Le pompe di bellezza un marmo serra,
i tesori d'Amor morte possiede,
i trofei d'onestà giaccion sotterra
Ecco una terzina che, a chiusa di sonetto, ripropone mediante i versi di Ciro di Pers, il marinista dal più risentito sentimento religioso, il luogo comune dell'anima barocca ossessionata dalla rapina del tempo. Un campione quasi ad apertura di pagina che segnala la prima decisiva aggressione al luogo comune classico di qualcosa - gloria poetica innanzi tutto - che possa contrapporsi alla fuga degli istanti, dei giorni e degli anni. Basterebbe il macabro gioco di variatio dello stesso Ciro di Pers nel ciclo di sonetti dedicati alle diverse fogge dell'orologio (in cui come scrisse Gioacchino Belli si nasconde la morte) per darci un'ulteriore conferma dell'affermarsi della nuova sensibilità. Oppure per avvicinarci, senza volontà dimostrativa ma piuttosto espositiva, agli autori più cari ad Ungaretti, il sonetto 64 Quando dalla mano spietata del Tempo in cui Shakespeare osserva il continuo avvicendarsi dello stato delle cose che significa infine "lo stesso stato delle cose rovinato o decaduto"1, fa il paio con il 126 in cui il "lovely boy", solitamente divino nella sua giovinezza, viene cupamente avvertito che il tempo è, nei confronti della natura, creditore avaro e di lunga memoria ("La sua resa dei conti, pur se differita, dovrà essere saldata/ e la sua quietanza starà nel consegnare te"2). Anche Gongora nel sonetto eroico Freccia impaziente... si fa interprete del tempo ed avverte lo svagato dedicatario Licio "quanto nostra vita correndo ha fretta" (v.5) di giungere, più di freccia al segno e di carro alla meta, alla propria conclusione. Come in Ciro anche nel sonetto gongorino spetta alla terzina finale precipitare il fastello dei versi precedenti nel gorgo dell'autoannullamento. Ciò si compie con particolare efficacia grazie alle ripetizioni sintattiche, specialmente dei termini della temporalità che, affacciati sul vuoto del verso, stillano come rena di clessidra per enjambement, sottraendosi in maniera implacabile al mucchio iniziale, la cui voluminosità le forme verbali durative del gerundio provvedono a smangiare:
Mal te perdoneràn a ti las horas,
Las horas que limando estan las dias,
Las dias que royendo estan los años
Il poeta Ungaretti tradusse Gongora nel corso degli anni trenta mentre cercava risposte alla sua ansia costruttiva seguente alla scapigliatura avanguardista della sua precedente produzione e nel pieno della furia del secondo conflitto mondiale diede alle stampe le versioni dei sonetti shakesperiani, mostrando in entrambi i casi un'altalenante dinamica d'accostamento e ritirata nei confronti della tematica dello svanimento. Per apparente paradosso pare chiedere agli annichilimenti di Gongora strumenti nuovi di costruzione per superare il rotto sillabare del naufragio, alla ricerca di soluzioni formali sulla via, tutta ancora demiurgica, della "sostituzione del nome alla caducità del reale"3. Nel buio della guerra poi, mentre i cieli decadono "a baratri di fumi"4, l'accostamento a Shakespeare di nuovo sfiora soltanto le plaghe maggiormente desolate del canzoniere cinquecentesco, per riaffermare un'estrema resistenza ancor più che del dire poetico della voce corale del poeta invocante e demiurgo ("Ecco ti chiamo..."5), anche per interposta persona o come figura Christi.
