6.1. A PASSO DI GAMBERO
Sgorbio
Una dotta università tedesca apriva
le sue porte ad una folla di gente che, in fatto
di scienza, giungeva a tanta abnegazione da
proporla, in certe ore, alla birra. Era giorno
di festa per quei sacerdotini di una verità
avvenire,
e tu avresti potuto fartene capace badando allo
sguardo e all'ansietà che si dipingevano
sul volto di ognuno. E nessuno aveva torto.
Un professore, la di cui fama non era ancora
uscita né vittoriosa né vinta
dal pestello della pubblica opinione, avea proclamato,
pochi giorni prima, che nella prossima lezione
si sarebbe accinto a creare Iddio! La promessa
era lunga, molto lunga, e quel branco di studiosi
che aspettavano, secondo l'odio o l'amore di
parte, che l'attendere fosse corto, ovvero lunghissimo,
più ancora forte della promessa.
Già gli occhi di molte speranze della
patria pendono dagli occhi di Fichte (era lui),
già una corrente psico-magnetica si è
stabilita fra la cattedra e le panche, allorché
il creatore di Dio si alza, guarda attorno,
fissa un punto, lo torna a fissare, rimane in
asso, poi sputa, poi si gratta le tempie, poi
si butta di nuovo a sedere, tanto avvilito e
confuso che lo si sarebbe potuto scambiare per
ogni uomo del mondo fuorché per Fichte,
per l'Io uguale a Io (io = io).
La folla si sgomenta, non capisce nulla, ma
il professore non ha né forza, né
coraggio sufficiente per spiegarsi. Finalmente
un tartufo che si era cacciato in mezzo alla
scolaresca coll'evidente proposito di raccogliere
qualche parola troppo ardita a di riferirla
al consigliere aulico suo patrono, si rizzò
in piedi, e cominciò ad indicare il paziente
siccome una vittima del dito di Dio!
- Che Dio!? Gridavano i fautori di Fichte! Se
non è ancora nato!
- No, no, gridò il professore che avea
ritrovato tutta la sua energia, e sfidava il
ridicolo pur di non cedere al baciapile, no,
no, non è il tuo Dio che mi colpisce,
è un bottone, un bottone d'inferno che
mi annichila, che mi disfa!
- Un bottone? Chiesero tutti i partigiani, ed
avversari e tartufi. Un bottone?
- Sì, sappiatelo. Il più diligente,
il più coscienzioso dei miei allievi
(e additava un giovane biondo che aveva più
fronte che testa) veniva ad ascoltarmi da un
anno in qua con un abito rosso e scucito cui
mancava un bottone. Io me ne accorsi dal primo
momento e cominciai a prediligere quella mancanza
riguardandola siccome segno nobilissimo di povertà
nobilmente accettata e sofferta. A poco per
volta quel bottone che non c'era divenne la
mia stella polare, e sa Dio quanti strafalcioni
mi sarebbero usciti di bocca se io non mi fossi
ritemprato nella contemplazione del vedovo occhiello.
Una mano addestrata nelle mille arti dello spegnitoio,
un filo di refe strappato alla gonna della più
laida strega che abbia mai inforcato granate
nel più energumeno di tutti i sabbàti,
attaccarono un nuovo bottone a quell'abito,
e fecero di Fichte una testa di legno, una testa
di Chioggia che non ha più né
Dio né Io. O palandrona benemerita per
servizio lungo, abbi pietà del mio ingegno,
e rendi Fichte a Fichte.
Detto, fatto. Il biondo, levando la palma con
ardore di settario, si strappò il bottone
dall'abito, come Epaminonda il pugnale dal seno,
poi rivolgendosi al suo Maestro già radiante
di gioia, gli disse:
- "A te, parla!".
E il professore fu più eloquente che
mai.
Ma il povero Dio fu tanto subissato sotto una
gragnuola così fitta di obiettività
e di subiettività che alla stretta dei
conti si avrebbe potuto giurare che o Dio c'era
anche prima di Fichte, o non c'era e non ci
sarà né prima né dopo.
* * *
Voltiamo pagina.
