Capitolo III
ALBERTO CANTONI: UN LETTERATO "FUORI DI
CHIAVE"
3.1. Alberto Cantoni e le correnti letterarie
del suo tempo
Dal paragrafo sulla critica che si è
interessata ad Alberto Cantoni (cap. II), si
desume che, oltre ad averlo capito piuttosto
relativamente, lo si è spesso cercato
di collocare nelle correnti letterarie più
diffuse del suo tempo o del periodo appena precedente,
incorrendo in equivoci e fraintendimenti nell'interpretazione
delle sue opere e delle sue stesse parole.
Mi sembra pertanto opportuno dissipare qualsiasi
dubbio sull'appartenenza del Nostro a questa,
o a quella corrente, analizzando brevemente
le medesime attraverso le loro caratteristiche
salienti e confrontandole con la produzione
cantoniana, le sue finalità e le dichiarazioni
più o meno esplicite che l'autore ha
voluto inserire fra le righe di rifiuto o distacco
dall'uno o dell'altro flusso letterario. Credo
che da queste sia possibile dedurre come non
ci sia alcuno stacco né alcun cambiamento
radicali nella scrittura di Cantoni, come invece
sostengono quei critici che hanno individuato
dal 1885 (con la morte del padre) una crisi
esistenziale che lo avrebbe portato ad abbondare
il bozzettismo a favore dell'umorismo e dell'indagine
sull'uomo. Credo piuttosto che le opere successive
a tale data siano il frutto di una evoluzione
quanto mai naturale di uno scrittore dalla personalità
arguta e ribelle (fin da quando, adolescente,
rifiutava la scuola ). Il carattere apparentemente
nuovo che emerge più spiccatamente dagli
scritti intimisti e cerebrali è sempre
stato in nuce in lui e nelle sue pagine, solo
è andato emergendo lentamente e mostrandosi
più apertamente nei nuovi protagonisti
(rispetto ai personaggi, per esempio, di Bastianino
o dell'Illustrissimo , dove comunque era già
presente).
3.1.1. Le ideologie: gli intellettuali e la
realtà moderna
Alberto Cantoni (1841-1904) ha iniziato a pubblicare
sulla "Nuova Antologia" nel 1875,
quindi il suo lavoro di letterato si è
svolto nel pieno degli anni post-unitari e la
sua formazione si è compiuta a cavallo
della stessa unità d'Italia. Questo evento
naturalmente ha segnato per lo Stato un momento
cardine, così come per tutta la popolazione,
che ne ha vissuto più direttamente i
risvolti sociali ed economici; e ha avuto un'inevitabile
incidenza anche in ambito letterario per il
ruolo dell'intellettuale nella società,
per l'accentuarsi della questione della lingua
e per un significativo sviluppo della stampa
periodica e del mercato librario .
Nonostante ritardi e limiti, l'Italia degli
anni '70 e '80 vedeva comunque gli inizi di
uno sviluppo capitalistico moderno, che tendeva,
come suo sbocco inevitabile, all'industrializzazione.
Quei primi fenomeni di modernizzazione, sebbene
timidi e arretrati, dovevano presentarsi agli
occhi di chi viveva immerso fra essi e vi assisteva
per la prima volta con una forza piuttosto dirompente.
Per questo le idee correnti fra scrittori e
uomini di cultura di questi anni hanno sempre
come termine di riferimento, esplicito o implicito,
la nuova realtà economica e sociale che
si va affermando; e in rapporto ad essa vanno
collocate per dare loro il giusto peso. Questa
fase di ascesa della borghesia moderna, gli
sviluppi della produzione, della capacità
di sfruttamento delle risorse naturali, degli
studi scientifici e delle applicazioni tecniche,
non potevano non esigere e non far scaturire
nuovi sistemi di pensiero.
Allora, in maniera piuttosto schematica, si
riescono a fissare tre principali reazioni da
parte degli intellettuali di fronte alla modernizzazione
e comunque al cambiamento: la fredda e rigorosa
indagine del progresso con un atteggiamento
esclusivamente conoscitivo; l'inneggiante apologia
nei confronti del nuovo; infine il rifiuto di
quest'ultimo, fino alla chiusura nel nostalgico
rimpianto del passato. Da tali atteggiamenti
hanno preso vita ad altrettante correnti artistiche:
Verismo, Positivismo e Romanticismo.
Spesso però non ci si può accontentare
di incasellare gli autori all'interno di una
tendenza in modo netto e univoco. Nel nostro
caso in particolare, basti pensare a due esempi
su tutti che vanno ad inficiare l'indicativa
classificazione poco sopra enunciata: Carducci
e gli Scapigliati .
Il primo, infatti, è stato sia portatore
della fiducia positivistica, sia legato ai valori
del passato a causa di un lento scemare proprio
di tale fede progressista, fino a spunti romantici
che si sono manifestati con una decisa componente
di paura e disgusto per la modernizzazione e
per la mediocrità della nuova era.
Lo stesso discorso si può fare per gli
Scapigliati. Anch'essi hanno un atteggiamento
ambivalente verso la modernità: da un
lato vogliono farsene cantori proponendosi come
poeti del "vero", dall'altro sono
guidati dalla nostalgia per la bellezza del
tempo andato .
Nello studiare la storia, in particolare quella
delle idee e delle posizioni culturali, può
essere fuorviante quindi ragionare per schemi,
contrapporre rigidamente tendenza a tendenza,
come se esse fossero blocchi monolitici; al
contrario, all'interno di ogni corrente vanno
sempre ricercati gli elementi contradditori
che la collegano a quella opposta e che non
si possono distinguere con un taglio netto .
Verismo, Positivismo e Romanticismo, possono
benissimo convivere nello stesso scrittore,
nella stessa opera, così come ci può
essere il letterato che, pur appartenendo al
periodo in cui queste correnti sono più
in voga, tende ad allontanarsene e a porre all'orizzonte
qualcosa di nuovo: è il caso di Alberto
Cantoni.
3.1.2. Alberto Cantoni non è un bozzettista
Bacchelli, nella Prefazione della sua raccolta
di opere di Cantoni, parla di "temperato
e verecondo realismo idillico" e arriva
addirittura a denunciare la presenza di un'ispirazione
virgiliana, giustificata anche dal fatto che
Virgilio fosse di Mantova; Giovanni Tassoni,
in un articolo sul "Corriere emiliano"
in cui tenta di tracciare il percorso scrittorio
del mantovano, scrive verso la conclusione la
seguente frase:
Il Cantoni, raggiunta la maturità artistica.
Liberatosi alquanto delle pastoie delle analisi,
si ripiega con più libero sentimento
sui primitivi aspetti della vita, ritorna al
suo piccolo mondo antico, alla vita salubre
nei campi, quasi per ritemprare e rinnovare
le forze esauste, come Anteo, che rinvigorisce
ritoccando la terra madre.
Elda Gianelli nelle sue pagine di testimonianza
sull'amico epistolare dice:
Carissimo fu a lui il genere narrativo semplice
e paesano .
Per studiare l'equivoco di attribuire questa
tecnica scrittoria alla narrativa cantoniana
voglio partire prendendo in considerazione il
romanzo L'Illustrissimo , interamente ambientato
nella vita campestre e fra quei contadini che
tanto hanno ispirato lo scrittore, quanto hanno
tratto in inganno i critici. La storia si svolge
a Milano alla fine del XIX secolo e i protagonisti
principali sono: il conte Galeazzo di Belgirate,
sua cugina Maria e i coniugi Gervasi, loro mezzadri
e talmente poveri da essere detti "Stentone".
Queste tre entità vengono legate fra
loro, oltre che dal rapporto lavorativo padrone
- dipendente, da un singolare espediente: Galeazzo
vuole sposare la cugina, da poco rimasta vedova,
e Maria risponde di essere disposta ad accontentarlo
solo se lui riuscirà a superare la prova
di farsi ospitare per cinque giorni dai suoi
contadini sotto le mentite spoglie di un viandante
(usando il nome di Lazzaro degli Abeti, scelto
per un Carnevale di qualche anno prima) e chiedere
lavoro per quel breve periodo. Il tutto architettato
dalla donna allo scopo di far entrare il futuro
marito a contatto con il mondo dei suoi possedimenti
facendoglielo osservare e vivere non solo dalla
comoda posizione del padrone assenteista, quale
si era dimostrato fino a quel momento.
Questo il filone principale, attorno a cui ruotano
naturalmente altre vicende, intrecci, personaggi
atti a sviluppare equivoci e situazioni paradossali,
per arrivare allo scioglimento finale in cui
ciascuno riassume il proprio ruolo, ma con nuova
consapevolezza.
Cantoni nel romanzo "si muove con abilità
tra la satira del padrone assenteista"
e l'analisi della figura dell'inetto incarnata
dal conte Galeazzo, il quale si risveglia dal
torpore di chi vive di rendite e benefici grazie
allo scontro dei suoi usi cittadini con quelli
dei suoi dipendenti di campagna e, più
profondamente, all'urto con se stesso alle prese
con un nuovo tipo di vita. L'"esperimento"
dovrebbe portare il padrone ad una conoscenza
vera e diretta dei propri contadini, ponendo
riparo all'atavico disinteresse delle classi
nobiliari nei confronti delle loro terre, da
cui traevano la maggior parte dei guadagni per
i propri agi; l'esperienza dovrebbe portare
l'uomo alla maggiore conoscenza della propria
interiorità.
Ma il racconto non vuole essere un richiamo
severo e con fini pedagogici, bensì una
descrizione oggettiva ed umoristica, anche attraverso
episodi da "commedia degli equivoci"
ed espedienti parodici , del ben noto mondo
contadino, in ogni sua sfaccettatura.
Infatti la realtà descritta è
quella in cui astio, vendetta, soprusi subiti
e prodotti si mescolano alle astuzie ed alle
falsità, così come alla grazia,
all'onestà, al disinteresse e alla sincerità:
una società in cui buoni e cattivi si
alternano con credibilità realistica,
lasciando inevitabilmente spiazzato chi s'aspettasse
la presentazione di una campagna idilliaca,
rifugio primitivo e incontaminato dall'arrivismo
e dai cattivi sentimenti, luogo ideale di una
virtù moralmente sana e pura.
Uno tra coloro che sono incappati in tale errore
è il critico Daniele Ponchiroli, che
nel saggio su Cantoni del 1951, scrive:
La responsabilità che l'umile gente sente
nel vivere la propria vita, e l'impegno corale
nel sopportarne la disgrazie e nel dividerne
la gioie, sono i miti che han fatto presa sulla
fantasia del Cantoni. [
] Questi miti non
rimarranno sempre costanti e fissi nella mitologia
cantoniana, e forse sono dall'autore sentiti
più come inquieta aspirazione, che come
reale condizione. Ma intanto si viene profilando
quello che sarà uno dei motivi dominanti
nella sua opera di scrittore: la campagna di
contro la città. Già fin da ora
il Cantoni si prepara alla sua carriera di scrittore
- anche sul piano tematico - provinciale .
Cantoni non è affatto uno scrittore
provinciale, ma è uno scrittore riservato
e schivo, lontano da ogni militanza in campo
letterario e contento di esserlo, il quale non
fa altro che guardare la realtà e riflettere
sulla sua essenza, nonché sulle sue contraddizioni,
di fatti e persone, andando alle ricerca del
vero, non solo da ritrarre, ma da analizzare.
Già qui è presente una moderna
coscienza di doppia realtà perché
l'autore non può fare a meno di quel
senso escatologico al quale condizionerà
sempre le forme della sua arte: il significato
più esterno è la censura dell'assenteismo
padronale e l'incitamento ai grandi signori
terrieri ad essere più attivi; si arriva
un po' più addentro quando s'intendono
come simboli i personaggi. Per fare ciò,
avrebbe forse potuto fare di meglio che prendere
a soggetto, almeno come punto di partenza, il
suo reale, quello che meglio conosceva e che
più avrebbe potuto sorprenderlo? L'autore
in persona dichiara, in una frase riportata
da Giannetto Bongiovanni nel suo studio sul
Nostro:
Tendete sempre verso la verità che è
la luce dell'arte .
Ponchiroli pare non tenere in considerazione
neppure le parole del Prologo a L'Illustrissimo,
le quali sottolineano che sarebbe tempo perso
aspettarsi dal romanzo
arcadici contadini, come quelli dei melodrammi
o dei vasi di porcellana. I contadini veri non
sono né satrapi, né pastorelli:
sono uomini, ed uomini; come tali hanno molti
pregi e molti difetti dovuti alla natura o,
per meglio dire, alla mancanza d'arte .
Niente potrebbe essere più efficace
di queste frasi per garantire che non c'è
alcuna vicinanza con la poetica campagnola,
non c'è alcun indugio sul rapporto città-campagna,
così come non c'è indulgenza (mentre
c'è grande simpatia) per gli attori delle
storie, a qualsiasi classe sociale appartengano;
ad essi mancano le caratteristiche classiche
attribuite ai contadini bucolici: la sicurezza
di compiere una giusta e santa missione; il
senso di responsabilità che guida le
loro azioni nella consapevolezza dei legami
familiari; l'impegno corale in gioie e dolori.
Questi campagnoli sono sì laboriosi e
benevoli, ma anche meschini e peccatori, in
un ambiente caratterizzato più da povertà,
miseria e bisogni primari da soddisfare ad ogni
costo, che da campi verdeggianti e assolati
e ninfe adagiate sulle rive dei ruscelli. Nella
Bassa è il Po a farla da padrone, specie
quando mette a repentaglio il raccolto a causa
delle sue piene spaventose; Cantoni non manca
di descrivere fatti del genere, senza preoccuparsi
della loro crudeltà, nonché della
mancanza di dolcezza e leziosaggine:
Dopo ci arrivò addosso una montagna d'acqua,
e là, a quella volta [
] un lunghissimo
tratto del nostro argine si rivelò subito
per troppo basso. Ne arammo li ciglio senza
perder tempo, lavorammo dì e notte come
disperati [
]. Gli uomini portavano la
terra colle carrette, le donne e le ragazze
nei grembiuli, i bambini, alti così,
nelle berrette [
] Il Po gonfiava a vista
d'occhio e ci fu un momento, verso le dieci
di sera d'oggi otto, che dovemmo tenerlo fuori
a badilate, quanto era lungo l'arginello nuovo,
mentre il vento ci portava il suono delle campane
a stormo, e le donne ci piangevano ai fianchi,
e urlavano i bimbi di freddo e di paura [
]
Eppure all'alba il Po cominciò a calare
altrettanto a precipizio di quanto era salito
nella notte. Non poteva derivare che da una
grossissima disgrazia (accaduta altrove - si
capiva bene - ma importano di molto le disgrazie
[
] degli altri in quei momenti!