Accostando da prima i sonetti shakespeariani, attraverso il commento dello stesso traduttore d'eccezione (nel saggio Significato dei sonetti di Shakespeare6 che ci permette un'ulteriore riduzione dei quaranta sonetti agli undici adoperati come spina dorsale della riflessione), si assiste ad un grandioso tentativo di addomesticare la distruzione operata dal tempo, in piena accelerazione allora negli anni quaranta, grazie alla mediazione della parola poetica che cuce i secoli in una sola trama uniforme:
la poesia ha moto dalla memoria e tende, lungo una linea di testimonianza autobiografica, senza perdere nulla della sua variabile concretezza d'epoca e di luogo, a farsi pura in idee indicanti nei secoli qualche costanza d'educazione e qualche unità di sentimento7.
Dunque se il tema, esplicitamente annunciato nella poesia modello di Petrarca per la tradizione europea, attraverso il codice della lirica amorosa ("So come amor saetta e vola.../ e come instabili sue rote", vv. 1, 4), sarà "il tempo e le sue rovine" (p.553), tuttavia anche "il tono" (p.552) sarà, allo stesso modo, petrarchesco. Cosa significa questo per Ungaretti e questo avviluppare Shakespeare in Petrarca? Significa essenzialmente "riparare le rovine" (p.553), ovvero da una parte incanalare la bufera del tempo in una precisa direzione storica, rendendola corrente continua e vivificatrice, dall'altra immobilizzarla di nuovo nella creazione demiurgica di una "forma" (p.553). Il miracolo del tono tremante ma fermo di Petrarca, della sua parola senza tempo, permette di allungare la tutela del classicismo più consapevole e tormentato fin su Shakespeare e sull'annichilimento barocco. La forma imposta dal demiurgo arresta la fuga del tempo in bellezza, sempre diversa negli accidenti ma sempre uguale nella sostanza, attraverso i segnali che i fari baudeleriani si lanciano sul buio dei secoli. Due volte il demiurgo ha così sconfitto il tempo.
Nessuno scandalo ovviamente su tale interpretazione di Shakespeare, se è vero che l'ossessivo motivo dell'invecchiamento trova in effetti nel poeta inglese il rimedio iniziale della generazione (il sonetto II, primo ad essere riportato nel saggio di Ungaretti, evidenzia proprio l'immortalità della bellezza, forma che si stampa nella prole: "...Questo mio bel bambino/ Assolverà il mio debito, scusabile farà che io invecchi,/ La sua bellezza dimostrandosi, per successione, tua"8, vv.10-2).
Osserva Ungaretti che la perfezione, virtù e bellezza, muta negli autori susseguentisi lungo le epoche, ma, come già detto, si tratta piuttosto di dettagli capaci di rinforzare la sostanza (al posto di Laura quindi "l'idea rinascimentale del Principe", p.554 o il "fair youth"). Nel dichiarare "guerra a oltranza al tempo" (sonetto XV verso 13) Ungaretti, per bocca di Shakespeare, non poteva non giungere con passo decisivo all'immortalità testimoniata da "un'opera dell'ingegno" (p.555), che appunto egli s'affretta a specificare si concreta nella tendenza "degli artisti a oggettivare le idee nella loro essenza sensibile" (p.556). Mai come in queste riflessioni tangenziali all'opera altrui Ungaretti parla di sé dispiegando in pieno la sua poetica di potenza, centrata sulla realizzazione demiurgica della parola dal nulla. Così nella coppia di sonetti scelti per rappresentare la lotta della poesia con il tempo (XV, XIX) ad imprimersi sapientemente è la chiusa finale:
Fa' pure il peggio, vecchio Tempo: del tuo danno a dispetto,
Giovane per sempre vivrà nei miei versi il mio amore.