Io sono miope come uno sciagurato che divora
più libri di quel che non mangi ciambelle,
e un contadino, amico mio, ti saprebbe numerare
la bacche più giovani e più minute
del Noce di Benevento. Per esso i cannocchiali
sono ladrerie di giustamestieri, per me un occhialino
è quasi più indispensabile degli
occhi stessi. Ci addormentiamo davvicino, e
una fata, toccandoci le palpebre, scambia le
sue con le mie pupille. Ci svegliamo, e non
passan due ore che si bestemmia in due.
Il contadino, confortato dapprima quando scorse
che potea vedere i peli della sua ispida barba,
si credette cieco dappoi, allorché, voltandosi
d'attorno si accorse che le nuvole gli sembravano
montagne, i boschi dirupi, lenzuoli le case.
Io invece, lieto di vedere il cielo più
trasparente, le montagne più azzurre,
e soprattutto lietissimo perché non scambiavo
più le donne per uomini, gli uomini per
donne e i cani per bambini gridai al miracolo,
ma poi, cedendo alla mia naturale inclinazione,
presi in mano un libro e mi misi a leggere
Dio onnipotente! Non ci vedevo più! La
luce era chiara, sfolgoreggiante il sole, ma
io disgraziato non po-te-vo-più-leg-ge-re!
Con la disperazione nel cuore gettai il libro
a quattro palmi da me, e stavo per dare in un
eccesso, quando, cadutomi l'occhio sulla povera
facciata rimasta aperta mi accorsi che le vocali
e le consonanti mi correvano alle pupille con
l'usata buona volontà, e che io leggevo
di nuovo. Ma oimè! Dovevo tenere il mio
libro alla distanza di tutto il mio braccio,
ritirando la testa, e come si fa - dissi io
- a studiare, a meditare, ad argomentare in
una posizione così ridicola, quando si
è abituati a sedere severamente raggomitolati
sopra un tavolino? No, no, per carità,
Signore Iddio, rendetemi la mia vista debole,
rendetemi i miei occhi di talpa!
* * *
Voltiamo pagina ancora!
Ma prima di voltare, è necessario mettere
a parte il lettore che io intendevo parlare
di abitudini, che il tema essendo vecchio ho
amato di cominciare con esempi nuovi, che gli
faccio grazia dei commenti, e mi limito a protestare
che se qualcuno fosse abituato a sorbirsi un
paio di scudisciate al giorno e gli fosse offerto
di scambiarle con due baci di donna brutta,
forse forse
ci penserebbe.
Meglio star male all'antica che bene alla moderna
dicono o piuttosto pensano molti.
Io intanto ho raggiunto il mio scopo, e voi,
lettori miei, mi avete, volere o non volere,
seguito fin qui. Se non vi accomoda, se siete
gente a modo, ordinata e precisa, principiate
di dove ho finito e troverete il filo. Ma prima
di ogni altra cosa, confessate candidamente
che se io avessi imposto a questo sgorbio il
suo titolo vero, voi non avreste letto più
in là.
* * *
Ho fatto una affermazione che potrebbe dare
luogo ad una infinità di commenti. Nelle
città e in tutte quelle borgate dove
non abbia penuria di gente scazzonata ed industrie,
quasi tutti i padri prediligono le figlie, quasi
tutte le madri i figliuoli. La regola cessa,
ben inteso, quando non si tratti che di un'unica
creatura. Cotesta incrociatura di affetti mi
pare sia certificata dall'evidenza non solo,
ma dimostrata eziandio dall'affinità
dei sessi diversi. I romanzi e le commedie stesse
risentono di una simile legge e tendenza che
chiamare si voglia, né si ha romanziere
o commediografo che in vita sua non abbia fatto
sedere una ragazza sulle ginocchia del babbo,
od accennato ai visi lunghi fra padre e figliuolo.
Or bene, questa regola (se regola) ritrova una
grave eccezione nelle campagne, dove cioè
l'agricoltura è tutto. Quivi ogni mezzaiuolo,
ogni bifolco, ogni lavoratore riguarda le figlie
come un cattivo giuoco però che accetta
con una certa disinvoltura, perché se
non necessario né maschi né femminile
e il matrimonio minacciasse di terminare infecondo
sarebbe cento volte peggio. La donna, secondo
le idee di un padre agricoltore è un
essere incompiuto il quale non viene al mondo
per altro che per far comodo ai vagheggini del
vicinato.