)
.
Le donne della campagne narrate dal Nostro
sono madri di famiglia, mogli e amanti anche
un po' spregiudicate, impegnate nelle fatiche
come gli uomini, se non di più; hanno
la malizia di Mirandolina e un certo gusto per
il "peccato" che è di tante
protagoniste boccaccesche, ma anche quello spirito
forte e saldo, capace di tenere unita la famiglia,
che era proprio della dominae. Nella novella
Bastianino si legge:
nel quale due donne, madre e figlia, parlano
forte e chiaro, siccome usa nel contado, checché
ne dicano gli Arcadi .
E infatti una delle protagoniste femminili
di questo racconto, la madre della giovane promessa
sposa, ragionando a fini prettamente utilitaristici
e con tutta l'arguzia di cui una donna sa essere
capace, cerca di convincere la figlia, romantica
e sognatrice come tutte le giovani, a concedersi
al pretendente più benestante, lasciando
il vero amore, Bastianino.
Alberto non ha dunque scritto di vita campestre
per seguire le linee direttive di tutta quella
produzione rusticana che si era sviluppata in
Italia dalla metà dell'Ottocento, derivata
da una situazione di svolta della società
con la crisi del ceto medio tradizionale; anche
se quest'ultima è un dato da tenere in
considerazione perché ha molta incidenza
sulla letteratura. Parecchi scrittori, infatti,
provengono da questo strato sociale, ne patiscono
la decadenza e la riflettono nelle loro opere,
sviluppando così una tematica che ruota
attorno al rimpianto del mondo del passato,
in particolare di un mondo agrario dipinto dalla
nostalgia a colori idilliaci, che viene spazzato
via dal progresso moderno .
Alberto si è posto le stesse problematiche
e gli stessi interrogativi lungo tutto il corso
della sua carriera di narratore: ha voluto guardare
nell'essenza delle persone e dei loro comportamenti,
cercando in questo modo di capire un po' di
più anche se stesso, per comprenderne
i misteri e le contraddizioni, i falsi atteggiamenti
in quella enorme farsa che è la vita;
e lo ha fatto ruotando il suo sguardo di umorista
prima verso ciò che lo circondava, per
andare a finire lontano, persino fra monarchi
e personaggi allegorici, sempre con la medesima
nettezza di scrittura e abilità nel descrivere
i caratteri, senza rimpianti, né giudizi,
ma con il dubbio e la simpatia di chi ha come
unica certezza quella che niente vi è
di più complesso e incomprensibile della
vita degli uomini, a qualsiasi ceto essi appartengano.
A tale proposito è esemplare l'inizio
del capitolo IV dell'Illustrissimo, in cui è
il narratore Cantoni che parla facendo una considerazione
moderna, intimista ed universale, totalmente
staccata dai canoni bozzettisti:
Allorché una persona nervosa sta bene,
le pare di essere sempre stata bene, allorché
sta male, sempre male. Essa vede le cose dietro
un prisma particolare, il quale non si limita
ad agire con vario effetto sul presente e sul
futuro, ma arriva persino a colorire a suo modo
anche il passato .
3.1.3. Alberto Cantoni non è un verista
Riccardo Bacchelli, nella più volte citata
Prefazione al suo volume su Cantoni, sempre
cercando di inquadrare l'opera del mantovano
in schemi più possibilmente ottocenteschi
e vicini al realismo, lo definisce prima: "narratore
d'osservazione umilmente veristica"; due
pagine dopo ne parla come di "verista paesano
e cittadino"; infine ne elogia "la
schiettezza e l'umiltà del buon verista
moderno" .
Daniele Ponchiroli, nel suo saggio su "Belfagor"
scrive: "Così il verismo, messo
alla berlina dal critico Cantoni, si mostra
quasi inconsapevolmente nello scrittore, o meglio,
nel narratore che pure è in lui".
E allora parla di "stile veristico e realistico"
.
In realtà Alberto Cantoni ha saputo collegarsi
al reale oltrepassando gli schemi veristi; ha
saputo superare posizioni teorizzate e fissate,
e darsi un'intensa visione obiettiva dell'esistenza,
pur affermando la capacità di scrivere
in sintonia con le sue qualità soggettive:
in altre parole, ha saputo spingersi la realtà
concreta andando oltre le idee prefissate, per
aprire la via ad una rappresentazione caricaturale,
grottesca, umoristica, ma profondamente complessa,
della vita. È riuscito dunque a mettere
in pratica, ancor prima che venisse teorizzato,
quel passaggio dal verismo all'umorismo che
soltanto con Pirandello diventerà palese
e sarà compreso: quello che il siciliano
andrà a dimostrare, ma che Cantoni mette
già timidamente in pratica, è
un'azione di logoramento e svuotamento dei moduli
veristici perché viene sentita la necessità
di andare oltre il fenomenico, di scoprire,
al di là di ciò che è,
o era ritenuto, realtà, il suo volto
autentico, la sua verità. I veristi,
nonostante il nome, si fermano al gradino precedente
lungo tale percorso, analizzando i fatti con
una ricercata precisione scientifica, con la
volontà di dare un documento umano attraverso
una minuziosa e fedele ricostruzione di personalità
e ambienti, ai quali è inscindibilmente
legata tutta la storia, ma non andando alla
scoperta della loro essenza.
Cantoni, invece, parla della (e vuole parlare
alla) umanità intera e dei suoi "tipi".
Una prima differenza sta nell'importanza del
luogo d'ambientazione della storia, che nei
suoi scritti è piuttosto relativa: gli
uomini si trovano ovunque, l'ambiente è
solo un pretesto, anzi, in qualche modo è
già una circostanza che condiziona, modifica
e falsa l'animo umano, vero e unico oggetto
della narrativa cantoniana. Roberto Cadonici,
introducendo l'opera di cui è curatore,
scrive:
Infatti anche i luoghi, innumerevoli e vari
come si conviene alla geografia di un romanzo,
risultano [
] anonimi [
]; la tenuta
agricola della Casanova, per quanto presente
e protagonista in quasi tutti i suoi spazi,
dall'aia al fienile, dai campi alla cucina di
Stentone, è in realtà ambientazione
necessaria, più che strettamente funzionale,
spazio teorico all'interno del quale si muovono
(appunto, si direbbe, come attori) i vari protagonisti
della vicenda .
Per il verismo, invece, i luoghi, la loro descrizione
e la loro definizione, sono fondamentali, proprio
perché già essi stessi oggetti
delle "riprese dal vero", en plein
aire, dell'autore.
Anche Bastianino si può prestare erroneamente
ad un'interpretazione verista per i seguenti
tratti: gli spunti di critica sociale, le osservazioni
sul costume delle campagne, sulla psicologia
dei contadini, sull'economia rurale, sui rapporti
con i padroni, sul colpevole assenteismo di
questi ultimi, sullo stato d'ignoranza e di
apatia in cui vegetano i braccianti. E in verità
nulla di tutto questo può dirsi estraneo
all'interesse e alla sensibilità di Cantoni,
il quale indaga, scruta, analizza e annota quanto
cade sotto il suo sguardo, quanto gli è
offerto dalla sua stessa esperienza di proprietario
terriero in quella Bassa Lombardia che costituisce
lo sfondo delle prime vicende raccontate. Ma,
d'altro canto, al di là di quegli uomini
"veri" e di quei "veri"
avvenimenti della vita agricola, è indotto
dalla propria insopprimibile natura ad investire
quella realtà con sempre più acuta
e pietosa ironia , con una disposizione critica
che anche in questi casi approda a soluzioni
umoristiche, pur di tono affettivo e comprensivo,
senza acrimonia e sarcasmi; le "scene della
Bassa Lombardia" rappresentano per tanto
un' occasione di critica del costume trasferita
in un ambito d'interpretazioni soggettive, ma
non giustificata da un'adesione attiva alle
ragioni morali e sociali che muovono la vita
dei contadini, anche se queste siano per lui
oggetto di ripensamento e discussione.
Nella realtà che era stata proposta dal
verismo, Alberto pare trovarsi ad entrare con
mezzi del tutto proprî, attrezzato ad
osservarla non tanto con la lente di un impassibile
scrutatore, quanto con lo spirito critico e
problematico di chi voglia scomporla e frantumarla
per mostrare che tale realtà ha sempre
almeno due volti e due possibilità e
che è quest'aspetto, prima di tutto,
a dover mettere in crisi chi la vive, essendo
costretto com'è a sottostare alla sue
regole e ai suoi falsi moralismi, alle circostanze
di facciata e al gioco delle parti. Questa posizione
sarebbe di dura critica e fredda analisi, se
a vivificare, accendere e anche sconvolgere
quella situazione non intervenisse la forza
sentimentale dell'autore in persona, con quel
suo modo del tutto personale di trasferire nella
fantasia gli uomini, i casi e la natura medesima.
È questo il fatto che in modo veramente
inequivocabile dichiara estraneo Cantoni da
qualsiasi tipo di aderenza alla corrente veristica:
il non aderire affatto all'imprescindibile canone
dell'impersonalità, modus scribendi postulato
dagli scrittori naturalisti francesi prima,
dagli italiani poi.
Ciò che distingue l'idea di romanzo proposta
da questi ultimi, non è tanto l'atteggiamento
con cui l'autore giudica la società borghese
in cui vive, quanto la scoperta di uno strumento
tecnico: quello che Flaubert chiama "impersonalità".
Verga specifica la sua posizione sul problema
formale con diverse espressioni , una delle
quali è la seguente:
Ho cercato di rendere l'ambiente con semplicità
di mezzi, costringendo quasi il lettore a chinarsi
per contemplare i miei eroi piccini .
Da questa frase, si possono desumere alcuni
punti essenziali della poetica verghiana e quindi
verista: l'autore non deve filtrare i fatti
attraverso la sua lente, ma li deve porre di
fronte al lettore direttamente, come in una
rappresentazione drammatica; questo attraverso
il procedimento della "regressione"
del punto di vista narrativo entro il mondo
rappresentato, a partire dal linguaggio, che
sarà lo stesso dei protagonisti e non
quello colto e borghese dello scrittore; il
medesimo vale per il punto di vista adottato
nell'affrontare gli avvenimenti: nessun giudizio,
nessun commento, nessuna spiegazione da parte
di chi scrive: il bene e il male sono distinti
esclusivamente dai personaggi narrati e dalla
loro società.
Come può Alberto Cantoni essere verista,
senza rispettarne la maniera poetica basilare?
I suoi interventi, il suo punto di vista, i
suoi commenti, il suo linguaggio, la sua persona
che si riflette persino nella fisicità
di certi personaggi, sono presenti continuamente
nelle pagine di racconti che non si accontentano
di indagare scientificamente una determinata
società (come nel "ciclo dei vinti"),
ma che puntano all'universale: la sua è
la posizione del narratore onnisciente che,
in quanto tale, interviene a commentare o dipanare
la storia, parlando direttamente con i lettori
e fornendo loro addirittura consigli, ironici,
di lettura. Cantoni non narra di agricoltori
perché siano loro a combattere più
duramente la lotta per la vita, in quanto quest'ultima
è problema di tutti e non si esplica
solo contro l'arrivismo del prossimo, ma persino
contro se stessi nelle molteplici personalità.
Differenza perciò sia formale, sia contenutistica,
nonché di vedute: nel siciliano alberga
un profondo pessimismo che non gli permette
di leggere le difficoltà, come aveva
detto Manzoni, quali interventi della Provvidenza,
ma solo come l'aspetto tristemente preponderante
dell'umana esistenza, al quale gli uomini non
possono far fronte altro che con il combattimento,
fisico e mentale, non risparmiando atti malvagi
e scorretti, perché la legge, darwinianamente,
è quella del più forte. Alberto
supera i miti del populismo, dei buoni sentimenti,
del progressismo positivista, ma riesce ad andare
anche oltre lo scoraggiamento del portavoce
verista, trovando risposte nell'analisi di se
stessi e del reale, che in questo modo restano
sicuramente incomprensibili fino in fondo, ma
almeno affrontabili, magari con un sorriso sulle
labbra, ricco sì d'amarezza, non di rabbia.
Anche per Cantoni, come per Giovanni Verga,
nella rissa quotidiana ci sono dei vinti, ma
se per il verista si tratta di coloro che soccombono
alle difficoltà non riuscendo a sopravvivere
al più forte, per il mantovano sono le
persone che non riescono a combattere, ancor
prima che contro la durezza materiale della
realtà, contro la sua falsità,
contro le sue messe in scena e contro le maschere
che essa impone per poterne far parte.
3.1.4. Alberto Cantoni non è un romantico
Riccardo Bacchelli, sempre sostenendo la tesi
di divisione in tre fasi dell'opera cantoniana
, scrive:
Esordì tendente al facile e a quella
specifica prolissità ch'è degli
scrittori teneri e sentimentali .
Ma nella lettura di Pietro e Paola con seguito
di bei tipi, si leggono le seguenti battute:
- Anzi, a proposito di biblioteche, vorrei dire
una cosa.
- Dite brevemente.
- Che ho letto molti libri, pieni di cuore e
di affetto, e molti altri pieni di arguzia,
ma di affettuosi e di arguti insieme non tanti,
davvero, anzi, per dire brevemente, nemmeno
uno .
Due pagine prima, inoltre, si anticipa:
Io non vedo che una escita per voi: l'arguzia
affettuosa. Per molte ragioni, lunghe a dirsi,
non le fu ancora dato, nelle nostre lettere,
quel posto che le era dovuto, ma bisogna anche
dire che nessun altro tempo ne ebbe mai tanto
bisogno come ne avrà di certo quello
in cui stiamo per entrare: tempo di statuti
saturi d'amore e di esperienze feroci o barocche:
tempo di irosi contrasti pratici e di svenevoli
aspirazioni teoriche. Tempo infelice insomma
e foriero di procelle, durante il quale il più
volgare buon senso avrà bisogno di molto
buon cuore, perché entrambi non abbiano
e presto a naufragare insieme. Siate dunque
il più affettuosamente arguto che potete
.