Viceversa viene del tutto sorvolata la sconvolgente analogia tra tempo e scrittura (vv.8-10), di segno ovviamente opposto all'ideologia classica e demiurgica del poeta di Alessandria:
Ma un crimine molto più nero ti vieto: del mio amore
La bella fronte non incidere con le tue ore, o fugace,
Né vi resti traccia di linee della tua penna antica
Qui davvero invece si può leggere l'intimo nesso tra la progressione scrittoria e il tempo, poiché essa non incide parole perenni ma è segno del nulla, unica perennità segnalata dal "crimine nero" di chi fa uso dell'inchiostro. Ungaretti, che ci pare spesso molto più sottile ed avvertito nel far fragile poesia a dispetto talvolta della sua stessa ideologia poetica o nel sottolineare la devastante percezione del tempo shakespeariana capace di rendere illusoria ogni velleità di eterno artistico (denuncia del bardo inglese "che nulla che sia di natura terrena possa non estinguersi, e persino la bellezza dell'Arte...", p.559). E tuttavia segue subito la limitazione, per cui tale percezione viene sciolta in "malinconia" petrarchesca, ricca di "delicatezza del sentimento" (ibid.). Ancora ciò che è definito il gotico shakespeariano (p.558) si compendia in una semplice variatio di modi e di stile ("il pittoresco, il madrigaleggiante, l'incantevole, l'orrido, il moraleggiante, lo schernevole", p.562), resi significativamente in un catalogo da oltrepassare e ricondotti poi, quali meri accidenti dell'idea di creazione, ad un "senso più magico d'armonia" (ibid.).
Ciò che ci siamo permessi di stigmatizzare in Ungaretti è dunque un'ideologia poetica tradizionalista, tuttora saldamente accampata nell'immaginario comune riguardo la letteratura e ancora operante in molti autori contemporanei capaci di ignorare la lunga lezione del Novecento, la quale sembra mostrarsi indifferente a differenze e rotture di paradigmi, a favore invece di un'idea immutabile di Bellezza. Atteggiamento difensivo e reattivo a fronte di un avanzante indebolimento dell'estetico che tuttavia, pur diventando diffuso e relativistico, mantiene l'enfatico accento sulla demiurgia di un creatore, per altro involgarito, sempre dimentico della tragicità nullificante del suo atto di scrittura. Così, secondo questa prospettiva, ci suona fastidioso l'ultimo verso dell'ultimo sonetto shakespeariano messo a suggello del saggio quale messaggio indirizzato al tempo: "Di questo faccio giuramento: mi manterrò per sempre/ Fedele uomo a dispetto di te e della tua fede."
Non vorremmo tuttavia, colpendo lo stentoreo monumento "a ciò che non muta né muore nell'effimero" (p.569), peccare a nostra volta di astrazione dal tempo storico, dimenticando cioè la particolare situazione europea nella quale ha avuto luce lo scritto del poeta dell'Allegria. Basterà allora una citazione finale per capire le ragioni contingenti ma urgenti del recupero di una forma memoriale che non sia soltanto autoritaria ipostatizzazione d'ordine, ma pure accorato rivolgersi ad un barlume d'umanità:
E quando, nei secoli tragici della vecchiaia, essendosi spezzata l'unità morale che gli spiriti legava e vivificava e, sbanditisi essi fra i rottami insanguinati dell'essere, e, spettri, fattosi reciproci delatori aizzatori corruttori e becchini, quali proporzioni raggiungerà lo sgomento e quali la speranza in un'umana bellezza che potrebbe, al di là di Amleto, riaccendere la fatica?9
Anche nel saggio su Gongora si trova un'attualizzazione del problema poetico affrontato dal poeta spagnolo, che diventa, per certi versi, parallelo a quello del poeta italiano. Il punto di partenza risulta di nuovo Petrarca, ridotto però, dopo tre secoli di petrarchismo, a formule metriche e sintattiche, a luoghi già dati e non più creati nella loro essenza intrisa di parola. Un panorama di manufatti come sordi e svuotati dal soffio vitale della parola originaria, quasi irriconoscibili rispetto agli "oggetti per evocare i quali erano stati da principio vocaboli, i vocaboli"10. Applicarsi a quegli "oggetti" con sensualità d'accento e argutezza di stile, fino a rianimarli, rappresenta il merito principale del maestro barocco secondo Ungaretti. Un rinnovamento della tradizione umanistica (p.533) che parta dalla natura e stia ossessivamente addosso ai suoi dati fattisi ormai inerti, per ritornare, con processo opposto al consueto, alle idee. Questo tragico e macabro rimestare nella cenere, dolorosa coscienza presente nel ludo e nel lambicco barocco, non sembra però sufficiente al percorso novecentesco di Ungaretti, che vi intravede, quale elemento superiore, il permanere del "culto petrarchesco della memoria" (p.543). Ad apertura di saggio infatti Ungaretti, riflettendo sul ritorno in voga, nell'Europa tra le due guerre, di Leopardi, Holderlin, Blake, Donne, Scève e Gongora, comprende quest'ultimo in un petrarchismo "esacerbato" e ne dichiara "le fede che il mondo non potesse concepirsi se non per parola memore" (p.528).
