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L'incendio nell'oliveto
Capitolo 01
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 01

Dalla scranna antica che il lungo uso aveva sfondato e sbiadito, era ancora lei, la nonna Agostina Marini, quasi ottantenne e impotente a muoversi, che dominava sulla casa e sulla famiglia come una vecchia regina dal trono. Non le mancava neppure lo scettro: una canna pulita che il nipotino più piccolo aveva cura di rinnovare ogni tanto; buona per dare sulle gambe ai ragazzi impertinenti e per scacciare i cani e le galline che penetravano dal cortile; ma sopratutto buona per frugare nel camino, davanti al quale la nonna sedeva in permanenza d'estate e d'inverno, e specialmente per frugarvi quando era sdegnata con qualcuno, cosa che le accadeva spesso.

Perché la canna non si accendesse il figlio Juanniccu le aveva applicato all'estremità un puntale di latta; e quel pomeriggio d'inverno la vecchia signora frugava nella cenere pensando appunto a questo suo figlio Juanniccu.

Era già quasi vecchio anche lui, ma viveva, come aveva sempre vissuto, ancora a carico della famiglia. Non per vizio, ma per indolenza, per abitudine. Le pareva di vederlo seduto accanto a lei, come un bambino incosciente, con gli abiti trasandati, i capelli lunghi sulla nuca fin sul bavero unto della giacca, la barba grigia non rasa da più giorni sulle guance grasse e molli scavate da solchi di sofferenza indifferente: e lo rimbrottava, al solito, pur sapendo di fare cosa inutile, mentr'egli la fissava con gli occhi distratti, timidi e castani come quelli di un cervo.

"Eccoti lì, con le mani in tasca e i piedi parati al fuoco, con le scarpe fangose come quelle dei pezzenti vagabondi. E dove sei stato? Sono tre giorni che non ti vedo. Del resto è meglio, che non ti veda. Mi sembri l'immagine vivente dei miei peccati. E chi ti può vedere? Nessuno. Ti si sopporta perché si è cristiani; e basta. Tutti gli altri, della mia famiglia, hanno fatto buona riuscita: tu solo sei come l'ultimo pane andato a male, che nessuno vuole. Hai cinquant'anni e sei lì come un bambino che ne ha tre. Colpa mia, del resto. Eri l'ultimo, quello che non si vuol vedere crescere perché resti un bambino nella casa: e così sei rimasto. La pigrizia ti ha roso le ossa. E non eri stupido: hai anche studiato, ma adesso ti sei dimenticato persino di leggere. Fossi stato almeno vizioso; ti fossi almeno divertito! Neppure a questo sei stato buono. E morta io che farai? Nuora mia e i miei nipoti ti cacceranno via di casa come un vecchio cane." "Via, via!", disse a voce alta agitando la canna come per scacciare davvero un cane.

Ma la sua stessa voce la svegliò dal cattivo sogno.

Sentì che esagerava. Il piccolo patrimonio del quale la famiglia viveva era suo. E la nuora non possedeva un centesimo. Era una parente povera accolta adolescente in casa per badare ai bambini del figlio maggiore vedovo, del quale, poi, per convenienza era diventata la seconda moglie.

Morto anche questo figlio maggiore, la vedova e i tre orfani, di cui l'ultimo nato dal secondo matrimonio, s'erano stretti intorno alla nonna come ad una madre comune, e le obbedivano ciecamente, uniti e nutriti tutti da un senso religioso della famiglia; e sopportavano, se non amavano, lo zio, perché convinti che ogni casa deve avere la sua croce.

Del resto egli non dava molestia: passava le giornate fuori, girando di qua e di là per le case dei parenti, e rientrava solo alla notte contentandosi di mangiare in cucina quello che gli lasciavano; poi andava a letto al buio in una stanza sotto il tetto.

Di giorno non lo si vedeva mai. La vecchia madre credette quindi di continuare a sognare nel vederlo in quel momento entrare dalla porta del cortile, guardandosi attorno timido e diffidente, e dirigersi rapido a lei. Al solito aveva le mani in tasca e il collo della giacca tirato su per il freddo; ma il viso esprimeva un'insolita animazione.

Attraversò la stanza camminando senza far rumore, come avesse le scarpe rotte; si fermò pesante e tremulo e volse le spalle al camino.

"Oh", disse in fretta, sottovoce, "sono stato dal parente nostro ricco. La moglie, zia Paschedda Mura, se ne va. All'altro mondo se ne va", aggiunse più forte, facendo dei cenni alla madre che lo guardava, immediatamente turbata dalla notizia. "Sì, se ne va! Stava già poco bene fin dai giorni scorsi, e adesso, gira di qua, gira di là nel cortile e nell'orto, con la sua avarizia e la paura che le venga meno la roba, ecco che s'è presa la polmonite. E se ne va! E se ne va!"