L'elogio è alla nuova arguzia e i libri
"pieni di cuore e di affetto", e di
nient'altro, di cui Pietro, e dunque Alberto
in persona, alla ricerca dell'ispirazione per
la nuova scrittura moderna, non si accontenta,
parrebbero essere proprio quelli dei romantici
.
Con l'età romantica, allora, in particolare
il romanzo, assume una forma e una dignità
diverse rispetto alle esperienze precedenti,
in cui si è sempre distinto come una
maniera di scrittura declassata rispetto ad
altre più auliche, rivolte volutamente
ad un pubblico selezionato, quali l'epos, la
tragedia e la poesia; ora a leggere e a scrivere
è però il moderno mondo borghese,
che può, anzi, vuole avere anch'esso
il proprio epos, ma che non sia più quello
eroico: non più il poema celebratore
di eroi e divinità; la nuova epica doveva
essere in prosa e con protagonista eroico l'uomo
di ogni giorno, in lotta non con il destino
e il fato, ma con i limiti che la società
e le sue convenzioni impongono al libero agire.
Scopo dell'artista moderno deve essere saper
coniugare l'aulicità dell'arte antica
con i nuovi moti dell'arte moderna, ovvero sollevare
all'arte il moderno creando la letteratura della
civiltà borghese.
I romantici affermano l'esigenza di una cultura
rinnovata e adatta alla loro contemporaneità,
che non si rivolga solo alla cerchia chiusa
dei letterati, ma ad un pubblico più
vasto, al "popolo" (cioè ai
ceti medi), interpretandone gli orientamenti
e le aspirazioni in romanzi e novelle dal linguaggio
corrente e dai temi accattivanti, ma anche tali
per cui ciascuno ci si possa riconoscere. Cantoni
non si allinea neppure con questo, infatti,
sempre in Pietro e Paola scrive:
-Poi di scrivere, ben inteso, per i buon gustai
- cioè a dire per un molto esiguo e molto
perverso ceto di persone - ma pur sempre colla
ferma idea di farvi capire ad un bisogno anche
dal popolo, evitando cioè le frasi lambiccate
e la parole fuor d'uso o non ancora in uso .
Consigli di scrittura fra le righe della novella
che allontanano il Nostro dai canoni romantici,
quali la ricerca di composizioni per un pubblico
più vasto possibile: Cantoni non lo fa
per la volontà di un ritorno al passato
con una concezione elitaria dalla letteratura,
ma per la sua congenita disillusione; una chiusura
che, in questo caso pare portarlo più
che ad un atteggiamento timido, ad un convinto
senso di superiorità.
Comprende comunque la necessità di abbandonare
il linguaggio aulico, proprio della tradizione
letteraria italiana, allo stesso modo dei romantici,
i quali, rifiutando le posizioni dei classicisti
in forma e temi, si pongono l'obbiettivo di
una letteratura che si ispiri al "vero"
(a differenza dei romantici d'oltralpe) e sia
equidistante dai vuoti formalismi classicheggianti
e dalle evasioni fantastiche e sfrenate di moda
nel nord Europa. Anche per tale ricerca della
verità è possibile cadere nell'errore
di accodare il mantovano a questo movimento,
ma ci si ricrede subito vedendo come i racconti
romantici seguano una specie di formulario di
tematiche per stabilire il loro contenuto e
andare incontro ai gusti dei lettori: la famiglia,
l'adulterio, la prostituzione, il denaro, il
declino dell'aristocrazia, l'avanzare di nuovi
tipi umani ( come il self-made man), la nascita
di un proletariato urbano e di una criminalità
cittadina, le prospettive nuove che la conoscenza
e la tecnica aprono agli uomini, i problemi
di quella società della scienza e degli
affari, amori strazianti ed impetuosi, passioni
travolgenti. Insomma, attualità, idealismo
e sentimentalismo per una specie di ricetta
di scrittura nella quale la maggior parte del
pubblico in via di espansione possa ritrovarsi.
In Cantoni non c'è nulla di apologetico
e propagandistico, nessuna speranza positivista,
nessun ricordo edulcorato, nessuna femmina fatale,
nessuno strazio di sentimenti fine se stesso,
nessun ricamo a romanzare i fatti di ogni giorno,
che, invece, vengono esposti in maniera dura
e schietta, amara e scontrosa, senza pietismi
o falsi favoritismi.
Il racconto Una le paga tutte inizia come meta-racconto
perché lo scrittore, attraverso le figura
retorica della preterizione, parla del modo
di comporre il racconto stesso:
- Merita scrivere una prefazione per avvisarvi,
o lettore, che questo racconto non seguita niente
affatto ad essere così liscio e consueto
com'è per un buon tratto qui dapprincipio?
- No che non merita. O vado avanti, e me ne
avvedrò da me, o mi vien voglia di smettere
innanzi di potermene avvedere, e nemmeno la
prefazione mi tiene.
- Giustissimo. Solamente andava detto prima.
- Quando?
- Quando la prefazione era ancora da fare. Ora
è fatta .
A parte l'arguto escamotage, di cui non solo
in questa pagina l'autore si dimostra amante,
interessanti sono i termini "liscio e consueto"
perché prendono la distanza dallo stile
fissato appunto dalla consuetudine, caratterizzato
da scorrevolezza e consequenzialità,
mentre quello di un umorista è proprio
il contrario: sconnesso, spezzato da divagazioni
e riprese, digressioni e parentesi, formato
da strutture ad incastro e dall'acre intonazione,
senza i consueti ripiegamenti lirici e sentimentali.
Non per niente, nella medesima opera, Alberto
precisa di nuovo la sua posizione rispetto alla
tradizione romanzesca:
Mentre i due sposi si avviano al loro viaggio
di nozze, abbiamo tempo di ripetere colle parole
quello che si è già veduto nei
fatti: vale a dire che Margherita non possedeva
poi quella grande fortezza d'animo che i romanzieri
di buon cuore e di larga mano sogliono profondere
alle loro invidiate eroine .
In questo caso direi che la critica è
palese, tanto quanto quella di un altro passo,
questa volta tratto da Bastianino:
Se non che, possiamo aggiungere subito, e Cassandra
e le Streghe ci vengono avanti come illuminate
dalla più alta poesia che fosse al mondo,
e la poesia può a buon diritto giovarsi
del meraviglioso; ma i romanzi e le novelle
sono ben' altra cosa, e come il vero, propriamente
detto, ci deve trovare la sua nicchia fissa,
così tutti i pronostici dell'avvenire
dovrebbero esservi costantemente additati per
quelle solenni imposture che sono. Eppure non
accade così. Basta anzi che un personaggio
di qualche racconto abbia a lottare con tristi
presagi, perché si possa andar quasi
certi che il narratore avvalorerà il
pregiudizio, dandogli ragione, e condurrà
così la debole sua leggitrice a tremare
per ogni vena, e ad impensierirsi d'ogni suo
cattivo pronostico per frivolo che sia .
Infatti i protagonisti della vicenda, Bastianino
e Maddalena
si amano di amore niente affatto eloquente
di quelli che durano .
Bacchelli nel prologo della sua raccolta cantoniana
giustifica la scarsa popolarità del Nostro
con la distanza dei suoi scritti dalle mode
letterarie del tempo; lo rimprovera di non aver
realizzato un "grande, originale romanzo
d'anime e costume" . Ma Cantoni si è
volutamente posto lontano e controcorrente rispetto
alla cultura dominante e se non ha fatto qualcosa,
è sicuramente stato per scelta e non
per pigrizia o mancanza d'avvedutezza. Non per
nulla, sebbene conscio di sacrificare la vendibilità
e la fruibilità dei suoi scritti, ha
preso le distanze anche dal romanzo d'appendice
che andava furoreggiando ai suoi tempi (il romanzo
d'appendice era la formula ideale della cosiddetta
"letteratura di consumo", atta a colpire
fortemente l'immaginazione con intrighi complicati,
fatti sensazionali, amori sublimi e sventurati,
scene patetiche o truculente, e a destare la
curiosità con colpi di scena, indizi
imprevisti, capovolgimenti, rivelazioni clamorose
e risolutive; il tutto aggiungendo l'espediente
dell'uscita a puntate sulle riviste interrompendosi
proprio in una scena cruciale).
Cantoni s'allontana convinto da generi e categorie
di romanzo (sociale, rusticano, psicologico,
contemporaneo, storico) per scrivere da umorista
sull'essenza dell'esistenza, di tutti gli uomini
e di se stesso.
3.1.5. Alberto Cantoni non è uno scapigliato
Il racconto di Alberto Cantoni Un re Umorista
è stato piuttosto recentemente ripubblicato
a cura di Gilberto Finzi in una collana dal
titolo: Racconti neri della scapigliatura .
La volontà di inquadrare il mantovano
all'interno di questa corrente è dunque
chiara e decisa, ma, al solito, discordante
con altre prese di posizione da parte dei critici,
e soprattutto con la volontà dell'autore
stesso, che non ha mai fatto dichiarazioni o
manifestato simpatie nei confronti degli scapigliati
medesimi.
Ma facciamo un passo indietro per capire la
ragioni e la intenzione di questi scapigliati,
come nascono e perché il Nostro potrebbe
venire associato a loro. Gli intellettuali scapigliati
sono accomunati, più che altro in negativo,
da un'insofferenza per le convenzioni della
letteratura contemporanea (in particolare il
tardo Romanticismo sentimentale, ma anche il
manzonismo), per i principi e i costumi della
società borghese, e da un impulso di
rifiuto e di rivolta che si manifesta nell'arte
come nella vita .
Con il gruppo degli scapigliati compare per
la prima volta nella cultura italiana dell'Ottocento,
in forma estesa e violenta, il conflitto tra
artista e società, che era stato l'aspetto
costitutivo del Romanticismo straniero : infatti
nella penisola il conflitto non si era manifestato
sia a causa dell'arretratezza dell'organizzazione
sociale e culturale dell'Italia, in confronto
con i più evoluti paesi stranieri, sia
a causa del fatto che gli intellettuali italiani
avevano ancora un preciso ruolo sociale nel
processo risorgimentale (guide ideologiche,
propugnatori dei valori patriottici, celebratori
delle glorie passate). La conclusione del Risorgimeno
porta al venir meno di questo ruolo dell'artista,
attraverso processi di modernizzazione che scalzano
l'umanista tradizionale, declassandolo e respingendolo
ai margini della società: di qui nascono,
anche negli italiani, gli atteggiamenti ribelli
e anticonformisti, il mito di una vita irregolare
e dissipata come rifiuto radicale delle norme
morali e convenzionali ("maledettismo").
Di fronte agli aspetti salienti della modernità,
il progresso economico, quello scientifico e
tecnico, gli scapigliati assumono un atteggiamento
ambivalente: da un lato il loro impulso originario
è di repulsione e orrore, com'è
proprio dell'artista che si aggrappa ai valori
del passato, la Bellezza, l'Arte, la Natura,
l'autenticità del sentimento, che il
progresso va distruggendo; dall'altro lato,
però, rendendosi conto che quegli ideali
sono ormai perduti irrimediabilmente, essi si
rassegnano, delusi e disincantati, a rappresentare
il "vero", specie negli aspetti più
prosaici della realtà, anche quelli più
brutalmente materiali e turpi, e ad accettare
la scienza positiva che li mette crudamente
in luce, ad usare il linguaggio dell'anatomista
e del chimico.
Gli scapigliati definiscono questo atteggiamento
"dualismo": essi si sentono divisi
fra Ideale e Vero, virtù e vizio, bene
e male, bello e orrendo, senza possibilità
di conciliazione; e la loro opera è proprio
l'esplorazione di questa condizione d'incertezza,
di angosciate perplessità, di disperazione
esistenziale (che in taluni non finisce nella
pagina scritta, ma si trasferisce nella vita
vissuta: alcol, miseria, suicidio).
Questa situazione di disagio, di protesta, di
lacerazione, fa sì che la letteratura
scapigliata recuperi tutta una serie di temi
romantici europei: l'esplorazione estrema dell'irrazionale
e del fantastico, la dimensione del sogno e
dell'allucinazione, il "nero", il
macabro e l'orrore, il satanismo, ma anche il
culto mistico della bellezza, l'esotismo, atteggiamenti
umoristici e ironici.
In una direzione un po' decadente (di tale genere
letterario anticipano alcune soluzioni) va anche
la sensibilità per la mescolanza delle
sensazioni e anche il culto per la bellezza
e per la forma anticipa per certi aspetti l'estetismo,
fino a bizzarre soluzioni stilistiche che violentano
la lingua d'uso comune con ardite mescolanze
di ingredienti e di livelli: nella Scapigliatura
vi sono dunque le potenzialità di un
gruppo d'avanguardia, se avanguardia è
rifiutare di soddisfare il gusto medio del mercato
letterario e sperimentare forme e temi del futuro.
Ora: parole chiave di questo discorso illustrativo
dei tratti salienti della Scapigliatura, che
aiutino a comprendere come mai Alberto Cantoni
sia stato anche posto fra questi eccentrici
scrittori, sono: "dualismo", "vero",
"atteggiamenti umoristici", "brutto
e prosaico", "allontanamento dal Romanticismo"
e, in generale, l'atteggiamento del letterato
che non vuole essere conforme alla mode culturali
del momento per ingraziarsi colleghi e lettori.
Anzitutto il nostro rimane staccato da mode
e movimenti in primis per il suo carattere timido
e schivo, un po' prevenuto e ritroso, che, come
non lo porta a voler entrare nel vivo del panorama
letterario, fra salotti e circoli, altrettanto
non lo induce a schierarsi dalla parte opposta
(quindi quella scapigliata), ad essere combattivo
e ribelle, a lasciarsi prendere da una furia
dichiarata che porta ad atteggiamenti distruttivi
anche nella propria quotidianità. Ombroso
e solitario per le vie del suo paese, Alberto
va alla ricerca del vero per indagarne l'essenza,
e non la scientificità, considerandone
anche gli aspetti più bassi perché
il comico e ancor più l'umorismo non
possono fare a meno del brutto, ma non per fare
di quest'ultimo il portabandiera di alcun messaggio
provocatorio e rivoluzionario, insistendo e
compiacendosi dell'orrido in modo esasperato
e fine se stesso. Se la prosa nella sintassi
è franta e scattosa, è composta
comunque da un innegabile conservatorismo linguistico
che non inneggia alla scienza positiva e ai
suoi metodi di sezionare il reale, ma che anzi
si ricollega alla tradizione, con evidenti tratti
di manzonismo (anche nell'essere narratore onnisciente
) che gli Scapigliati non avrebbero mai accettato
(nei confronti di Manzoni il loro pensiero è
ambivalente, di odio-amore, ripulsa-ammirazione:
egli rappresenta una figura stabile ed inquadrata
a cui sentono la necessità di ribellarsi,
ma di cui non riescono a liberarsi perché
ne avvertono la grandezza ineguagliabile, che
li schiaccia, ma inevitabilmente li influenza).