Ecco dunque profilarsi il ritorno, a rebours, all'oltre memoria che precede qualsiasi storia, là dove giace cristallizzato l'assoluto "d'una parola intatta idea, perfetta forma" (p.544) che il poeta creatore andrà ad attingere per dire le cose. Quindi, ancora una volta, i cocci dispersi degli "oggetti" rimandano, con eco lontana di reminiscenza, al mito d'un'intatta interezza, d'un primigenia pienezza della parola. I vocaboli indeterminati del Sentimento del tempo, i suoi vocativi, fattisi "grido del momento sacro, innocente" (ibid.), s'indirizzano allora a quell'eternità d'oltremondo in cui il demiurgo con la parola richiama la natura ad essere11. Ma altrettanto chiara appare la funzione profonda della traduzione in Ungaretti, se si leggono le affermazioni di un altro grande poeta come Octavio Paz:
Si è sempre creduto che la relazione tra il suono e il senso appartenesse non solo all'ordine naturale delle cose ma anche a quello soprannaturale; erano inseparabili e il legame che li univa, anche se non razionalizzato, era indissolubile...La storia di Babele è la risposta alla perplessità che l'esistenza di molte lingue suscita in tutti gli uomini: lo Spirito è uno e il male è la dispersione, il differente...Parlare una lingua straniera, comprenderla, tradurla nella propria, è restaurare l'unità dell'inizio.12
Ecco dunque l'impressione di una tradizione poetica occidentale, ormai lacerata dai conflitti mondiali che, diramandosi da Petrarca, potesse essere invece ancora unita in un solo tessuto comprendente anche l'eretismo barocco , attraverso l'opera di posteri consapevoli e attraverso una traduzione in grado di tenere insieme un universo più che squadernato ormai disfatto.
Osservando il Quaderno montaliano delle traduzioni nel suo complesso balza all'occhio in primo luogo l'agilità essenziale del corpus. "Dal banchetto non certo luculliano"13 delle traduzioni maggiori, risalente come annota l'autore, al 1938-43, si aggiunsero per l'Edizione della Meridiana (Milano, 1948) versioni più antiche, quali le liriche di Guillén, le poesie eliotiane ("Canto di Simeone" e "La figlia che piange", 1928-9), nonché i tre sonetti di Shakespeare e i brani tratti dalla Notte di mezza estate (adattamento e riduzione musicata del 1933). Alla ristampa dell'edizione Mondadori (Milano, 1975) si deve la poesia di Kavafis "I barbari", tradotta dall'inglese.