"Bisogna allattarla (qui l'agricoltore
parla della massaia, ben inteso, non di sé
stesso), bisogna nutrirla, bisogna darle da
mangiare, per poi
che cosa? Per tirar su
una contadina che, moltiplicata per tre, val
meno di un mezzo uomo, un essere insomma che
dai quindici anni in su, ha quasi sempre la
testa montata, gli occhi fissi e le braccia
penzoloni. Né ciò è tutto.
Allora appunto quando potrebbe restituire, con
le sue deboli fatiche, una parte della gran
polenta che ha mangiata vuole a tutti i costi
andare a marito, e bisogna darle il canterano,
il letto e le lenzuola per paga. Ben guadagnata,
per Dio! Parlatemi dei maschi! Quelli sì
che davvero vengono al mondo per qualche cosa,
quelli sì che guadagnano il pane che
mangiano. Bisogna segare, e segano; bisogna
ficcarsi in mezzo ai bovi e si ficcano; bisogna
aggiogarli e li aggiogano; ci vuol della foglia,
e fanno la foglia, legna e legna, fascina e
fascina, cavamenti e cavamenti
".
Qui l'eloquenza del brav'uomo monta a cavallo
ed io non ho né gambe né tempo
per tenerle dietro.
Dal lato opposto la massaia, avvezza a chinare
il capo davanti al marito quando si tratti di
lavori campestri di compere o di vendite, ma
abituata altresì a tenergli testa quando
le minuzie del governo della famiglia vengono
sul tappeto, la massaia, ripeto, riguarda le
figliuole (che se non altro la seguono a messa
e le tengono compagnia nelle stalle) come cosa
sua, più sua di quel che i maschi non
sieno. E ciò perché ognuno di
questi ultimi le presenta davanti agli occhi
quel terribile incubo che sono le nuore, e perché
i maschi, a dirla, non li vede mai se non quando
sono smunti dalla fatica, o metà cascati
per fame o per sonno, epperciò poco disposti
a quella tenerezza dalla quale, per quanto rustico,
cuore di donna non rifugge mai.
Da queste varie, ma pur veridiche premesse,
è sorta una volgare opinione che, se
pure è una calunnia, non per questo ha
minute radici nelle campagne. Ed è che
se i figliuoli cioncano un po' troppo nelle
osterie nel dì della festa, ovvero indugiano
più del bisogno sotto le finestre della
loro bella, la prima a portare il gravame dinnanzi
al tribunale della famiglia, o per farla più
schietta, la prima a fare la spia è sempre
la madre. Dall'altro canto, allorché
il babbo tempesta, e gli scappano delle parolaccie
se si accorge che una figliuola gli voglia sgusciar
di mano prima del tempo (e il tempo, secondo
lui, non saprei dire quando sarebbe) la prima
persona, ripeto, che copre col suo regale paludamento
gli innocenti altarini della piccina è
sempre, è di nuovo la mamma. Né
ciò è senza ragione. O la massaia
ha anche lei qualche piccola cosa che ami di
lasciare al buio e che le figliuole, strofinandola
continuamente, sanno benissimo e allora non
si tratta che di alleanza offensiva e difensiva,
ovvero ragioni tali e somiglianti non ce ne
sono e allora la massaia ha buona memoria e
si ricorda che ha avuto diciott'anni anche lei.
Passiamo alla morale.
Io credo, e tenacemente credo, che la più
larga fonte di tanti pregiudizi a carico della
donna sta in ciò che il mondo ha principiato
per essere dalla forza, anche fisica, e che
la donna, frale per natura, più frale
ancora pei nove mesi di malattia, quasi periodica
che il Signore le impose, finì per ritrovarsi
fin da principio dalla parte del debole
che
è come dire dalla parte del torto. Ecco
perché tanto si monta verso il sommo
della scala umana, cioè verso l'avvenire
l'intelligenza e il progresso tanto si dilegua
e quasi vanisce il pregiudizio, e più
si discende verso gli ultimi gradini, cioè
il passato, l'ignoranza e la superstizione,
e più esso pregiudizio ritrova salde,
barbute, quasi inesplicabili radici.
La poca influenza della donna ha principiato
dalle braccia e dalle spalle, e finisce coi
nervi e con le polpe. Tutta questione di muscoli.
Ho detto. Altri, se gli giova, nieghi o deduca.
