andare avanti.
Pioggia che cadi incessante e incessante lavi ogni cosa, non m’abbandonare!
*
- Allora, caro collega, come va il nostro monaco zen, sempre all’ascolto della pioggia?
Il dottor Gigli scostò per un attimo lo sguardo dal dossier che aveva in mano e rispose distratto,
- Sempre.
- E sempre alle prese con gli hacchi, haccu... come diavolo si chiamano ancora quelle poesie?
- Haiku.
- Si crede in Umbria o in Giappone, oggi?, continuò il dottor Franchi.
Il dottor Gigli chiuse il dossier, lo lasciò sulla scrivania e abbandonò la schiena contro la spalliera della poltrona in pelle. Attraverso le spesse lenti fissò il collega, primario d’una rinomata casa di cura privata e disse:
- Mi sembra che il caso Marcelli l’interessi molto.
- Lo riconosco: m’interessa.
- Se lo prenda allora, glielo cedo volentieri.
- Lo farei con piacere, ma...
- Ma... non è un limone da spremere abbastanza.
- È da quando la conosco che ammiro la sua schiettezza di linguaggio, caro dottor Gigli.
Bussarono alla porta.
- Avanti, disse il dottor Gigli.
Entrò la segretaria,
- Non la disturbo, dottore.
- No, dica.
- Ci sono novità per Marcelli. Guardi, e detto ciò s’avvicinò e diede al dottore un foglio di carta da lettera.
- Ah, esclamò il dottor Gigli, c’è riuscito!
- Prego?, disse il collega.
- L’haiku! È il primo che non distrugge! Signorina Sarti, mi dica, quando e come ne è venuta in possesso?
- L’ha dato lui stesso questa mattina all’infermiera quando gli ha portato la colazione.
- E me lo consegna solo adesso?
- L’infermiera non ha creduto che fosse importante. Ha pensato fosse una della sue stramberie. Ogni tanto le dà un foglio con la lista di cose che dovrebbe comprare per lui e la chiama signor Paoli...
- Molto interessante, fece il dottor Gigli guardando la carta da lettera. Potrebbe essere un fatto determinante per il decorso della malattia. Leggiamo questo famoso haiku:
e finalmente
io stesso non sono che
la pioggia. Rossa.
I tre restarono per qualche istante in silenzio. Infine il dottor Franchi ripeté quasi a se stesso:
- Pioggia rossa...
- Andiamo!, scattò in piedi il dottor Gigli.
Gli altri due lo seguirono, quasi correndo si diressero verso la stanza 23.
Il dottor Gigli aprì la porta e videro Paolo Marcelli, nudo, impiccato ad una corda ricavata con lenzuola attorcigliate fissa alla finestra. Sul pavimento cadevano ancora gocce di sangue proveniente dai numerosi, piccoli tagli sul viso e su tutto il corpo.
©
Giovanni Buzi
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