Autore d'apertura, nell'organizzazione montaliana, Shakespeare, cui seguono in alternanza cinque grandi scrittori inglesi ed americani dell'Ottocento (Blake, Dickinson, Hopkins, Melville, Hardy) con la traduzione di un solo testo ciascuno. Pare così da una parte offrirsi ai poeti più cari un tributo esaltato dall'unicità, dall'altra pare invece enfatizzato il valore del singolo testo su quello della "funzione autore". Un piccolo pantheon con doni di ringraziamento dunque e una serie di testi che ci stimolano alla caccia di un fil rouge. La prevalenza della cultura anglosassone, post Ossi di seppia, viene ribadita dalla presenza dei grandi del modernismo (di cui, con variatio, si trovano due testi di Joyce, uno solo per Pound, tre per Eliot). Appartenenti per lingua eppur tangenti per cultura a quell'area i bardi Yeats e Thomas, la poesia femminile di Barnes e Adams, mentre altre tradizioni sono rappresentate, oltre che dal già citato Kavafis, dal lituano polacco Milosz e, più consistentemente, da Maragall e Guillén per quanto riguarda l'asse iberico della poesia tra Otto e Novecento.
Rispetto ai capisaldi ungarettiani (Shakespeare, Gongora, Mallarmé) si riceve quindi dal Quaderno, come accennato, una sensazione di sgranatura aperta che si dipana attraverso diciassette saggi di autori che, al di là di Shakespeare e dei già citati del secolo diciannovesimo, appartenevano alla contemporaneità del traduttore. Tale avvicinamento temporale non può che rafforzare quella "legge dell'affinità" che Piero Bigongiari dichiara essere dominante nel tradurre dei poeti, cosicché ciascun autore e Montale nello specifico cerca "di comprovare a se stesso che il senso del proprio lavoro è giusto e confortato da un'altra entità fantastica già in tutto esistente e autonoma"14. Ecco dunque che il tema ricorrente da noi rinvenuto nelle traduzioni, in parallelo alla produzione originale di Montale (ma lo vedremo in seguito), riguarda il passaggio, considerato in varie forme, da uno stato all'altro, il transito verso la fine. In un quaderno così compatto ed esiguo colpisce proprio la frequenza di tale immagine, sotto diversi aspetti e in autori lontani, tanto da far sospettare che il transito sia uno degli elementi presenti sotto traccia a raccordare i testi scelti dal poeta ligure. Una tematica certo più nascosta, non esplicitamente annunciata, motivata e commentata anche con accenti combattivi e drammatici, rispetto a quella di Ungaretti, ma altrettanto centrale per dare una fisionomia complessiva - di movimento - al tutto delle traduzioni e fungere poi da specchio alle liriche scritte o da scriversi in proprio. Di più il transito, quale figura inseguita nelle traduzioni, ci porta con andamento progressivo, sulla sponda opposta, inafferrabile e malfida, di quella, caratterizzata dal tentativo di regressione memoriale verso il Verbo che si fa cosa, toccata da Ungaretti.
Nella sua mirabile lettura de "Sul lago d'Orta", poesia che Montale fece apparire sul "Corriere della sera" a seguito del conferimento del Nobel, Stefano Agosti afferra, all'interno della superficie piatta (descrittiva, riflessiva, ironica) del discorso, una testura fondamentale basata sulla preposizione "tra", esplicitamente o occultamente iterata. Essa segnala "l'angoscia del Non-luogo, angoscia dell'essere TRA due luoghi, di non trovarsi in nessuno"15, ma anche apre un punto di fuga, si fa "luogo di transito"16. Accostandoci al Quaderno delle traduzioni non potremo non conferire un'accensione di moto a quel "tra", accogliendo cioè soprattutto la seconda suggestione offertaci da Agosti. Ed infatti la prima figura shakespeariana che ci si presenta nella Notte di mezza estate si allontana subito dal radicamento disperatamente inseguito da Ungaretti nell'aere perennis d'una traduzione poetica; quella figura infatti è immagine, ancora solo leggiadra, d'aria passante, soffio incorporeo del "tra":
Tra boschi e tra spini,
tra mura e giardini,
tra fuochi e sorgenti,
sul colle e sul borro,
dove m'aggrada, più rapida
che raggio di luna, trascorro17
Quattro settenari di fulminea panoramica dunque, dominati dal transito fisico sulle ali del significante ("tra" ed "e" ripetuti nei primi versi, la rima al primo e secondo verso, assonanza boschi-fuochi, richiami fonici fra mURa, giARdini, sORgenti, bOR-RO, sei bisillabi e due trisillabi accostati per posizione), cui seguono i due novenari finali che, continuando la catena di scorrimento veloce aggRAda, RApida, Raggio (il verbo e l'aggettivo consuonano), culmina nella sintesi, semantica e sonora, del verbo conclusivo TRAscOR-RO.