Cantoni si allontana volontariamente dalla classicità,
ma senza denigrarla, senza bestemmie ed imprecazioni,
volenteroso e cosciente di voler portare qualcosa
di nuovo, ma senza distruggere e rinnegare ciò
che è stato, per quanto lo abbia stancato.
Se negli Scapigliati è presente qualche
nota di umorismo, questa è una conseguenza
di un modo di guardare e descrivere la realtà
che li vede superiori, comunque disorientati,
ma pieni di rabbia e convinti di poter portare
alla fine un nuovo messaggio, sia esso negativo
e distruttivo, una nuova verità; per
il mantovano, invece, l'umorismo è un
punto di partenza e un punto d'arrivo insieme,
è l'unico modo per poter considerare
la vita: con gli occhi disincantati, ma stupiti
e silenziosi, di chi comprende uno stato di
rottura e disillusione della realtà,
ma che, proprio per questo, non si erge portatore
di nessun messaggio belligerante e risolutivo:
lo stato dell'umorista vero è il dubbio
e la perplessità.
È dunque particolare anche l'abbinamento
fatto da Benedetto Croce, nella sua Letteratura
della Nuova Italia del Nostro assieme allo scapigliato
Carlo Dossi per il loro modo di scrivere similmente
umoristico, perché in realtà Dossi,
con il suo "linguaggio spinoso" e
sperimentale, la sua "sintassi contorta",
i suoi neologismi, fino ad andare contro l'uso
corrente, mostra un aspetto "di satirico
e di pessimista" e un forte volontà
di forzatura del mezzo linguistico. La ricerca
di rivolta e di rivoluzione è quindi
molto decisa in questo scrittore , laddove,
invece, in Cantoni manca volontariamente.
3.2. L'umorismo di Alberto Cantoni
3.2.1. Brevi cenni sull'umorismo moderno
Chiarito ciò che il letterato Alberto
Cantoni non è, possiamo finalmente arrivare
a dire ciò che, invece, incarna con certezza:
Alberto Cantoni è un'umorista, ed è
lui stesso ad assicurarcelo attraverso le caratteristiche
delle sue opere e le dichiarazioni di poetica
in tal senso presenti nelle pagine della sua
prosa.
Anzitutto è utile chiarire brevemente
cosa sia l'umorismo, inteso come atteggiamento
mentale e come maniera letteraria: per fare
questo è impossibile prescindere dalla
teorizzazione che ne ha fatto Luigi Pirandello
nel suo saggio "L'umorismo" e prima
ancora da una definizione dell'umorismo stesso.
Secondo Umberto Galimberti, nel Dizionario di
Psicologia, "umorismo" corrisponde
alla seguente definizione:
Lettura arguta e indolente del lato ridicolo
di cose o persone.
L'umorismo facilita interazione sociale, comunica
consonanze, induce cambiamenti nella considerazione
del gruppo, contribuisce alla verifica della
stabilità dei rapporti. Siccome dipende
dal contenuto e dal contesto sociale, l'umorismo
può avere diversi effetti sul promotore
e sul destinatario, a seconda di come quest'ultimo
percepisce i valori e le motivazioni del promotore,
che a sua volta risulta influenzato dalle reazioni
suscitate dal suo umorismo. S. Freud ha dato
due letture dell'umorismo: una in chiave economica,
come dispendio affettivo risparmiato: "
Condizione perché si dia umorismo è
che si determini una situazione nella quale
siamo tentati, conformemente alle nostre abitudini,
di sprigionare un affetto penoso e in cui agiscono
su noi motivi volti a reprimere in status nascendi
quest'affetto. [
] La vittima del danno,
dolore e simili, potrebbe ricavare un piacere
umoristico, mentre colui che è indifferente
ride del piacere comico. Il piacere dell'umorismo
nasce allora, non possiamo esprimerci altrimenti,
a spese di questo mancato sprigionamento d'affetto,
sgorga dal dispendio affettivo risparmiato.
In chiave dinamica l'umorismo è spiegato
come un trasferimento dell'accento psichico
dall'Io al Super-Io che, come rappresentante
dell'istanza parentale, tratta l'Io come un
bambino a cui mostra l'irrilevanza dei suoi
tormenti sorridendone e offrendogli una consolazione
e una preservazione del dolore come se gli dicesse:
"Guarda, così è il mondo
che sembra tanto pericoloso. Un gioco infantile,
buono appunto per scherzarci su" .
Attraverso questo discorso viene portato in
luce un altro nome fondamentale per trovare
una giusta definizione dell'umorismo: Sigmund
Freud, che lo ha trattato nell'opera Il motto
di spirito e nel volume Inibizione, sintomo
e angoscia e altri scritti ; l'analisi di Freud
è interessante per il nostro discorso
anche perché viene proposto il caso della
narrazione come esempio di processo che coinvolge
due persone nel procedimento umoristico: mentre
una partecipa a quest'ultimo, l'altra fa della
prima l'oggetto della sua considerazione. Così
accade quando un narratore
descrive con umorismo il comportamento di persone
reali o inventate. Non è necessario che
queste persone si dimostrino a loro volta dotate
di umorismo, l'atteggiamento umoristico riguarda
esclusivamente colui che le prende per oggetto
e [
] il lettore o l'ascoltatore è
reso partecipe del godimento provocato dall'umorismo.
Riassumendo si può quindi affermare che
l'atteggiamento umoristico - in qualunque cosa
consista - può essere assunto o verso
se stessi o verso gli altri; ed è giusto
supporre che chi fa dell'umorismo ottenga un
piacere e che un analogo piacere tocchi allo
spettatore che ne partecipa .
Chi scrive in modo umoristico, dunque, non
lo fa solo per ottenere un che di liberatorio,
per il quale basterebbero il motto di spirito
o la comicità, ma per andare alla ricerca
dei lati più scoraggianti e deludenti
della vita, e proporre essi una sfida, con l'intento
di far trionfare l'Io (freudianamente parlando)
a dispetto delle reali avversità; la
differenza è anche con l'ironia, che
implica il contrasto fra quel che si dice e
quel che si vuole sia inteso, mantenendosi però
solo a livello verbale e non scendendo e quello
sentimentale.
È noto infatti che Pirandello , infatti,
cercando di capire cosa accade "dentro"
all'umorista, parla di "sentimento del
contrario", a differenza, anzi, a superamento
dell'"avvertimento del contrario":
sono questi i due atteggiamenti fondamentali
per passare dal comico al tragico, dal riso
spensierato al sorriso malinconico, dalla sicurezza
di superiorità rispetto alla situazione
alla perplessità più assoluta.
Questa è la condizione specifica dell'umorista,
il quale ha chiaro come la vita sia un flusso
continuo e come, di conseguenza, la volontà
di arrestarla attraverso i ruoli prestabiliti
imposti dalla società, a partire dalla
famiglia, porti ad annientarla facendo sì
che l'individuo assuma un ruolo nella propria
esistenza, ed un ruolo che è passivo,
dal quale le sole vie di fuga possono essere,
paradossalmente, la malattia, la follia, persino
la morte.
Sotto questo punto di vista, tanti aspetti della
realtà apparentemente buffi e comici,
diventano molto più degni di riflessione,
la quale è l'unica chiave che possa portare
a comprendere l'essenza delle situazioni dietro
la loro apparenza: questo è l'atteggiamento
dell'umorista. A tale proposito Pirandello afferma:
Nella concezione di ogni opera umoristica, la
riflessione non si nasconde, non resta invisibile,
non resta cioè quasi una forma del sentimento,
quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira;
ma gli si pone innanzi da giudice; lo analizza
spassionandosene; ne scompone l'immagine; da
questa analisi però, da questa scomposizione,
un altro sentimento sorge o spira: quello che
potrebbe chiamarsi, e che io infatti chiamo
il sentimento del contrario .
Chi voglia scrivere da umorista deve servirsi
anche di espedienti verbali e figurativi coloriti,
quali la caricatura, la presa in considerazione
del brutto, il descriverlo con gusto espressionista,
minutamente, in forma viva, anche nelle parole,
ricorrendo semmai all'uso quotidiano e persino
dialettale, magari in contrasto con una citazione
dotta enunciata poco prima.
Celebri personaggi umoristici nella storia della
letteratura sono, ad esempio, il Don Quijote
di Cervantes e il Don Abbondio di Manzoni: apparentemente
buffi e divertenti perché un po' goffi
e permalosi, o fifoni ed indecisi, con l'intervento
della riflessione si rivelano molto problematici;
il primo mostra come l'idealità cavalleresca
non possa più accordarsi con i tempi
in cui l'opera viene composta e questa certezza
deriva all'autore dalla sua esperienza personale:
soldato nella battaglia di Lepanto, viene ripagato
di tutto il suo slancio eroico e patriottico
con l'essere reso schiavo per due anni ad Algeri,
occasione che gli permette di meditare il suo
capolavoro. Cervantes si è dunque armato
cavaliere come Don Quijote, ha "combattuto
affrontando nemici e rischi d'ogni sorta per
cause giuste e sante", s'è "nutrito
sempre delle più alte e nobili idealità"
e, alla fine, finisce in prigione, proprio lì,
in un carcere della Mancha: personaggio e autore
si fondono e quest'ultimo, amareggiato e deluso,
sceglie di sacrificare se stesso alle risate
del pubblico attraverso le vicissitudini del
suo eroe al contrario, costretto com'è
a distruggere i miti in cui ha creduto e per
cui si è sacrificato.
Alla luce di tali riflessioni, fa ancora tanto
ridere questo Don Quijote?
Allo stesso modo Don Abbondio: codardo e corruttibile,
specie se messo a confronto con l'impeccabile
Federigo Borromeo; ma in quanti non avrebbero
avuto davvero paura di fronte a quei bravi che,
e Manzoni lo fa capire chiaramente con le sue
descrizioni, erano pronti a tutto pur di soddisfare
il loro padrone, altrettanto spietato e privo
di scrupoli? È buffo il prete quando
fugge, quando rinnega, quando si agita e trema
con il suo dito indice fra il breviario; però
la riflessione porta a comprendere che non così
buffa, ma realmente pericolosa, è la
situazione che lo spinge a dimenticare persino
il suo dovere di uomo di chiesa per salvare
la pelle: perché di questo si tratta.
Questione seria e delicata, dunque, come lo
è il momento storico dove il più
forte diventa padrone con soprusi e angherie.
Manzoni è un umorista che riflette, oltre
che criticare, e lo fa o ad alta voce con interventi
diretti in qualità di narratore onnisciente,
o attraverso le voci dei protagonisti, come
nell'esempio riportato da Pirandello e corredato
di un suo commento:
-A questo mondo c'è giustizia finalmente!,
grida Renzo, il promesso sposo, appassionato
e rivoltato.
-Tant'è vero che un uomo sopraffatto
dal dolore non sa più quel che si dica,-
commenta il Manzoni.
Ecco la fiamma là del sentimento, che
si tuffa qua e si smorza nell'acqua diaccia
della riflessione .
L'umorismo è quindi la capacità
di rilevare e rappresentare sì l'apparente
ridicolo delle cose, ma senza una posizione
ostile o puramente divertita, bensì con
l'intervento di un'intelligenza arguta e pensosa
e di una profonda e spesso indulgente simpatia
umana. E Alberto Cantoni, per tutto quanto è
stato detto fin'ora, è senza dubbio un
umorista.
3.2.2. "L'umorismo è l'arte di
far sorridere melanconicamente le persone intelligenti"
Questa è la definizione di umorismo
che lo stesso Alberto Cantoni fornisce nella
novella Un re umorista e che racchiude tutta
l'essenza del suo pensiero e della sua maniera
scrittoria:
Che è l'umorismo?
L'umorismo è l'arte di far sorridere
melanconicamente le persone intelligenti.
Nel pubblicare le mie memorie, dovrei mettere,
come per motto, questa domanda e questa risposta,
e poi dire ai lettori - Vediamo dunque di farvi
sorridere
melanconicamente.
Non sarebbe il medesimo come trattarli da brave
persone?
Questa frase dimostra ancora una volta la volontà
di rivolgersi ad un pubblico ristretto, ma selezionato,
e non dal punto di vista del ceto sociale, bensì
da quello della cultura e dell'intelligenza;
quest'ultima appartiene, evidentemente, a chi
è in grado di comprendere un'arte dichiaratamente
umoristica, quindi rispettosa di tutti i crismi
di tal genere: il sorriso portato dalla riflessione,
subito dopo quel riso tanto spontaneo quanto
poco giustificato; la consapevolezza della labilità
del reale, inteso come circostanze, come rapporto
con il prossimo e come coscienza di se stessi
e degli altri; la volontà di smitizzare
la realtà illusoria guardandola da dietro
le quinte e arrivando a togliere e soprattutto
a togliersi la maschera.
Costoro seguitano coi loro discorsi, mandati
a memoria, e non capiscono che la società
umana rassomiglia ad un viandante, che si sia
incamminato col cattivo tempo e con l'ombrello
rotto, sapendo benissimo di non trovare un cane
che glielo aggiusti lungo la strada. C'è
qualcuno ancora che abbia fede in quel povero
ombrello? C'è qualcuno ancora che abbia
fede nel felice e fratellevole scioglimento
della question sociale?
Secondo me non rimane che bagnarci e tacere,
o bagnarci
e parlare. Ma che brutte parole!