Tacque, dopo aver ripetuto le ultime parole quasi con un senso d'irrisione, osservando sul viso della madre l'effetto che produceva la notizia.

La madre infatti era turbata, ma da un confuso senso di gioia.

Pensava ad un progetto di matrimonio vagheggiato da lei, e da tutta la famiglia, fra la nipote Annarosa e Stefano, il figlio laureato di zia Paschedda Mura: solo che questa zia Paschedda si opponeva perché a sua volta desiderava un matrimonio più ricco per il suo Stefano.

Il vento di tramontana di quel rigido inverno spazzava dunque via l'ostacolo...

Subito però ella sentì la sua coscienza rimproverarle di desiderare quasi la morte della ricca parente.

"Paschedda è forte e ben nutrita. È di razza rustica che resiste a tutti i malanni e non morrà per così poco. E denari da pagare medici e medicine ne ha. Contami come è stato."

Egli aveva poco da raccontare. Era stato dai Mura a passare qualche ora accanto al loro focolare come faceva ogni giorno di qua e di là in casa di tutti i parenti. Il vecchio Mura era fuori in campagna, il figlio Stefano, che faceva l'avvocato, in Tribunale.

"D'un tratto zia Paschedda rientra dal cortile, pallida, pallida, battendo i denti. La serva la fece andare a letto; lei non voleva, perché ha paura che, assente lei, qualcuno le porti via la roba di casa. Mi pregò di andare a chiamare Stefano, che era in Tribunale sebbene non avesse cause da discutere. Ma egli va in Tribunale e in Pretura per passare il tempo. E quando è in casa non bada a niente; legge sempre e poi guarda in su. Annarosa..."

S'interruppe e s'irrigidì, quasi spaventato, perché da una camera attigua s'avanzava la cognata.

Alta e forte, con la testa di una bellezza energica, incoronata da un diadema di grosse trecce nere, ella era tale davvero da far intimidire con la sua sola presenza; eppure anche lei si avanzò lieve, silenziosa, fermandosi timida accanto alla vecchia e guardando il cognato senza osare d'interrogarlo.

Il chiarore tremulo della fiamma parve accarezzarle la persona dalle forme piene ben rilevate da un semplice vestito nero quasi monacale, e il viso pallido ove la bocca carnosa un po' socchiusa sul denti intatti aveva qualcosa di caldo, di scintillante, che attirava più che la luce velata dei grandi occhi scuri.

La vecchia si volse subito a lei.

"Caterina, Nina mia, Paschedda Mura è malata grave. Bisogna andare subito a trovarla e domandare se occorre qualche cosa."

La nuora intese subito; anche nei suoi occhi brillò una rapida luce di gioia; gioia per la speranza del possibile matrimonio, ma anche per il pensiero di uscire, di veder cose nuove: perché di solito ella non andava mai fuori di casa.

"Ci andrai tu, Nina mia: metti dunque lo scialle e avverti Annarosa."

"Annarosa non viene?"

"No, non è conveniente. Le dirai però che venga giù, che non stia alla finestra. Non è conveniente che stia alla finestra. Va, Nina mia, va."

La donna andò su, senza perder tempo a domandare particolari al cognato. E questo rimaneva lì, intimidito, frenando tuttavia un sorriso di compatimento, mentre la madre profittava della sua presenza per tentare una predica.