Ugualmente, se consideriamo la poesia joiciana della gioventù e del rimpianto d'amore, che prende spunto visivo dal guizzante filare dei cannottieri di San Sabba, "Mai più il vento gagliardo che trascorre/ vi tornerà vicino"18, dove il medesimo suono in trascORre, gagliARdo, tORnERà, rafforzato dall'iterazione delle costrittive spiranti, si pone al servizio di una nuova tonalità malinconica.
L'adattamento da Djuna Barnes mette in evidenza già nel titolo (Trasfigurazioni) il prefisso "trans" e si struttura in coppie di endecasillabi in cui dominano i verbi di movimento, che sbalzano sul primo piano visioni e personaggi rapidamente scomparsi ("una dura terra che si sgretola" v.2, "La gorgia di Mosè ringhiotte un fumo/ di parole non dette, una a una" vv.5-6, "Rugge e fugge Lucifero dall'orizzonte,/ dispare Cristo e rientra nella sua morte" vv.11-2), fino al ditico conclusivo:
Un sol furibondo, arso di sete,
sugge l'ultimo giorno e insieme il primo.19
Qui residui in precedenza riscontrati nelle poesie del transito (fURibondo, Arso, giORno, pRImo), sotto la sferza d'un sole che conferisce all'immobilità meridiana degli Ossi una violenza di biblica divinità (qualche volta affiorante nelle Occasioni dell'ebrea americana Clizia) e che parifica lo svuotamento del primo e dell'ultimo giorno, cominciano a rivelare il destino di nulla del transito. Ed anche l'alto canto religioso di Hopkins contiene nel titolo e nel cuore del componimento più di un principio inquietante di movimento che il finale in crescendo redime solo in parte. A proposito della traduzione montaliana del titolo Pied Beauty scrive Laura Barile che "L'aggettivo "cangiante" ha in più, rispetto al "variegata" crociano e alla "screziata" di Baldi, una connotazione di mobilità continua, della trasformazione di un colore nell'altro, il passaggio perenne di una stessa sostanza da un suo polo opposto..."20 Mentre l'autonomia del significante riporta e rafforza tutte le valenze del transito di contro alla bellezza immutabile di Dio:
...e tutti
i TRAffici e gli Arnesi, e tutto ch'è
fuOR di squadRA, diffORme, impARi e sTRAno,
tutto che muta...21
Il senso vero e proprio del transito si precisa meglio però con l'ottavo verso di Yeats tratto dalla seconda quartina di Quando tu sarai vecchio:
Ma uno solo ha amato l'anima tua pellegrina
e la tortura del tuo trascolorante volto22
Tanto l'anima (appunto "pellegrina") quanto e più la corporeità risultano soggetti alla caducità implicata nel passaggio. Di qui la ripresa, in folta serie, delle incarnazioni del transeunte come "L'uomo invecchiato", il quale "non è più che uno straccio" al verso nono di Verso Bisanzio23 dello stesso Yeats, le guance di Piramo che "si sfocano"24 o la "Vecchia panchina" di Hardy, condannata, senza coscienza ma senza remissione, dai verbi del transito:
Il suo verde d'un tempo si logora,
volge al blu.Le sue solide gambe cedono sempre di più.
Presto s'incurverà senz'avvedersene,
presto s'affonderà senz'avvedersene.25
Il medesimo verbo affondare, che bene coglie l'intima natura del passaggio, ci spinge, in questa fitta rete di rimandi, a Guillén ed all'inevitabile e diretto confronto con l'elemento del tempo:
Tempo in profondo; scende sui giardini.