Profondo pessimismo in queste parole, che non
lasciano spazio a finti moralismi, a facili
illusioni e ad inutili convenzioni. Ma come
esprime Alberto Cantoni questo pessimismo, derivato
da una matura e moderna consapevolezza e non
da uno stato d'animo particolare e prettamente
personale? Non c'è il gusto d'insistere
e la volontà di non reagire di fronte
ai lati oscuri della realtà (attendendo
cristianamente la redenzione con la morte; o
leopardianamente il sonno lenitore dei più
grandi dolori di spirito; o verghianamente la
forza di non lasciarsi prendere dalla tracotanza
per sfidare il destino, invece di rimanere attaccati
tutta una vita al proprio scoglio), bensì
il desiderio di criticarla per superarne l'apparenza
disgregandola e scoprendone i lati inconciliabili.
Prima di tutto, però, questo atteggiamento
è da aversi nei confronti di se stessi:
l'umorista è un critico di sé,
intimista, sempre in lotta con il proprio sentimento,
in continuo conflitto con il "demonietto"
della riflessione; ed è da questo dualismo
psicologico, dall'accozzo di queste due forze
antagoniste, sentimento e riflessione, che nasce
l'umorismo cantoniano. Dice il "re umorista":
Ho visto una volta un Pierrot che stava serio
da una parte e si scompisciava a ridere dall'altra.
Io faccio peggio, ora sto serio per di fuori
e rido dentro di me. Ma rido male .
Dietro le parole del sovrano, c'è naturalmente
la personalità dello scrittore, che è
sempre lì, presente con il suo acuto
spirito d'osservazione e la volontà di
mettere a nudo la debolezza e la dicotomia del
suo io, dando vita a personaggi che alla conclusione
restano comunque con i loro problemi insoluti;
non c'è lieto fine nei racconti, così
come non c'è nella vita, nemmeno per
chi, all'apparenza, non ha nulla da chiedere
e lamentare. È il caso del re protagonista
della novella citata, il quale, proprio a causa
degli abiti impegnativi che si trova ad indossare
e che lo condannano ad essere esclusivamente
"sua maestà", ancor prima che
un individuo, sente tutta la miseria della commedia
che deve recitare in nome della costituzione
e soffre la lontananza dal suo popolo, dal quale
lo dividono tutti gli ingranaggi della burocrazia,
che, a sua volta, gli impedisce di amministrare
effettivamente la giustizia, indire la guerra
e proclamare la pace, stringere rapporti a corte
disinteressati e sinceri. L'attenzione di Cantoni
verso la miseria umana, si estende dunque dalle
più basse sfere della società,
con i contadini della Bassa padana, addirittura
alla corte di un re per dimostrare la comune
miseria di un' umanità ingabbiata in
forme e ruoli, e succube dei suoi stessi desideri:
Adornano il trono qui a me dappresso due vaghi
ed impettiti ufficialetti: i più giovani
fratelli di mia moglie, venuti espressamente
per la cerimonia. Li aspettammo ieri alla stazione,
dopo aver previsto, dalla mattinata, che più
tardi, vale a dire alla due e cinquantasette
minuti, ci saremmo precipitati gli uni nelle
braccia degli altri. Questo intervenire della
più precisa aritmetica dei nostri rapporti
affettuosi non mi è mai andato a genio.
Mi pare che ognuno, tanto chi aspetta come chi
arriva,sia tratto giuocoforza a ripassare mentalmente
la sua prossima pantomima, e tanto più
di core quant'è più imminente
.
Sono parole dense di significato, dove si distinguono,
per la loro bellezza d'immagini e forza espressiva,
l'espressione "aritmetica dei nostri rapporti
affettuosi" e il vocabolo "pantomima":
il calcolo, la falsità, la mancanza di
spontaneità, i travestimenti, i fraintendimenti
e la conseguente mancanza di comunicazione,
quindi la solitudine reale a fronte di un'ostentata
solidarietà, sono i concetti contenuti
in quei pochi termini.
"Pantomima" indica come la realtà
sia un palcoscenico, e dunque la vita una recita
nella quale gli attori sono gli uomini stessi,
dagli agricoltori alla gente di corte, a Cantoni
stesso, nell'intimo della propria casa, così
come nei rapporti pubblici e in società:
crediamo che le maschere, molteplici e intercambiabili,
secondo la situazione che andiamo ad interpretare,
siano la nostra forza, mentre costituiscono
tutta la nostra debolezza, non permettendoci
di conoscerci e di conoscere. Sì, perché,
a forza di fingere con chi ci sta di fronte,
finiamo per farlo anche con noi stessi, andando
a confondere e a snaturare la nostra personalità,
fino a cercare di uniformarla e di renderla
una, soffocandone i vari aspetti che ne costituiscono
l'alito vitale. Questa molteplicità interiore
può essere a volte spiazzante, ma permette
di vivere nel vero senso della parola, cioè
di non fossilizzarsi in un ruolo ben prestabilito,
andando a cristallizzare ciò che deve
essere un flusso continuo, cioè la vita,
quindi anche l'individuo ("Io sono come
la terra: mi muovo", dice il protagonista
di Una le paga tutte ). Proprio questo il re
patisce, l'essere considerato solamente per
la sua carica, a scapito della personalità:
- Non indovinerete nulla. Avrete innanzi un
re che è [sic] imbattuto ad essere, più
che altri, un uomo .
Consapevole della farsa della vita fin da
quando era bambino:
D'allora in poi, quando mio padre ebbe tempo
di mostrarmi un poco della sua tenerezza, non
gli seppi chiedere insistentemente che due cose
sole: o di lasciarmi rannicchiare dietro di
lui al teatro, o di ordinare ai suoi ottimi
commedianti di venire più spesso a recitare
a corte. [
] Ma poi, coll'andar del tempo,
si cominciò a mutar sistema, e così
io, in dieci o dodici anni a dire assai, ho
avuto la suprema soddisfazione a poter strappare
un buon lembo alla commedia universale, e di
rifarmi alla meglio delle altre commedie particolari,
in forme di Carte o di Costituzioni, che mi
erano state propinate dal mio governatore .
La scelta della moglie è stata condizionata
dal suo ruolo:
Io ho dovuto correre su e giù in mezzo
a quel biondo vivaio di principesse che è
la Europa centrale, ma i migliori momenti me
li sono vissuti da me, quando mi riusciva di
rimanere solo solo, a guardare il cielo per
la finestra .
È costretto a subire le pressioni e
le ipocrisie dei falsi amici di corte al suo
seguito:
Io invece non ho alcun bisogno di ricorrere
alla matita per farmi le caricature; io le vedo
da me, senza disegnarle. Basta che un naso tiri
un po' troppo in giù, o una bazza volga
un pochino in su, perché è finita,
seguitano, seguitano per le loro vie, e come
riderebbero gli sfaccendati se potessero vedere
i mascheroni ambulanti che io vedo di quando
in quando, senza punto trovarci da ridere .
È obbligato persino a decidere della
vita o della morte di una persona, lui, così
conscio della propria relatività e misera
uguaglianza con il resto degli uomini:
Ci siamo: sto per avere sulla coscienza la vita
di un uomo. Sperava di tirare avanti parecchi
anni prima di essere a questi ferri, ma nossignore.
Appena uno e scarso.
Sì, l'ombra smisurata dell'estremo supplizio,
abbruna anche i miei felicissimi stati. Il Parlamento
non si è trovato d'accordo per abolirlo.
E io stesso, che ne farei senza tanto volentieri,
pure non so che pensarne quando odo dei vecchi
ed onesti militari sostenermi in coro che in
ogni modo andrebbe mantenuto per l'esercito.
Capisco: i soldati devono rispondere di sé
e degli altri, ma sono sempre uomini!
Ecco il succo di tutto il racconto: essere
uomo, prima che persona investita di qualsiasi
ruolo o carica, essere tutti uguali e fratelli
di fronte alle avversità della vita,
che da buona burlona è sempre pronta
a mettere alla berlina i poveri esseri umani,
così che l'unico strumento per affrontarla
e per rappresentarla e lenirne al tempo stesso
i dolori è proprio l'humour.
Dal romanzo L'Illustrissimo si possono trarre
esempi di descrizioni umoristiche, come quella
della ragazza Giovannona:
Era un bel pezzo di grazia di Dio, venuto forse
al mondo per far vedere come i peggiori alimenti
non tolgano sempre di arrivare alla più
soda e consistente solennità di forme.
Il breve corsetto bianco e la statura non molto
alta scemavano in parte l'effetto troppo maestoso
della sua persona, ed anche la testa pareva
quasi diventar piccina veduta così fra
due spalle che facean per quattro; ma nessun
confronto, nemmeno quello delle nude braccia,
bastava a salvarle le mani, e a fare che non
paressero, come erano ahimè, proporzionate
e giuste. Aveva i capelli neri e crespi, tirati
a forza dietro le orecchie, e i lineamenti ben
armonizzati con le tinte calde del viso, dove
il sole, il vento e il vigor naturale, sbizzarrendo
in compagnia, avevano messi assieme una specie
d'intenso incarnato, che tenea del rubino, più
assai che non tenesse della rosa gentile.
Lo scalpello di madre natura, lavorando senza
amore su quel carnevale di salute, su quella
pompa superba di muscoli e di polpe, aveva lasciato
la viva fonte di grazia e di bellezza che è
la linea curva, per valersi più sbrigliatamene
di quella tonda, cosicché la ragazza,
nata e battezzata per Giovannina, aveva dovuto
rassegnarsi, da qualche anno, al massiccio accrescitivo
di Giovannona .
Volendo, la citazione potrebbe anche continuare,
ma queste righe sono sufficienti per dimostrare
un procedimento descrittivo che non vuole certo
mettere in ombra quanto la natura sia stata
inclemente con una giovane che di femminilità
pare non avere nemmeno traccia. Cantoni non
lo fa per essere cattivo e sprezzante gratuitamente,
tra l'altro nei confronti di una sua creatura,
bensì per svolgere il suo compito di
umorista: cercare il vero, osservarlo e criticarlo
in un processo di sdoppiamento fra l'artista
e il critico. L'umorista infatti non è
altro che il risultato cosciente dell'eterno
dissidio fra l'Io interiore e l'Io acquisito,
fra realtà e finzione, fra la maschera
e il volto, cause di doppiezza e di perdita
di equilibrio.
Le descrizioni della presenza di due uomini,
se non di più, in uno solo, si sprecano
in tutta l'opera cantoniana; in Montecarlo e
il casinò leggiamo:
La espressione del suo viso era tanto mutevole
e fugace che se tento di raffigurarmela innanzi,
vedo apparire due uomini almeno, uno mesto e
uno lieto, come se in lui fossero stati due
fratelli, d'indole e d età diversa, i
quali, per quanto somigliassero fra di loro,
avessero pur sempre, sì l'uno che l'altro,
qualche cosa di ben proprio e di ben personale
.
Ma l'apice di analisi della problematica della
dicotomia interiore, viene raggiunto nel racconto
L'altalena delle antipatie: è la biografia
di un uomo alquanto particolare, lunatico e
ipocondriaco, che ce l'ha sempre con tutti,
alternativamente, e, nella speranza di non avercela
più con nessuno, decide di sposarsi.
Ma il problema non si risolve, così se
la prenderà ora con la consorte, ora
con il figlio, ora persino con i propri morti,
a intervalli, esattamente come un'altalena:
Fossi ben saldo in gambe per natura, me ne gioverei,
ma come non sono, i miei ragionamenti mi aiutano
a stare un po' su da una parte, per cascar giù
meglio dell'altra. Ora poi mi pare di essere
il Reno a Sciaffusa !
Questa novella è una fonte inesauribile
per comprendere la poetica umoristica e la filosofia
di vita che ne costituisce la base; per questo
è utile riportarne i passi più
significativi:
Dite la verità: gli uomini e le cose
che vi circondano vi hanno sempre fatto il medesimo
effetto? No certo. Il vostro prisma ha già
mutato una volta almeno, e ciò che vedevate
da bambini, ora, se siete giovani, non lo vedete
più. [
] Ma anche indipendentemente
dall'età, non vi siete mai avvisti che
una persona od una cosa vi siano andate su e
giù diverse volte, e in tempo relativamente
breve? [
] tanto spesso da doverne concludere
che io ero molto differente da me medesimo,
secondo i giorni, e che, secondo i giorni, differivano
molto da sé medesimi gli altri. Bella
conclusione! Come dire che non mi bastava più
di osservare sempre, di osservare tutto, ma
doveva anche partire dal principio che ci potessero
essere più persone e più cose
in ogni cosa e in ogni persona. Eppure siamo
già parecchi, anche a prenderci uno per
uno.
[
] Cotesti, su per giù, i miei
gridi di dolore al mio primo accertarmi della
instabilità dei miei giudizi, per non
dire dei giudizi umani; [
] pure io aveva
sempre lo stretto bisogno, anzi la estrema necessità
di
badate che ve lo dico!
avercela
di cuore contro qualcheduno .
Dunque relatività delle impressioni,
dei sentimenti e addirittura della percezione
di se stessi, causa di inevitabile incomunicabilità
che porta alcuni a chiudersi in sé e
ad arrendersi di fronte al problema del rapporto
con il prossimo, e altri, come nel caso del
protagonista di questa storia, ad affrontare
la situazione con un certo piglio e risentimento,
talmente immotivati, però, da doversi
alternativamente spostare da una persona all'altra.
Dapprincipio, come giovanissimo che era, quasi
mi ci divertiva, perché mi vedeva saltellare
leggiadramente di qua di là in balìa
di sempre nuove e non punto profonde antipatie;
ma con il raffermarsi degli anni invigorì
anche il vizio, e non mi bastò più
di avercela sempre contro qualcuno, chiunque
fosse, bensì feci piovere adagio adagio
e ben copiosamente le mie grazie sopra pochissime
persone sole, ma con questo sempre di particolare,
che cioè come una di esse mi discendeva
senza sua colpa più giù che mai,
e subito le altre a parermi assai meno uggiose,
assai meno antipatiche, quasi carine. Tira tira,
tutte le corde si rompono, e veniva il momento
nel quale io doveva pur persuadermi di essere
stato e troppo ingiusto contro quell'unica persona
cadutami tanto in disgrazia, e troppissimo indulgente
con le altre, e allora nei casi gravissimi,
ecco subito la crisi!