Notizia bibliografica:
A passo di gambero fa parte della raccolta
mai pubblicata dall'autore I miei scarabocchi,
che solo nell'anno 2000 è stata pubblicata
nel volume Scarabocchi a cura di Roberto Ronchini,
Sometti editore, Mantova.
Per la trascrizione del racconto ho seguito
il testo di Roberto Ronchini.
6.1.1. A PASSO DI GAMBERO:
ANALISI E COMMENTO
A passo di gambero è un racconto che
si articola in tre episodi. Il primo di questi
esprime, celata dietro un'apparente lezione
filosofica, la volontà di Alberto Cantoni
di affermare uno dei principi fondamentali dell'umorismo:
la labilità, l'illusorietà delle
apparenze che impediscono di giungere ad una
verità incondizionata, ad una scoperta
assoluta, ad un'affermazione precisa, come quella
cui aspira il professore protagonista: la creazione
di Dio.
Tuttavia, la questione centrale è costituita
non dalla volontà e dalla possibilità
di creare nientemeno che Dio, ma l'episodio
dal quale queste, a detta dello stesso professore,
sono scaturite. L'affollata assemblea, trepidante
per essere sul punto di assistere all'invenzione
del secolo, si trova a dover ascoltare un discorso
su un bottone! Fichte confessa di essere rimasto
sconvolto ed intellettualmente immobilizzato
da una visione sconcertante: la giacca del suo
migliore alunno priva di un bottone. La chiave
del discorso sta nella dichiarazione di sapersi
concentrare su una mancanza piuttosto che su
una presenza, e di fondare su questa la propria
sicurezza.
Nella vita, date le sue ambiguità e contraddizioni,
accade proprio che sia più semplice dire,
vedere, capire, ciò che non è
piuttosto che quel che è. La scucitura
della stoffa rappresenta gli strappi moderni
della coscienza umana, ovvero i dubbi, le angosce,
le perplessità, non necessariamente apportati
da eventi tristi o addirittura luttuosi, ma
anche dalla semplice quotidianità, la
quale spesso non è in grado di garantire
certezze e punti di riferimento, persino sulla
propria identità e su quella degli altri,
nel gioco delle parti che è la vita.
"Quel bottone che non c'era divenne la
mia stella polare", dichiara il filosofo.
La stella polare dell'autore, il quale cerca
di trasmetterla ai suoi lettori, è invece
la capacità di prendere coscienza dell'illusorietà
e della molteplicità del reale. Non ha
più tanta importanza la proclamazione
o meno di Dio:
Ma il povero Dio fu tanto subissato sotto una
gragnuola così fitta di obiettività
e di subiettività che alla stretta dei
conti si avrebbe potuto giurare che o Dio c'era
anche prima di Fichte, o non c'era e non ci
sarà né prima né dopo.
La vera e più risolutiva scoperta (almeno
finché bisogna fare i conti con l'umile
esistenza terrena) è un'altra: possono
essere proprio un'assenza, una rottura, una
mancanza, a riempire, a colmare, a spiegare,
a stimolare; queste sono spesso più vere
e più possibili della matematica certezza
e di un riferimento assoluto. Il vuoto e l'imperfezione
sono le situazioni più correnti e normali,
per cui l'unica via di salvezza può essere
il cercare di renderle anche ideali.
Ci possono essere solo consolazioni per la precarietà
dell'essere umano. I punti di riferimento diventano
allora le abitudini, le cose che si sa di poter
trovare sempre al medesimo posto in mezzo al
caos fisiologico del mondo; in tal caso allora
non è il bottone nello stesso punto sul
cappotto che bisogna cercare, ma il pezzo di
stoffa rimasto vuoto per la mancanza di quel
bottone, rivelatore di una banale quanto rassicurante
certezza: quello che là dovrebbe esserci,
per completezza e precisione, ma soprattutto
per normalità, è assente. Fondamentale
non è la condizione di presenza piuttosto
che di assenza, ma è la lucidità
di saper individuare un punto fisso cui riferirsi;
poco importante poi è che sia rappresentato
da un pieno o da un vuoto, da un più
o da un meno.
Il grande passo che solo l'umorista sa compiere
è proprio quello di sapersi adattare
all'anormalità e alla stranezza comprendendo
che queste sono solo apparenti, perché
le facciate del reale possono celare quanto
di più immaginoso e spettacolare.