Guarda come si posa. Ora s'affonda,
è tua l'anima sua...26
La "TRAsparenza delle sere" (vv.3-4) fa sì che l'anima, già altrove "pellegrina" (e nella poesia di Eliot, collocata immediatamente prima, "Animula") e detta poi "pallida e appassita"27 in Per un fiore dato alla mia bambina di Joyce, venga ora definita con la coincidenza e l'inglobamento nel fluire del tempo. Qui, ancora una volta, spicca oltre all'isotopia tematica scavalcante gli autori, quella del significante, laddove "l'onda scialba del tempo"28, ovvero il soggetto del quarto verso joyiciano, è contenuta nel verbo ("s'affonda"), che ha a sua volta come soggetto il Tempo, rapitore dell'anima nel testo di Guillén visto in precedenza (p.745).
In Montale dunque la moderna sensibilità di Shakespeare riverbera nella tradizione progressiva dei moderni (non solo anglossassoni), quando in Ungaretti quella medesima attenzione atterrita per il transito veniva risucchiata e quindi neutralizzata nella precedente tradizione petrarchesca. Lo stesso mondo naturale, a partire dal fiore joyciano, subisce il soffio raggelante del tempo (Guillén, Ramo d'autunno, p.746 e Albero autunnale che "Sott'acqua/ con incessanti foglie va al suo dio", p.747, ultimo verso) oppure produce forza vitale che porta con sé l'annientamento come nella Quinta poesia di Dylan Thomas ("La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore,/ guida la mia verde età; quell'impeto che squassa le radici degli alberi/ è per me distruzione"29), in cui l'umano si salda nell'effimero alla natura ("E muto non so dire alla rosa avvizzita/ che questa febbre invernale piega anche la mia giovinezza"30). Di qui pure l'ulteriore isotopia, quella del sonno, serpeggiante nei testi più diversi e ovvia trasposizione dell'approdo alla fine del transito; Milosz, da Berlina ferma nella notte: "dormite un po', signora - Dormi, mia pallidina/ e mettimi la testa sulla spalla" (p.732, v.32), Melville, da Billy in catene: "Ho sonno e l'alghe viscide faranno/ presto ad attorcigliarsi su di me" (p.725), Yeats, da L'indiano all'amata: "e come vagheranno, quando saremo morti,/ le nostre ombre, la sera sui sentieri felpati/ smorzando coi passi aerei il sonno abbagliante dell'acque" ((p.733), Adams, da Ninna nanna: "Muore l'amore in petto./ Ecco il guanciale:/ riposa" (p.751). Negli ultimi tre casi inoltre, pur nelle differenti tonalità emotive, i versi, in modo assolutamente significativo, sono posti a conclusione del componimento, preludio al bianco. Una centralità indiscutibile del transito insomma, legato allo smorire del tempo e all'assopimento nel bianco, che autorizza, quale parziale chiusa riassuntiva, un frammento del Cant espiritual di Maragall:
Chi mai non disse "fermati!" a un momento,
fuor di quello che gli portò la morte,
non lo intendo, Signore...
...E che sarebbe
allora mai la vita? Ombra del tempo,
illusione del qui e del laggiù,
e il calcolo del poco e il molto e il troppo
solo un inganno, perché il tutto è il nulla?31
NOTE:
1 Verso 10 nella versione di Alessandro Serpieri, Milano, Rizzoli, 1998, p.195.
2 Ivi, vv.11-2, p.319.
3 Carlo Ossola, Giuseppe Ungaretti, Milano, Mursia, 1982, p.364.
4 Da Il tempo è muto (v.4), in Ungaretti, Vita di un uomo, poesie, più precisamente Il dolore, Milano, Mondadori, 1988 , vol. 1. P.213.