Questo atteggiamento non permette di vivere
in pace nella comunità, ma soprattutto
nel proprio intimo, ammesso che ci sia la consapevolezza
di uno squilibrio mentale e comportamentale,
come nel caso del personaggio in questione.
Si arriva inevitabilmente alla crisi, cioè,
a quella svolta, in senso favorevole o sfavorevole,
che si produce al termine di una malattia; in
tal caso la patologia è costituita dal
turbamento morale e dal crollo della coscienza,
per i quali, come vedremo, il malato non riesce
a trovare rimedio, ma solo inutili panacee:
la condizione del dubbio, tipica dell'umorista,
è ormai troppo forte e di conseguenza
troppo "fragile e suscettibile il giudizio
umano" .
Non rimane che "l'universale panacea":
il matrimonio.
L'anima inferma vuole che si agisca sopra di
lei mediante i simili, più che mediante
i semplici, però vuole che per primo,
anzi per primissimo rimedio eroico, il matrimonio
.
Purtroppo, però, nemmeno questa soluzione
si rivela efficace, per uno che sa di essere
tanto complicato da potersi mettere fra i "seccatori
di sé medesimi", e vittima del carattere
lunatico diventa di conseguenza la moglie, fin
dal momento della cerimonia nuziale:
La cerimonia fu breve, ma fu anche lunghissima,
perché in quelle poche ore, come in tutte
le mie grandi giornate, sono stato in preda
di quei repentini e maledetti sbalzi di umore
che ora vi tirano ed ora v'allentano come una
corda da violino, senza lasciarvi capire se
stavate meglio i momenti in cui eravate mesti,
o quelli in cui eravate gai. È una certa
mestizia così fugace! È una certa
gaiezza così turbolenta!
Come consolazione alla moglie, non può
che fornire questa:
- Il vero segreto te lo dirò io - le
risposi - Prendimi oggi come sono oggi, e domani
come sarò domani. È l'unica .
L'amore che prova per la consorte è
dunque totalmente condizionato dagli umori nei
confronti del resto del mondo, così da
farla diventare il suo capro espiatorio:
Il mio non fu più un matrimonio, fu un'
egloga in permanenza! Tanto egloga da dovermi
persuadere che più mi sentiva mal montato
contro gli altri, e subito, o voglia o non voglia
che ne avessi diveniva altrettanto più
tenero colla moglie mia .
Si tratta di una situazione tanto paradossale,
quanto tragica e invivibile, apparentemente
buffa nella sua assurdità, in realtà
inaccettabile: è la tipica circostanza
umoristica che di primo acchito fa sgorgare
una risata, ma che, dopo una riflessione critica,
impone un sorriso amaro. Questo meccanismo è
presente, ad esempio alla lettura della descrizione
fisica della moglie fatta da parte del marito
inclemente:
Guarda guarda vien sonno a tutti ed ella si
addormentò.
La luce blanda del lanternino arrivava appena
a colorirle il viso, ed i bellissimi capelli
d'oro, ravvolti così nella penombra,
le diffondevano intorno come una sottile e leggiera
corona di gioventù.
E fortuna che sono ancora in viaggio di nozze!
Il sorriso, che aveva troppo spesso in bocca
durante la veglia, forse per mettere in luce
i bianchissimi denti, le aliava ora sulle labbra
con più dolce e serena vaghezza, e quei
suoi denti medesimi, che apparivano appena appena,
acquistavano con l'impicciolire altrettanto
e più di grazia e di leggiadria. Gli
occhi, troppo grandi e troppo azzurri quando
ve li squadernava in viso nel parlare, si nascondevano
ora sotto la morbida trasparenza delle palpebre,
e la immobilità aggiungeva purezza di
disegno all'ovale del suo viso, ed il lievissimo
respiro dava un che di verginale e di raccolto
alla freschezza dei suoi begli anni.
Ad una lettura veloce, questa immagine potrebbe
apparire positiva e nata da uno sguardo d'amore,
ma in realtà è quanto di più
crudele un uomo innamorato possa dire della
propria donna.
La descrizione accurata, attraverso termini
forbiti, poetici, quasi a ricordare versi dei
poeti provenzali verso la "desiata"
signora di corte, vuole invece arrivare a negare
anche quanto, per comune opinione, fa di un
viso un viso piacevole, come i denti bianchi
e gli occhi grandi e chiari; la perfidia, celata
e sottile, ma non meno pungente, sta tutta nella
conclusione del discorso:
Mia moglie dormiente era mille volte più
bella di mia moglie sveglia.
[
] Il mio maggiore studio durante la luna
di miele è stato quello di farla dormire
più che ho potuto .
Non parrebbe un uomo degno d'amore, troppo
duro e prepotente; e infatti è così,
e il peggio per lui è di esserne consapevole:
Ci sono degli animali graziosi e benigni, i
quali se detestano per esempio, un vicino di
casa, gli vanno incontro a braccia spalancate
qualora s'imbattano a trovarlo di là
dall'equatore. Io no. La terra è anzi
troppo piccina per la mia efferatezza, e non
mi vale di pensare che un morto sia morto, ché
se anzi gli è accaduto di morire in poco
odore di santità presso di me, mi diverto
a popolare dell'anima sua la più scialba
stella dell'orizzonte, e a guardarla in cagnesco
quasi tutte le sere
Questa mancanza di pace interiore è
già sufficientemente una condanna per
chi, in fondo, non è tanto diverso dal
resto dell'umanità, tutta ugualmente
vittima di quella "burla infelice"
che è la vita; la differenza sta solo
nel modo di affrontare quella condizione, che
è comune, che è straniante, che
è irreversibile.
Pirandello, a tal proposito, insegnerà
come le uniche soluzioni a tale situazione,
siano la pazzia, la malattia e persino la morte,
come sole realtà che permettano di smettere
di fingere per essere accettati dal prossimo;
anche il protagonista de L'altalena delle antipatie
arriva ad ammettere che:
Sì, me lo dico da me, io sono uno di
quegli uomini i quali non si possono amar bene
che dopo morti, lasciatemi quest'illusione!
Caduta delle illusioni, dunque, e pessimismo:
lo scrittore umoristico è conscio di
questo, per cui, ancor prima delle sue creature,
si rende conto che in una così instabile
realtà non è il caso di giudicare
per condannare, mentre il massimo che si può
e che si deve fare, per sollevarsi dal mucchio
degli uomini-marionette, è osservare,
consapevoli della pluralità di cose e
persone, analizzare, e sorridere della vita
spesso paradossale e grottesca, superando intelligentemente
"l'avvertimento del contrario" con
il "sentimento del contrario": questa
è la sola via di salvezza.
Ne viene che la sola paura è diventata
quasi peggiore del male grande. E visibilmente
peggiore. Ne viene che il tuo sottolineare di
continuo gli ambigui aspetti di te medesimo
quando sei in balìa delle più
piccole miserie umane, non può far altro
che preparare la più comoda nicchia ai
grandi dolori della vita, i quali, arrivandoti,
ti afferreranno tanto più volentieri
quanto più avrai messo di buona volontà
nel decifrare, nell'illustrare i piccoli. Quasi
nell'inventarli .
Essenziale è ricordare sempre che Alberto
Cantoni si pone, troppo schivo e ritroso per
parlare direttamente di sé, dietro tutti
i suoi personaggi, quindi ne condivide le incertezze,
le sofferenze, le debolezze, le lotte e le conseguenti
dichiarazioni, a volte di pace, a volte di guerra,
verso la vita: la sua occupazione è quella
di guardare e conoscere se stesso attraverso
l'osservazione degli altri, faccia questo per
le vie dell'amata Pomponesco, o per le pagine
dei suoi scritti, in un processo continuo di
creazione e assimilazione, in cui autore e personaggio
si compenetrano costantemente. Nell'ultima novella
presa in esame, non per niente, il "seccatore
di sé medesimo" parla in prima persona:
la vicinanza che lo scrittore vuole esprimere
diventa così ancora più stretta
e ciò gli permette di discutere attraverso
la sua bocca. Impossibile non vedere l'Alberto
narratore che impartisce lezioni di poetica
umoristica dietro questa frase:
Non avea vizi, tranne quello molto economico
di osservare sempre, di osservare tutto. Ho
procurato di stancarmene mutando aria, paese,
persone e cose, ma quanto più gli oggetti
circostanti mi riuscivano indifferenti, più
inferociva nella continua osservazione di me
medesimo. Epperò me ne tornai a casa
mia, di dove scrivo tutt'ora: una bella casa
a quattro piani, situata a un dipresso fra il
40 e il 45 di latitudine Nord. Voglio fare delle
figure e non dei paesaggi, però non vedo
punto la necessità di determinare i luoghi
più precisamente di così .
Se qui l'escamotage è quello di inventare
un protagonista che decide di scrivere su se
stesso, ne Un re umorista Alberto si riserva
una parentesi, antecedente alla narrazione,
per annunciare in prima persona ed apertamente
che
le pagine che seguono rappresentano, per la
massima parte, le più grandi e le più
piccole giornate della mia vita. Quando esse
mi davano troppo pensiero, io non aveva nulla
di meglio a fare che mettermi a scrivere, e
questo po' di lavoro finiva spesso a giovarmi
più assai che se fossi rimasto lì
con le braccia penzoloni ad aspettar la grazia.
Ne ho fatte tante in vita mia, di grazie, ma
mi è passata la voglia di chiederne,
sia pure al tempo che non sa far altro .
Condizione difficile allora quella di Cantoni-re
umorista, tanto da auspicarsi, nei momenti più
duri, di potersene liberare:
Io, intanto, mercé della guerra, ho grande
speranza di avere finalmente ucciso l'umorista
dentro di me: leggete la più sfortunata
qualità di uomo che possa premere sopra
la terra, l'uomo che ride per piangere, che
piange per ridere, che non sa mai nemmeno lui
se sia buono o cattivo, liberale o mummia, coraggioso
o pigro .
Il mantovano ha appena fornito un'altra bella
ed emblematica definizione dell'umorista, evidenziandone
la dicotomia e la conseguente lotta interiore
(frutto della frantumazione della saldatura
che nella prospettiva razionalistica e illuministica
faceva della "ragione e prassi" e
ugualmente dell'unione di spirito e corpo una
sola entità, per portarli ad una drammatica
disgregazione), consolate però dalla
raggiunta cognizione che lo distingue da chi
umorista non è:
Eppure questo diritto e rovescio non sono che
superficiali. La persona è una sola ed
è coerente; di particolare non ha altro
che il suo sapersi dividere, che il suo mostrarsi
a metà. Da una parte manda avanti il
core, che è spesso affabile, dall'altra
si governa col capo, che è sempre saldo
.
E che altro è l'umorista se non questo?
Se non colui che è sempre diviso fra
sentimento e riflessione, che è in grado
di smorzare con la seconda i toni più
accesi della prima, senza però cadere
nel freddo cerebralismo, ma raggiungendo una
visione della realtà, se non univoca,
almeno un po' più chiara? L'umorista
è in grado di discernere il baratro che
corre fra l'ideale e il vero; sa che in ogni
essere umano c'è un granello di pazzia,
accetta che la Provvidenza porti più
spesso nuovi affanni, che buone novelle; Alberto
Cantoni è questo umorista e da ciò
nasce la sua personalissima arte in cui le riflessioni,
le fantasie, i concetti, le lezioni in nuce,
si compenetrano, svolgendosi in un percorso
articolato, variamente implicativo, ma equilibrato
e unitario.
Le sue pagine ne riflettono lo sguardo disincantato
del mondo, demistificante, sarcastico se necessario,
ma pur sempre sofferente di fronte al dramma
umano.
3.2.3. Lo stile e gli espedienti umoristici
di Alberto Cantoni
Lo stile non è altro che l'interpretazione
scritta del nostro modo particolare di essere
e di sentire .
Con questa personalissima definizione, Alberto
Cantoni lascia subito intuire che il suo modo
di scrivere sarà condizionato, più
che dal genere letterario e dall'epoca in cui
opera, dalla sua personalità. Questo
può rappresentare sia un motivo di slancio,
sia una difficoltà, in quanto la completezza
dell'opera sarà raggiunta solamente alla
piena presa di coscienza, da parte dell'artista,
della propria fisionomia.
Attorno a questa problematica ruota tutto il
racconto Il demonio dello stile, che ha dunque
un carattere meta-narrativo, in quanto l'autore
discute di questioni relative alla narrazione.
La novella si svolge attorno ad un unico personaggio
diretto, Ferdinando Acerra, che, per aiutare
un'amica alla ricerca, nella scrittura, di un
po' di sollievo alla solitudine, le propone,
in forma epistolare, cinque "ricette"
di novella, sottolineando come le situazioni
a cui ispirarsi fossero a lei vicine più
di quanto pensasse, nella sua stessa famiglia.
È quindi Alberto stesso a voler prestare
aiuto alla signora, infatti, "alla lunga
lettera dell'Acerra, insieme con un poscritto
dello stesso, fa seguire un commento proprio:
ne nasce un gioco illusionistico per il quale
Cantoni è di volta in volta l'Acerra,
se stesso, la scrittrice e tutti e tre in un
sol tempo" , oppure si sviluppa un gioco
di proiezioni per cui uno si proietta nell'altro
fino alla scrittrice provetta che potrebbe incarnare
Alberto Cantoni. Quest'ultimo, dunque, è
onnipresente, e non potrebbe essere altrimenti,
in una storia in cui il letterato racconta la
propria arte e soprattutto il modo di concepirla
e di realizzarla formalmente (infatti il sottotitolo
è Novella critica).
Vediamo quali sono dunque questi suggerimenti
di scrittura: anzitutto la consueta sottolineatura
dell'importanza dell'osservazione:
Per mandare ad effetto il vostro piano non vi
è mestieri nessuna illusione, e cioè
di ammettere che voi sino ad ora non avete mai
guardato né voi stessa né gli
altri con quella intensità di osservazione
che è pur necessaria a chi voglia rendere
bene e gli altri e sé .