In poche righe Cantoni riesce ad avere intuizioni
sottili e capaci di distaccarsi da quella morale
che, non per nulla, suol dirsi "comune";
se il protagonista del racconto è lo
studioso, l'antagonista non è incarnato
da un'unica entità, ma dalla folla divoratrice,
dalla maggioranza indistinta emblema della carenza
di sensibilità e dell'incapacità
di profonda riflessione. Il popolo è
portatore di relativa coscienza e di modesta
capacità di comunicazione, e per questo
ancora più ingiustificato e ridicolo
nella continua volontà di giudizio ferreo
e inderogabile.
Anche la scelta di Fichte (operando addirittura
una sostituzione con Locke, vero protagonista
dell'evento, come spiega in nota lo stesso autore)
è significativa: se l'umorista è
il negatore dell'unità dell'Io, il filosofo,
con il suo idealismo, pone la base filosofica
del Romanticismo tedesco: identifica il reale
con l'Io e vede il mondo esterno come sua negazione,
non-Io. Da qui nasce l'impulso di fuga dal reale,
il soggettivismo esasperato, la tensione verso
l'infinito, ma anche la cosiddetta "ironia
romantica" che sorge dalla consapevolezza
che appunto la realtà esteriore non è
altro che una riproduzione e che come tale non
può fare a meno di essere sempre un poco
falsata.
"Voltiamo pagina": sono le parole
che utilizza Cantoni con un intervento diretto
a segnalare il passaggio dall'aneddoto di Fichte
all'episodio successivo. Ecco allora un esempio
di meta-racconto, dove l'autore è narratore
e critico insieme. Presenta infatti direttamente
al pubblico il suo scritto in fieri, e ne scandisce
i passaggi ad alta voce (oltre che graficamente
attraverso i tre asterischi e lo spazio bianco
del foglio).
La narrazione seguente si apre con una dichiarazione
forte e decisa in prima persona:
Io sono miope.
Si annuncia la storia di un buffo scambio,
attraverso l'espediente favolistico dell'incantesimo,
fra due tizî che hanno opposti problemi
di vista e che quindi si compensano e contemporaneamente
s'invidiano a vicenda. L'immedesimazione dell'autore
con il protagonista è palese: il miope
è "uno sciagurato che divora più
libri di quel che non mangi ciambelle"
e, per di più, ha come compagno un contadino
(e Cantoni, si sa, non si è mai voluto
staccare dal mondo della campagna).
Si possono individuare più modelli di
lettura e dunque più finalità
pedagogiche dell'opera. Il primo consiglio vuole
essere quello di sapersi accontentare e di non
illudersi che il bello e il buono assoluti esistano,
e che, pur apparenti, stiano sempre da una parte
ben precisa; si vuole appunto allertare sul
pericolo di credere che ciò che appartiene
ad altri sia sempre migliore del nostro, quando
in realtà tutto è ontologicamente
momentaneo e relativo nel gran caos illusorio
che è la vita.
Infatti se il miope, una volta scambiata la
sua vista con quella del contadino, riesce ad
ammirare le cose lontane e a distinguerle con
chiarezza, non è più in grado
però di svolgere con disinvoltura l'attività
che più ama, la lettura:
[
] lietissimo perché non scambiavo
più le donne per uomini, gli uomini per
donne e i cani per bambini gridai al miracolo
[
] ma io disgraziato non po-te-vo-più-leg-ge-re!
Comprende allora quanto questa non abbia prezzo
per lui e quanto il benessere dell'altro, con
la sua "vista da falco", sia soltanto
apparente. Allo stesso modo il contadino rimpiange
lo sguardo verso il paesaggio lontano, il quale
gli provocava molto più piacere che la
vista dei peli della sua barba. La seconda chiave
di lettura, suggerita in seguito dall'autore
in persona, vuol dimostrare che l'attaccamento
alle abitudini non è poi così
negativo.
