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Una cosa chiamata felicità
regia di Bohdan Slama
Pubblicato su SITO


Anno 2004- BIM
Prezzo € 21- 102pp.
ISBN 8032807018256

Una recensione di Heiko H. Caimi
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Una cosa chiamata felicità

Regia di Bohdan Slama
Titolo originale: Stestí
Con Pavel Liska, Tatiana Vilhelmová, Anna Geislerová, Marek Daniel
Genere Commedia, colore 102 minuti
Produzione Cecoslovacchia 2005.

Tre amici d’infanzia divenuti adulti affrontano fianco a fianco la vita in un sobborgo industriale di una città senza nome al nord della Repubblica Ceca. Monika ha appena lasciato partire il fidanzato per gli stati Uniti; Tonik, ribelle alle regole, vive con la zia in un casolare di campagna ed è un idealista; Dasha è una ragazza madre che ha perso la testa per un uomo sposato. Ognuno di loro è alle prese con desideri, solitudini e fallimenti. Ognuno di loro è mosso dal bisogno di amore. Intorno a loro gravitano le rispettive famiglie. E, quando Dasha viene ricoverata, Monika si sente chiamata a prendersi cura dei suoi figli e Tonik, segretamente innamorato di lai li ospita nel casolare. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo, e i sentimenti umani più complessi di quanto noi stessi lasciamo sospettare.


L’amore è un’azione che si muove dal nostro sentimento fino al contatto con chi amiamo, e questo provoca cambiamenti, anche se non sempre quelli che speriamo. E l’amore è in grado di incrinare anche la più solida amicizia. Lo scopriranno a proprie spese tutti i personaggi della pellicola, anche se non sempre avendone coscienza. E alla fine sarà la vita a scegliere per loro.

Il film di Bohdan Slama ha uno slancio sincero, ma non sempre riesce a tenere insieme la storia e ad evitare sfilacciamenti. Al suo secondo lungometraggio dopo “Wild bees”, il regista continua a raccontare l’impossibilità dell’amore o, meglio, le sue infinite possibilità mancate. L'ambientazione è quella di un quartiere popolare, che discretamente fa da contesto alle vicende dei protagonisti con le sue case fatiscenti, i viadotti in cemento, i vetri riparati con lo scotch, le fabbriche che inglobano lo spazio vitale. Un ambiente che potrebbe essere destino (e lo è, di fatto, per i genitori di Monika e di Tonik), ma al quale ci si può ribellare sognando la felicità, una felicità forse raggiungibile attraverso la solidarietà.

I vinti (i padri) non hanno convinzione nel tarpare le ali ai voli pindarici dei sognatori (i figli), decisamente meno indeterminati di loro. Ed è forse solo attraverso la speranza, sembra suggerire Slama, che potrebbe avvenire il riscatto di una persona (o di una Nazione) che cerca di ricostruirsi. Ma il prezzo è alto, perché richiede il sacrificio di amicizie, amori, aspirazioni. E quella “cosa chiamata felicità” è forse irraggiungibile. Come il titolo apparentemente ottimista del film, che dopo la visione si dimostra un titolo amaro.

Un’opera corale ben sostenuta dalla recitazione dei protagonisti, con una fotografia sobria e una rappresentazione mai sopra le righe, con dialoghi e situazioni credibili, anche se nella parte iniziale risulta difficile orientarsi nei rapporti tra i personaggi. Ma i pregi del film terminano qui. La storia, risaputa, è quella di molte generazioni perdute, e se nella parte centrale prende avvio e sembra voler volare a un finale d’impatto, nella conclusione perde incisività e si smaglia, fino a chiudersi in un finale troppo aperto che rende il film irrisolto. E l’incapacità di credere fino in fondo ai propri sogni, che spazzerà via la possibile realizzazione della felicità da parte dei personaggi, tipica delle società capitaliste occidentali ma più critica in quelle post-comuniste, è solo un sottofondo che non sfocia mai in vero dramma (come invece accade nello splendido Dolce emma, Cara Böbe di Istvan Szabò): non c’è autentica ribellione nei protagonisti di questa pellicola, non c’è il coraggio di andare fino in fondo, di osare, di combattere per ideali ritenuti autentici: c’è solo un lasciarsi vivere e una serie di piccole ribellioni che non portano mai ad un cambiamento. E, se questo è lo specchio realistico del presente, non c’è abbastanza disillusione nella sceneggiatura del regista, ma un restare sospesi senza prendere posizione, come Monika che, nel finale, guarda fuori dal finestrino di un treno in corsa attraverso un paesaggio ghiacciato.

Alla fine, l'unica scelta possibile sembra essere la fuga: dalla patria (Monika), dalla città (Tonik), dalla realtà (Tonik). In una parola, dalle proprie radici e dall'autocoscienza.

Un film fatalmente edulcorato nonostante le premesse e la precisione sociologica, che sfocia in un buonismo di maniera e non coglie l’occasione per un finale incisivo che dia una lettura concreta della realtà che vorrebbe rappresentare.

Premiato al Festival di San Sebastian.


Una recensione di Heiko H. Caimi



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