Non basta quindi guardare, secondo Alberto,
non basta osservare, ma bisogna farlo intensamente,
per cogliere il vero; ma per coglierlo nella
sua profondità è ancora necessario
far seguire ai sentimenti spontanei sorti dall'osservazione
diretta, il giudizio critico, che arriva con
il tempo e sulla scia dei ricordi:
Guai, guai tre volte ai vostri futuri volumi
se voi, nell'essere in alto mare, aveste potuto,
per un prodigio di separazione morale, dimezzarvi
così bene da poter sentire da una parte
ed esaminarvi dall'altra. Bell'accozzo di bollor
subitaneo e di rigore critico non ci approntereste
voi! Invece, forte ora delle vostre memorie,
e rivivendole tutte quando più vi giovi
e vi piaccia, voi potete non solo riedificare
il vostro passato, ma ordinarlo ancora, separando
bene un dall'altro tutti i vecchi e principali
movimenti dell'anima vostra, e tutte le più
singolari attitudini delle persone che avete
avuto a fronte .
L'autore pone, al solito, in primo piano, la
conoscenza della propria interiorità,
attraverso l'analisi critica dei "tipi"
che la circondano, per cui lo scopo della novella
deve essere quello di indagare anche una sola
creatura, ma di farlo con profondità
e spirito conoscitivo:
Una vera novella può contentarsi di esporre
anche una sola creatura umana, qualunque sia,
ma a patto che trovi il luogo e il modo di lumeggiarcela
bene, e tutta, come può pigliarne parecchie,
ma a patto che le une, mercè dei contrasti
e dei più opportuni giuochi di luce,
diano risalto, spicco, vigore alle altre. [
]
e voi non accingetevi mai a novellare senza
mulinarli più volte dentro la mente,
né mai principiate a scrivere senza prima
potervi dire:
- Sì perché tutte le virtù
e tutti i vizi del mio principale personaggio
siano costretti a palesarsi urtandosi; perché
le più ascose cagioni del suo passato
e del suo presente si manifestino; perché
le sue forze e le sue piccinerie si chiariscano
mi ci vuole questo dato momento, ovvero, per
dirla col melodramma, mi ci vuole questo dato
istante, compendiatore della vita sua. Giriamoci
intorno colle buone , come fosse un pozzo circoscritto,
e poi, quando avremo detto bene con chi ci troviamo
ad aver a che fare, giù un bel tonfo
e dentro.- .
Non è difficile leggere tra le righe
e vedere Cantoni costantemente alla prese con
l'esercizio dell'autocritica, essendo la sua
arte evidentemente implicata in una costante
condizione di compromesso tra fantasia e riflessione,
da cui scaturisce l'umorismo. È ossessionato
dallo stile, per questo lo chiama "demonio";
la questione dello stile è infatti quella
che crea continui scrupoli, impedendo così
di procedere spontaneamente, sempre in lotta
la ragione e il cuore, sempre cercando di conferire
la giusta importanza al sentire e all'esprimere,
oltre che all'essere e al vedere. A tal proposito
è interessante tutta l'ultima parte della
lettera dell'Acerra-Cantoni, dove, dopo aver
suggerito cinque tematiche narrative (di genere
e di paesaggio; d'affetto; di carattere; di
fantasia; per ridere), si tirano le somme del
discorso sull'arte letteraria e i suoi canoni:
Io ho voluto solamente farvi vedere che delle
cinque persone che mi stavano innanzi, nessuna
poteva naturalmente sottrarsi alla grande orbita
della commedia umana, ma voi conoscete bene
tanta gente che non vi mancherà mai tanta
carne da mettere al fuoco, senza ricorrere alle
macchiette di chicchessia. Abbiamo ben altro
da parlare ora che di macchiette.
Figuratevi di essere una potente imperatrice
romana, e di avere a disposizione i tre massimi
scrittori del tempo vostro. Li fate chiamare
la vigilia di un grande spettacolo, e dite loro
di porsi nel domani ai tre lati dell'anfiteatro,
di guardare bene ogni cosa e di scrivervi poi
ordinatamente quello che han visto, senza sapere
nulla un dell'altro, e senza mai digredire dal
circo, nemmeno coll'immaginazione. I tre vanno
e vedono le stesse cose, ma credete poi che
nello scorrere le tre narrazioni voi non ci
abbiate a trovare altro divario che quello inerente
alla maggiore o minor coltura, alla maggiore
o minore padronanza della lingua? [
] Or
che vuol dire questa così grande differenza
che vi muta quasi in tre quadri un quadro solo?
Vuol dire che essi hanno avuto bensì
dinnanzi agli occhi il medesimo spettacolo,
ma che non l'han visto o almeno non l'han sentito
allo stesso modo. Or come si manifesta queste
gran differenza? Soprattutto mediante lo stile.
Or che è dunque lo stile? Lo stile non
è altro che l'interpretazione scritta
del nostro modo particolare di essere e di sentire.
Questo modo, appunto perché è
particolare, differisce più o meno in
tutti noi, secondo la nostra natura, la educazione
e la fortuna, ma differisce per gradi, come
avviene do ogni differenza umana. Abbiamo tutti,
oltreché un viso ben nostro, anche una
nostra propria espressione di viso, ma ciò
nonostante un artista non ha che a girare una
città popolosa per trovare subito dei
tipi intorno ai quali si raggruppino, per così
dire, i principali caratteri di quella tal gente.
[
] Così è dello stile, con
questo di più che il distacco fra uno
e l'altro uomo può essere piccolo o grande
oltreché per il loro modo particolare
di essere, anche per la maggiore o minore facoltà
di esprimerlo. [
] Prima dunque di mettervi
a scrivere importa sapere qual è il gradino
della lunghissima scala a pioli che andrete
probabilmente ad occupare, importa sapere se
non scriverete così né bene né
male come troppi altri che si trastullano a
metà della scala, importa di sapere che
siete.
[
] Se questo bagliore di fantasia, se
questa snella subitaneità discendono
veramente di pura vena dalla vostra indole,
e se ciò le abitudini dell'altissima
società non ve ne hanno mai dato, con
l'occasione, il pretesto, allora tranquillizzatevi,
il vostro sarà di fatto uno di quei temperamenti
che non ripugnano punto dall'arte. Che se poi
la gran dama si ritroverà a lottare davvero
colla buona madre, se il senno, vale a dire
il primo fattore delle buone lettere, potrà
così vivere in pace dentro di voi col
secondo e col terzo, cioè col sentimento
e colla immaginazione, allora tanto meglio,
la vostra non sarà soltanto arte bella,
sarà anche utile, se non agli altri,
a voi. Badate bene però che io non voglio
illudervi, e che sono ben lunge dal lasciarvi
credere che voi possiate o combinare perfettamente,
nella misura delle vostre forza, quelle tre
bellissime cose [
].
Che non vi diate cioè né pace
né tregua mai finché tutte le
vostre scritture non rendano ben compiutamente
la vostra particolare fisionomia d'artista;
finché esse non mettano qualche cosa
di vostro proprio in tutto ciò che toccano;
finché, per spiegarmi abbondantemente,
l'antica vostra grazia e il senno, in parte
novissimo, non si raggruppino in un modo tanto
a voi personale colla ricchezza delle immagini
e con l'agilità degli affetti che non
traspiri schiettissimamente tutto l'esser vostro.
Ora possedeste anche una certa facilità
di esprimere bene tutta voi stessa, in altri
termini una certa facilità di stile,
non per questo dovrete trascurare di aggiungerle
sempre con la pazienza e con la meditazione,
per non finire come certuni i quali, avendo
sortito dalla natura una indole anche più
artistica della vostra, la sciupano o per furia
o per incuria [
].
[
] senza essere punto una persona come
tutte le altre, pure vi è mancata una
facoltà principalissima: quella di sapervi
affermare bene in ciò che avevate d'indipendente
affatto da qualunque moda e di assai più
particolare che non fosse il viso, nel vostro
modo cioè di essere e di sentire.
[
] Quando uno dei vostri lavori non rifletta
bene, come uno specchio fedele, tutto ciò
che più fortemente sentiste nell'immaginarlo
e nello scriverlo, non lambiccatevi il cervello
a correggere una pagina qua e due pagine là,
ché fareste peggio, ma principiatelo
da un altro verso e rifatelo senza discrezione,
senza pietà, finché una voce di
dentro non vi gridi ben forte - Così
va bene, così sono io - . Questa cura
continua che invade lo scrittor coscienzioso
finché l'opera sua risponda esattamente
alla somma di giudizio, d'affetti e d'inventiva
che gli è stata consentita da Domeneddio,
o ,meglio ancora, finché egli non renda
assai bene tutto quello che ha in sé
di migliore e di più suo [
].
L'arte vuol tutto, e chi più è,
più metta .
Una chiusura epigrammatica per un discorso
altrettanto deciso e sincero, dove la presenza
di Ferdinando Acerra nelle vesti di pedagogo
ne conferma il carattere autobiografico. Non
mancano, infatti, i consueti spunti polemici
di Cantoni contro i colleghi che sacrificano
la bontà dell'arte alla popolarità
e contro la moda e coloro che si lasciano condizionare
da questa:
Egli ignora affatto le molte sgarbatezze con
cui la realtà può premere lo scrittore
per fargli cedere affrettatamente alla tirannia
della moda, alle chimere della vanagloria, od
alle trafitture dell'amor proprio .
Da tutte queste righe riportate si evince la
disposizione dello scrittore, da buon umorista
qual è, ad investire il mondo della sua
fantasia con uno spirito critico e arrovellato,
inclinato anche a forme di autocritica, indugio
intellettualistico ed autoironizzazione, come
accade anche in Tre madamine:
Dobbiamo raccontare minutamente le peripezie
della nostra modistina in quella celebre sua
mattinata? No. Le scene popolari vogliono essere
corte, come diceva Stenterello anima buona,
e noi, nei nostri panni, non faremmo che ripetere
tre volte le medesime cose. Una basta .
Esempi di questo genere si sprecano nell'opera
cantoniana, così che le strizzatine d'occhio
al lettore sulla maniera scrittoria sono frequenti
e argute, tanto da arrivare a suggerire scherzosamente
il modo di leggere certi racconti. Ne L'altalena
delle antipatie, ad esempio, il sottotitolo
Novella sui generis viene spiegato così:
Significa intanto che va letta adagio, a tre
o quattro paragrafi la settimana. Già
non c'è nessun pericolo di perdere il
filo .
Segue un'altra nota, questa volta a chiarimento
di un lungo paragrafo completamente fra parentesi:
I paragrafi tra parentesi sono stati scritti
a guisa di premio pei lettori morigerati e tranquilli,
che mettono un par d'ore a smaltire ogni pagina.
Chi ha più furia di costoro, li salti
.
Ed è tipico dell'umorista preoccuparsi
del rapporto con il pubblico, tanto da conversare
ed immedesimarsi con esso perché possa
comprendere al meglio l'arguzia dalla sua arte;
è tipico dell'umorista preoccuparsi molto
dello stile, perché l'effetto umoristico
è determinato non meno dallo stile che
dal contenuto: anche attraverso le scelte stilistiche
emerge il gusto critico del narratore.
Conseguenze dirette ne sono la struttura del
racconto ad incastri e riprese, l'accumulo di
annotazioni, le digressioni e le parentesi,
gli incisi, l'intonazione a volte piuttosto
acre.
Le riserve del personaggio sono dunque le riserve
mentali dell'autore in persona, che, sempre
per bocca dei protagonisti, affronta anche il
problema della lingua, sia perché importante
in particolare per la sua scrittura umoristica,
sia perché vivo più che mai in
quegli anni post-unitari. Ne costituisce un
esempio la frase tratta dalla nota che si riferisce
al titolo Tre madamine:
È il nome generico delle giovani sarte
e modiste milanesi fin che imparano il mestiere
delle più provette che hanno già
bottega.Valeva forse meglio scrivere addirittura
"I tre Madamin", ma l'ardimento ci
è venuto meno sul più bello, ed
abbiamo dovuto ricorrere a uno di quei mezzi
termini che paiono fatti apposta per non contentare
nessuno, e men degli altri i circospetti uomini
che se ne valgono .
Ancora nella medesima novella, nel corso di
una conversazione fra due delle tre ragazze
protagoniste:
- Importa molto che tu sia la più bella!
Lo fossi anche il doppio non importerebbe niente
lo stesso. Sei stata troppo colla tua nonna
che è tanto antica, biondina mia, e non
ti sogni nemmeno di avere il mio chic.-
Se Beatrice avesse voluto parlare italiano,
avrebbe dovuto dire:
- E non ti sogni nemmeno di avere quella moderna
aggiustatezza di parole e di atteggiamenti che
non mi lascia dire né fare nessuna cosa
che io non vi ponga tutto il brio e tutta la
grazia che le convengono.-
Via, siamo giusti, quando non si sa l'italiano
e si può dire tutta questa roba con una
sola parola, bisogna pensarci bene prima di
farle torto .
Sempre sulla problematica moderna dell'inserimento
di parole straniere nella lingua italiana, in
Montecarlo e il casinò:
Oggi ho voluto far subito penitenza e mi sono
posto il duro compito di parlare a lungo di
un luogo così screziato come Montecarlo
senza mai lardellare la mia relazione di parole
forestiere, ma come non caderci, alla lunga,
quando si tratti di cose troppo nuove e troppo
poco belle che la nostra lingua, appunto perché
è nobile, appunto perché è
antica, o esprime male, o non esprime affatto?
Sì. Lo so, invece di roulette potrei
dire girello o biribisso; invece di croupier
favoleggiante, ma farei anche ridere le pietre,
è vero o non è vero? E decavè
e veinard come li tradurrei senza circonlocuzioni,
se ne avessi bisogno? Scorticato quello e fortunato
questo? .
In tutto il discorso è vibrante il tono
ironico e canzonatorio nei confronti di una
lingua che in nome di purismo, decoro e classicità,
non riesce a stare al passo con i tempi e con
le nuove esigenze dei parlanti:
Ora le lettere italiane, come molte altre cose
italiane ed estere, traversano un periodo assai
difficile ed oscuro. La troppa studiata correttezza,
quantunque soltanto apparente, e la troppa diffusa
dottrina, quantunque soltanto superficiale,
hanno tarpato le ali alla spontaneità,
e bisognerebbe nascere di qui a cinquant'anni
per sapere positivamente ciò che verrà
fuori di buono dalla cincischiata e logora età
presente .
Anche in questo caso si vede come l'elemento
critico s'infiltri con misura, senza turbare
lo stato perfetto della narrazione e come Cantoni,
da umorista qual è, giunga a "divertirsi"
anche di ciò che lo rattrista.