Si può trovare un altro livello d'interpretazione
del brano, più strettamente legato alla
filosofia di vita umoristica, la quale poggia
proprio sulla maniera di vedere e di vedersi
e quindi fa dello strumento della vista, intesa
sia come facoltà fisica, sia come capacità
mentale d'interpretare e di elaborare, uno dei
suoi punti cardine. Può non essere così
male guardare la vita da una certa distanza:
Pirandello teorizzerà una "filosofia
del lontano" e parlerà di "telescopio
rovesciato" : è il vantaggio, sentito
già da Alberto Cantoni, di guardare le
cose più vicine, vissute e torturanti,
da quella distanza che ne permette la meditazione
dando loro il giusto peso, il più delle
volte piuttosto banale.
Questa storia allora è l'apologo del
relativismo con cui si deve guardare la vita
e di conseguenza anche con cui si può
essere percepiti e giudicati; tale spiegazione
avviene attraverso la descrizione di due precisi
movimenti: l'avvicinamento analitico fino alla
deformazione e l'istantaneo, doloroso, distacco
che assume l'apparenza di una privazione, di
una lacerazione, di una negazione.
La problematica dei due personaggi è
quella dell'umanità intera: questa, ingabbiata
nella forma abituale, è sempre combattuta
fra il desiderio di disfarsene e la necessità
di mantenerla per avere un ruolo all'interno
della società e per riconoscersi nella
propria coscienza. Vita e Forma sono costantemente
in lotta e indissolubilmente legate l'una all'altra.
Sono proprio le parole dell'autore a dichiarare,
nel trafiletto successivo (sempre delimitato
da spazi bianchi ed asterischi) che il filo
conduttore di A passo di gambero è proprio
la riflessione sulle abitudini e sul ruolo di
guida che esse hanno nella vita, anche quando
sono sentite come un peso:
Meglio star male all'antica che bene alla moderna
dicono o piuttosto pensano molti.
Ancora una volta l'autore si serve del suo
modo arguto e accattivante per rivolgersi direttamente
ai lettori, non per giustificarsi, ma per vantarsi
spavaldamente delle sue scelte, sia contenutistiche
sia formali:
Io intanto ho raggiunto il mio scopo, e voi,
lettori miei, mi avete, volere o non volere,
seguito fin qui.
L'invenzione denuncia se stessa e la scelta
di pezzi bizzarri ed ingegnosi, pur di ottenere
il piacere dell'effetto e della novità.
Nell'ultimo brano di questa piccola raccolta
ci si trasferisce in pieno nel mondo agricolo
delle campagne, "dove cioè l'agricoltura
è tutto", scandito dai ritmi delle
stagioni, dalle tradizioni che si tramandano
di generazione in generazione e dalla struttura
patriarcale della famiglia . Il mondo cui Cantoni
si ispira è quello ancora legato agli
antichi tabù familiari e sociali, ad
un sempre più anacronistico senso dell'onore
e delle forme ad ogni costo, ad un conflitto
mortale e soffocante tra l'essere e l'apparire,
dove ognuno sembra valere soltanto per il ruolo
che svolge nei chiusi mondi del nucleo familiare
e sociale; o meglio, per il modo in cui lo recita.
Forte la metafora "tribunale della famiglia":
sono adatte per l'umorista le storie matrimoniali,
le storie di famiglie appunto, in cui si deve
superare l'atroce divisione dei sessi ed è
comunque assai difficile che un'unione felice
si realizzi; il desiderio di vita e di amore
è destinato a trasformarsi in tortura
persino nell'ambiente che dovrebbe essere il
più accogliente ed amorevole, ma che
è anzitutto la prima cellula della società
e come tale si lascia traviare da giudizi e
pregiudizi, da prepotenze e soprusi, da interessi
utilitaristici, piuttosto che spontaneità
morali e sentimentali.
Da queste situazioni, essenzialmente scandalose
perché ingiuste, il Nostro elabora lo
scontro drammatico caricandolo di tutta la propria
violenza deformatoria. Il conflitto si svolge
raramente fra un protagonista e un antagonista:
per lo più il protagonista ha contro
l'universo, il mondo. Questi sono rappresentati
dal "coro" della società con
le sue convenienze e le sue opportunità,
o addirittura da un singolo che quella società
impersona: in questo caso il padre "bifolco"
nei confronti della figlia.
La donna, secondo le idee di un padre agricoltore
è un essere incompiuto il quale non viene
al mondo per altro che per far comodo ai vagheggini
del vicinato.