5 Si tratta del penultimo verso di Mio fiume anche tu,
6 In Ungaretti, Vita di un uomo, saggi ed interventi, Milano, Mondadori, 1982, vol. 2, pp.551-70.
7 Ivi, p.551.
8 Il medesimo tema si rinviene, reduplicato nel numero, nel sonetto VI riportato per secondo nel saggio, esattamente alla stessa posizione (versi 9-12): "Dieci volte saresti più felice che tu non sia/ Se dieci tuoi, te stesso dieci volte raffigurassero;/ La morte che potrebbe fare se allora tu partissi/ Lasciando te vivente in una tua posterità?".
9 Ivi, pp.568-9.
10 Gongora al lume d'oggi, in op.cit., p.533.
11 Per un approfondimento sull'assoluto garantito dalla presenza di vere e proprie divinità nel Sentimento del tempo, sulla natura divenuta "emblema", in possibile relazione alla poetica gongorina dei nomi, si veda Folco Portinari, Giuseppe Ungaretti, Roma, Borla, 1967, p.79 sg.
12 O.Paz, Passione e lettura, Milano, Garzanti, 1990, pp.27-9.
13 Dalla nota premessa all'edizione Meridiana, ora in E. Montale, L'opera in versi, Torino, Einaudi, 1980, cui ci si riferirà d'ora in avanti per le citazioni dai testi del poeta ligure.
14 Da Altri dati per la storia di Montale, scritto del 1949, in Per conoscere Montale, a cura di Marco Forti, Milano, A. Mondadori, 1976. Maria Antonietta Grignani in A play of iridescent colour, saggio in coda alla traduzione montaliana di La vita nella foresta di W.H. Hudson, Torino, Einaudi, 1987, dall'osservatorio della prosa conferma "la grande capacità di Montale di aderirie allo specifico dei testi tradotti, restando nel contempo se stesso" (p.303).
15 S. Agosti, Cinque analisi, Milano, Feltrinelli, 1982, p.78.
16 Ivi, p.80.
17 Op.cit., p.714.
18 Op.cit., p.729.
19 Op.cit.,p.738.
20 L. Barile, Sparviero o procellaria? Una versione di Montale da Hopkins, in Studi di filologia e critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, Roma, Salerno editore, 1985, vol.II, p.814. Grignani, ritenendo che l'importanza della traduzione poetica di Montale vada esteso "ai momenti di grazia della prosa" (op.cit., p.324), individua tra le zone "ove s'impenna il lavoro di riscrittura" (pp.316-7) del romanzo di Hudson la caratterizzazione della protagonista Rima di "aspetto vago e nebuloso", il cui cangiare nella forma con "guizzo di colori iridescenti" accosta proprio a Pied Beauty.
21 Op.cit., p.723, vv.7-10.
22 Op.cit., p.734.
23 Op.cit., p.736.
24 Una delle scene della Notte shakespeariana, op.cit., p.719.
25 Prima quartina, op.cit., p.726. P.V. Mengaldo, a proposito di questa specifica traduzione, scrive in La panchina e i morti (La tradizione del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1987) che, rispetto all'originale, Montale "con una serie cospirante di interventi inocula in quel discorso movimento varietà, dinamismo" e che "Hardy componeva una scena di genere (nel senso più alto del termine) ferma e monocorde, contemplata da uno sguardo che ha abolito il tempo, nella versione montaliana immessa in una gradualità temporale", simile alla sequenza filmica.
26 Op.cit., p.745, vv.1-3.
27 Op.cit., p.730, v.3.
28 Ibid.
29 Op.cit., p.252, vv.1-3.
30 Ivi, vv.4-5.
31 Op.cit., p.727, vv.12-4, 17-21. Il prelievo snatura certo il senso complessivo della poesia dell'autore, ma pare assai calzante rispetto al macrotesto creato dal traduttore nel suo Quaderno.