L'umorista si allontana dall'ideale astratto.
E lo fa anche nel linguaggio: la violenza esercitata
sulla realtà nel metterla a nudo, è
un po' la stessa che in modo espressionista
va a manipolare la lingua, per mostrare una
galleria, una casistica di figure umane dolenti,
angosciose e solitarie.
Nasce allora una prosa che non spicca per il
suo armonioso equilibrio, per la concinnitas
delle sue strutture, ma piuttosto per l'imprevedibilità
e la mobilità data dalla contaminazione
di registri sintattici e linguistici: figure
ed ambienti, con le costumanze che vi sono connesse,
sono colti dal Cantoni con lucido spirito d'osservazione,
con senso di verità e in base ad esperienze
dirette, sempre tuttavia con una rifinitura
d'ironia, ora perseguita con recuperi della
fraseologia popolare, ora con l'uso di espressioni
d'origine dotta, ora con inserti didascalici,
ora con locuzioni colorite ed espressioniste,
sfruttando anche giochi fonetici che rendano
certe espressioni quasi poetiche. Anche Pirandello
nel saggio L'umorismo dirà:
L'umorismo ha bisogno del più vivace,
libero, spontaneo e immediato movimento della
lingua, movimento che si può avere sol
quando la forma a volta a volta si crea. Ora
la retorica insegnava, non a crear la forma
ma ad imitarla, a comporla esteriormente; insegnava
a cercar la lingua fuori, come un oggetto, e
naturalmente nessuno riusciva a trovarla se
non nei libri, in quei libri che essa aveva
imposti come modelli, come testi. Ma che movimento
si poteva esprimere in questa lingua esteriore,
fissata, mummificata, a questa forma non creata
a volta a volta, ma imitata, studiata, composta?
Il movimento è nella lingua viva e nella
forma che si crea. E l'umorismo che non può
farne a meno, (sia nel senso largo, sia nel
suo proprio senso) lo troveremo, ripeto, nelle
espressioni dialettali, nella poesia macaronica
e negli scrittori ribelli alla retorica .
Ancora una volta scopriamo che l'eccezionalità
del Nostro sta anche nell'aver precorso i tempi
rispetto alle teorizzazioni sulla poetica umorista;
e così passiamo in rassegna alcuni dei
numerosi esempi del linguaggio vivo e composito
di tutti i suoi scritti.
Per l'uso più popolaresco della parola,
che si rifà anche a frasi proverbiali,
possiamo attingere, a titolo esemplare, a Tre
madamine. I toscanismi "foco", "core",
dove la "o" non si sviluppa in dittongo,
il latinismo "domine", sono seguiti
poche righe dopo dalla locuzione "piove
come Dio la manda", che insieme a "la
predica del bene si adagia assai male a una
bocca abituata all'acquavite", a "come
Dio comanda", e a parole quali "zucca"
per "testa", "nebbione"
per "folta, fitta nebbia", "sguattere"
denunciano una chiara provenienza popolare;
"popolare" inteso come "volgare"
in ambito di storia della lingua, ovvero lontano
dal parlare dotto, il quale denuncia, al contrario,
una certa cultura e una grande sregionalizzazione,
alla ricerca della matrice della vera lingua
italiana, intesa come nazionale. Per accentuare
meglio tale contrasto, che rende la storia più
colorita e la prosa più adatta alla vivacità
delle situazioni, l'autore inserisce improvvisamente,
nel bel mezzo di conversazioni fra gente umile
e semplice, riferimenti all'ambito letterario,
come: "Carolina impietrò di dentro
come il conte Ugolino" , in cui è
praticamente Dante a parlare; oppure: "se
Francesco Desanctis fosse stato lì vicino,
e avesse visto che piccoli contenuti navigavono
dentro a quegli enormi contenenti" .
Non mancano poi le descrizioni argute, di matrice
manzoniana, che dimostrano l'abilità
pittorica dello scrittore, prima ancora che
dell'umorista, nel delineare in pochi tratti
la fisionomia di una persona o l'essenza di
una situazione: in Tre madamine inquadriamo
il personaggio della nonna in sole tre righe:
La vecchia, in luogo di turbarsi a questa intemerata,
escì in una quieta risatina che fece
fede e della sua bell'anima e degli scarsi denti
.
Tanto dolce quanto inclemente, proprio come
si rivelano spesso il vero e la realtà;
riflette altrettanto bene, in campo linguistico,
questa essenziale amarezza della vita, l'uso
dei soprannomi, che tanto è frequente
e bonario nel parlato, tanto è ricercato
appositamente nello scritto e con scopo quasi
sempre pungente. Nella novella presa in esame,
dopo aver indicato un giovane come "Tizio
biondo", con tanto di lettera maiuscola
ad indicare beffardamente con "Tizio"
la vera e propria sostituzione del nome proprio,
Cantoni, sempre per verbo dei protagonisti,
affronta la questione:
Beatrice, dopo la quarta sera, trattenne l'amica
sua nel pianerottolo della scala, e con quella
facilità di variare i soprannomi, che
non è piccola parte dell'umore popolano,
le disse a bruciapelo:
- Carolina, il portalettere mi piace. -
Cantoni racchiude in queste righe una piccola
dichiarazione di poetica, svelando uno dei segreti
dell'umorismo, per manifestarlo e per crearlo.
Qual è infatti il meccanismo dei soprannomi?
Prendono la caratteristica principale di una
persona e adattandola, storpiandola, la trasformano
in nome, affibbiandola a quella persona che
poi difficilmente riuscirà a scucirsela
di dosso. Ma che caratteristiche si tende a
prediligere? Senza dubbio, specie in ambito
popolare, dove di soprannomi si fa largo uso,
quelle, diciamo così, meno edificanti,
che sottolineano la bruttezza, la bassezza,
insomma, i difetti. E di cosa non può
fare a meno l'umorismo? Proprio del brutto,
perché quest'ultimo fa scattare perfettamente
la molla dell' "avvertimento" e del
"sentimento del contrario". Facciamo
un esempio: nel L'Illustrissimo il fittavolo
della cascina del padrone assenteista è
detto "Stentone", rifacendosi a quella
che, purtroppo per lui, è la sua caratteristica
saliente: la povertà di colui che stenta
a vivere perché a mala pena trova denaro
per mangiare; di primo acchito questo nome fa
ridere, grazie anche all'accrescitivo "one",
ma con l'intervento della riflessione si sorride
amaramente al pensiero di qualcuno designato
in questo modo per l'estrema povertà,
e quella che sembrava una maniera affettuosa
e amichevole di chiamarlo, diventa crudele e
canzonatoria.
Qualcosa di simile, in ambito umoristico, accade
con le caricature: l'umorismo analizza il paradosso
e il grottesco delle situazioni, anche se nascosti,
per cui anche nelle descrizioni sono necessarie,
a volte, estremizzazioni paradossali: procedere
in questa direzione fa sì che si catalizzi
più efficacemente l'attenzione dei lettori
e rende così più evidenti le contraddizioni
insite nelle convenzioni sociali, nelle istituzioni,
nei cosiddetti valori passivamente recepiti,
ma che impongono le forme, assassine della vita,
alle quali viene sacrificata l'autenticità,
ciò per cui l'uomo è uomo. Nel
voler trasmettere questo messaggio radicale,
la caricatura è più forte, produce
più coscienza.
Ecco perché ho detto che la descrizione
di Giovannona è umoristica: perché
è caricaturale; per lo stesso motivo
lo è la descrizione del desinare in casa
di Stentone, per restare a L'Illustrissimo:
Ora che è mezzogiorno e che l'amico nostro
si è già avviato a desinare, conviene
che affrontiamo la parte meno spinosa di quella
certa questione che i puristi chiamano la fabbrica
dell'appetito, nelle sua attinenza coi più
poveri contadini della Bassa Lombardia; quella
parte cioè che riguarda soltanto la cucina
rustica, la cucina locale, o se no ci si casca
ogni secondo momento, e noi invece desideriamo
poterci occupare del nostro malcapitato eroe,
senza tornar di continuo sulle magre impressioni
della sua più magra e pitagorica dieta.
I contadini che non possiedono terra del proprio
vanno in due grandi categorie: quelli che riescono
sempre ad empirsi di robaccia fin che ne possono
capire, e quelli, più disgraziati, che
vagheggiano la maggior parte di questa medesima
robaccia, come se fosse un bel sogno già
destinato a dileguar molto spesso.
Ne viene che l'amore della bucolica si fa in
tutti di altrettanto più acuto quanto
meno possono levarsene la voglia come si deve,
e che è assai raro di trovarne uno solo
che a cinquant'anni non sia già fermamente
persuaso che dopo il mangiar bene e il bever
meglio non valga più la pena di cercar
altro al mondo. Tutto il rimanente, per essi,
o è fatica, o ne hanno d'avanzo; o è
fumo d'amore, e tirano su le spalle; o è
immaginazione, boria, utopia, e allora per esprimere
le tre cose, e il pochissimo pregio in cui le
tengono, ricorrono per far più presto
ad una sola figura retorica, e vi soffiano in
viso.
La famiglia di Domenico Gervasi detto Stentone
saliva e scendeva di una categoria all'altra
secondo gli anni, ma noi fortunatamente ci abbiamo
a bazzicare per casa in un'annata relativamente
buona. Nelle sua cene e nelle sua colazioni
ci siamo già imbattuti per diritto o
per traverso; quanto al desinare (salvo le domeniche
nelle quali appariva qualche fetta dell'unico
maiale ingrassato anno per anno, e le santissime,
cioè le feste doppie, che solevano costare
la vita ad un pollo tagliato in dodici perché
facesse due volte), a desinare si cascava quasi
sempre nei medesimi taglierini fatti in casa,
con poche o punto uova nella pasta, con molto
o poco lardo nell'acqua, secondochè le
galline avevano avuto più o meno il capo
a'grilli, e che il suddetto animale domestico
s'era trovato l'anno innanzi con molta ciccia
o poca. Quanto al pane, volte sì volte
no conforme alle stagioni, ma sempre nero, sempre
cotto e biscottato in casa, sempre invisibile
a colazione e a cena.
- Venite avanti, bel giovanotto - sclamò
Nunziata, quando il nobile bracciante si affacciò
di nuovo alla stessa camera del giorno innanzi.
- Vedete? Siamo già a tavola. Un'altra
volta farete più presto.
Galeazzo sedette subito davanti alla minestra,
additatagli da Giovannona tra sé e Pompeo.
Aveva già preso in mano il cucchiaio,
allorché questi fece atto di versargli
nella scodella una gran quantità del
solito vinetto.
- No, per l'amor di Dio! - sclamò Galeazzo
che aveva fiutato la sbobba, e si era già
persuaso della necessità di evitare nuovi
guai, nuove complicazioni.
Di dove e da quando sia venuta questa moda non
si può sapere, ma sta il fatto che nella
provincia ora da noi visitata non si mangia
mai minestra senza prima annaffiare una parte
con parecchio vino, per cattivo che sia. La
fumosa miscela non contenta davvero gli occhi,
perché certamente non potrebbe essere
più brutta a vedere di quel che è;
ma per chi non possa mai rinvigorire, come i
nostri poveri personaggi, con una boccata d'aria
fina, e senta però, come essi, il bisogno
di rifarsi coi denti spendendo poco, può
benissimo, coll'abitudine, diventare una bella
cosa. Ora i secoli ci hanno messo mano, e ,bello
o brutta, non è più un'abitudine
per essi, è quasi il primo articolo del
diritto delle genti .
Una descrizione in cui non si lascia spazio
né alla poesia, né all'immaginazione:
l'umorista non può esercitare il suo
ingegno, grande perché distruttivo, nella
sonante poesia di numerosi endecasillabi, o
nelle pagine vibranti di un romanzo sentimentale,
bensì nella secca ed arida prosa, senza
lenocini e senza ridondanze.
Questa è una scelta stilistica scomoda
per chi voglia accattivarsi il favore del pubblico,
come scomoda è la posizione dell'umorista
Alberto Cantoni, che deve dire la verità
a scapito delle illusioni, come confessa, ad
esempio, con le parole di un personaggio di
Scaricalasino:
- [
] dico sempre la verità.
-Anche quando non ce n'è bisogno?
- Sempre. È una malattia. Come se avessi
un cane nella pancia che si mettesse ad abbajare
colla mia bocca. Ma ho i miei vantaggi. Ognuno
mi detesta per quel che gli dico in faccia e
ognuno mi vuol bene per quel che dico in faccia
agli altri. E così un poco amata e un
poco detestata secondo i momenti, non ho mai
trovato chi mi voglia bene due giorni di seguito-"
.
E una delle tristi verità di cui si
fa carico l'umorista è proprio la volubilità,
l'inaffidabilità, l'opportunismo della
gente, che rende ogni rapporto poco limpido
e mai concluso, in senso di onestà e
affetto.
La sua stessa sintassi ripugna allora dalle
forme concluse e sonore, da tutto ciò
che si configurerebbe come ineccepibile e durevole
figura stilistica; piega il discorso ad una
discontinuità che gli permette di riprodurre
mimeticamente gli aspetti della realtà
umana: l'uso del parlato asintattico, della
lingua quotidiana, opposta a quella dei grandi
testi della tradizione letteraria, la stessa
banalità del lessico popolare, l'uso
degli esclamativi, degli interrogativi, delle
interiezioni e degli avverbi e degli infinitivi
danno indubbiamente alla sua scrittura la migliore
sostanza di ardente sorpresa, fino ad una specie
di teatralizzazione del linguaggio. Scrivere
della verità, significa scrivere delle
"cose" (c'è anche un breve
racconto omonimo del Cantoni), belle o brutte,
buone o cattive che siano, ma sempre nella loro
interezza, senza gonfiarle a simboli per avvicinarle
al conveniente e al verosimile: solo così
potranno evocare le persone e la realtà.
Allo stesso modo accade con le parole: sincere
e dirette, dalla mano dello scrittore, alla
voce del lettore, forti e schiette, decise e
coraggiose, proprio come l'umorista Alberto
Cantoni, bravo anche nel passare dall'anima
delle cose, all'anima delle parole.
(c) Fabiana Barilli
Dalla tesi di laurea "L'umorismo critico
di Alberto Cantoni"
Per gentile concessione
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(testo di A.Cantoni con commento di F.Barilli)
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