La banalità della situazione di partenza,
o più esattamente il suo valore veristico,
regionale, concreto, non va sottovalutato. Vi
può essere un senso di fastidio nel localizzare
in luoghi così quotidiani e banali, quelle
vicende che poi acquistano tanto valore universale,
ma è proprio l'estrema e tangibile concretezza
delle persone e dei fatti a garantire del loro
significato universale stesso. Il dramma è
accolto non in una sua astratta formulazione,
bensì nel suo quotidiano e verificabile
sperimentarsi.
In tal caso la vittima è la figlia femmina
nella famiglia agricola: l'argomento è
estendibile al ruolo della donna.
Cantoni prende in considerazione una realtà
di fatto, specie nella sua zona: nella divisione
dei sessi sono sempre le donne ad avere la peggio.
Ma per l'umorista costoro, con il loro carico
di sofferenze, di delusioni, di ingiustizie
subite in silenzio, godono di una luce particolare
nata proprio da quella pena: per questo sono
sempre le donne a salvarsi dalle osservazioni
più pungenti, a sottrarsi dallo sguardo
impietoso e senza misericordia con cui l'umorista,
quando vuole, schernisce le sue vittime. Esse
non diventano quasi mai ridicole, e forse neanche
meschine: sfidano l'infelicità e riescono
sempre a dire il loro "no" anche se
solo prima di morire; sono loro al centro del
quadro e intorno, solo secondariamente, si muovono
gli uomini, di solito inetti, stupidi o vanesi
(si pensi alla trama, in questo caso esemplare,
dell'Illustrissimo ).
Anche nel caso particolare preso in esame dall'autore
in questo episodio, è la donna a tenere
unita la famiglia, a sopportare e a rischiare
in nome del quieto vivere, ad impegnarsi per
impedire che certe situazioni di malcontento
non degenerino: la massaia è più
umana e meno maliziosa, più capace di
usare cuore e cervello, piuttosto che la forza
fisica.
Ed è in questo che lo scrittore vede
l'evoluzione e la modernità, e lo dichiara
apertamente nelle righe finali dedicate alla
morale, non epigrammatiche come al solito, ma
esposte in un discorso articolato e ipotatticamente
impostato, dal linguaggio colto e ricercato
(per cui, ad esempio, la donna è "frale"
e non "fragile").
L'intera narrazione, in tutte e tre le sue
vicende, è condotta con un linguaggio
piuttosto scelto, tranne i discorsi virgolettati
dell'ultimo pezzo, i quali riportano persino
espressioni tipiche del linguaggio rurale come
"fare la foglia" e "fare cavamenti":
forme tecniche e settoriali, ma proprie del
parlato quotidiano e dialettale, e non certo
dello scritto.
Interessanti sono anche due passaggi presenti
nel brano d'apertura. Il primo è una
frase in cui l'autore si compiace di servirsi
di un travestimento poetico:
[
] se io non rifossi ritemprato nella
contemplazione del vedovo occhiello.
Il secondo è immediatamente successivo:
[
] un filo di refe strappato alla gonna
della più laida strega che abbia mai
inforcato granate nel più energumeno
di tutti i sabbàti [
].
L'immagine dipinta è forte ed orrorosa
e richiama volutamente la letteratura romantica
d'oltralpe con il suo gusto per l'orrido e l'oscuro,
per il magico e il fantastico, per il gioco
di luci ed ombre tenebrose, generatrici di mostri.
Il linguaggio dunque si conferma vario e l'autore
si dimostra abile nel saperlo gestire.
Alla lacerazione dell'io si conforma allora
una condizione ontologica propria dell'essere
umano, in ogni ambiente e in tutte le sue sfumature;
e a tale condizione ontologica si adatta un
linguaggio tautologico.
Il titolo A passo di gambero è senz'altro
curioso ed utilizza un'espressione figurata
forse per alludere al carattere sommario del
contenuto, che, attraverso i tre passi da cui
è composto, pare voler tracciare una
summa dei principi principali dell'umorismo:
la relatività dell'uomo e dell'esistenza;
l'illusorietà delle aspettative e le
necessarie lucidità e capacità
di adattamento; la questione della maschera
e delle gabbie sociali.
(c) Fabiana Barilli
Dalla tesi di laurea "L'umorismo critico
di Alberto Cantoni"
Per gentile concessione
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