"Cosa fai lì, in piedi, con le spalle al fuoco pronto ad andartene di nuovo in giro? Sta almeno in casa e prenditi da leggere la Bibbia. Tuo padre la leggeva tutti i santi giorni; ma tu non ti ricordi di tuo padre! Tutti si ricordano di lui, per le sue virtù, come sia morto ieri: tu solo lo hai dimenticato. E chi non si ricorda di lui?", proseguì, reclinando la testa con amarezza. "Di gente buona, era, e buono anche lui: e non sdegnava alcun lavoro, neppure quello di lavorare la terra come un contadino. Il mio podere, che era una vera pietraia, lo ha coltivato lui: olivi e mandorli e noci, tutto ha piantato lui; eppure il libro lo aveva sempre in tasca, per non dimenticarsi di leggere. Uomo di talento, era, e tutti amavano la sua compagnia; tutti, persino gli alti impiegati, venivano a cercarlo, come si cerca un gran signore. E non era che un piccolo proprietario che badava alla sua roba e viveva nel santo timore di Dio. Anche sindaco è stato: e tutti i partiti gli volevano bene: una volta lo stesso vescovo lo mandò a chiamare per un consiglio. E tuo fratello, lo ricordi? Sembrava un santo: avrebbe potuto dir messa come un sacerdote, tanto era somigliante al padre e di buoni costumi. Nuora mia può dirlo, com'era docile, e buono; mai gridava, mai parlava a voce alta. E così è morto, figlio mio: morto strapazzandosi per il bene della famiglia; anche lui lavorava giorno per giorno come un manovale e il figlio Agostino mio, ne ha preso bene l'esempio e l'insegnamento; lui solo ha ereditato dal nonno e dal padre, Agostineddu mio, capo di famiglia a quindici anni. Adesso ne ha venti, ma è come ne abbia cinquanta; sempre a lavorare, lui padrone e servo nello stesso tempo, consacrando la sua miglior gioventù alla famiglia. Tu solo te ne stai così, per le case altrui, a contare inutilmente le ore. Sarebbe tempo almeno adesso di metterti a fare una vita cristiana tu credi che non si badi a te? Si bada, sì, e tu pregiudichi la famiglia, specialmente Annarosa che deve trovare marito..."

L'uomo ascoltava senza protestare ma anche senza commuoversi: solo tendeva l'orecchio per paura che Annarosa scendesse e lo trovasse lì. Sentiva, attraverso il soffitto di legno, il passo delle donne, nelle camere di sopra; poi nelle scale e nel corridoio; e prima che l'uscio di questo si riaprisse egli si scostò dal camino, col suo passo cauto e silenzioso, attraversò la cucina e se ne andò per la porta del cortile.

Ma solo la nuora rientrò.

Chiusa nel suo scialle a punta, che le rendeva il viso più pallido, come d'avorio, salutò la vecchia dicendole che Annarosa sarebbe scesa subito.

"Io vado, allora?"

"Va. E ascoltami. Parlare poco. E se non vedi buona accoglienza, fa vista di nulla ma vieni via subito. Inteso hai?"

"Inteso."

Ella se ne andò, col suo passo agile, dondolando un po' i fianchi sotto lo scialle; la vecchia rimase di nuovo sola e ricominciò a frugare nel fuoco; poi, d'un tratto si sollevò, s'accomodò sulla fronte le due alette di capelli bianchi crespi sfuggenti dal fazzoletto nero che le stringeva il piccolo viso legnoso, e batté la canna sulla sedia accanto. Gli occhi d'un colore vago, cangiante, brillavano nel cavo bruno delle occhiaie come in una lontananza scura.

L'assenza e l'indifferenza di Annarosa cominciavano a irritarla. Eppure di solito era lei a farle compagnia, seduta a lavorare e a leggere accanto al fuoco o sotto la finestra alta sul cui scalino stava il suo paniere da lavoro.

La luce rosea e fredda del tramonto ventoso si spegneva sui piccoli vetri tremanti; e quando questi per qualche momento cessavano di sbattersi, si sentiva il lontano gracchiare dei corvi negli orti sopra la valle. Pareva di essere in una casa solitaria di campagna. E veramente l'interno era tale, con le stanze imbiancate con la calce e le finestre piccole e alte, gli usci bassi che davano tutti su quella vasta e nuda stanza da pranzo dove il lucido tavolo di castagno rifletteva la luce rosea della finestra, e il pavimento di legno scuro faceva risaltare il bianco delle pareti.

Dal suo posto la nonna vedeva tutto il piano terreno; a sinistra la sua e un'altra camera con le finestre sull'orto; a destra la cucina e attraverso la porta di questa una specie di portichetto sostenuto da due pilastri in muratura intorno ai quali si attortigliava la vite, e il pozzo di pietra sullo sfondo del portone rossastro del cortile.

Di solito tutti entravano ed uscivano di qui, sebbene parallelo alla cucina si allungasse un corridoio con la porta d'ingresso sulla strada. Il portone era sempre socchiuso e le donne del vicinato entravano liberamente ad attingere acqua dal pozzo, e se la cucina era aperta lasciavano l'anfora nel cortile e si spingevano fino alla stanza da pranzo per salutare la nonna e scaldarsi le unghie alla fiamma.

Quel giorno tutto era chiuso per il gran freddo; ma il vento che aumentava col cadere della sera di un tratto spalancò sbattendola con violenza la porta della cucina. A quel rumore Annarosa si decise a scendere. Venne di corsa dal corridoio e uscì nel portichetto come per vedere che cosa accadeva. Il vento le spingeva fra le gambe dritte le vesti corte disegnando le sue forme ancora un po' dure, quasi adolescenti, le sollevava sopra la camicetta rossa le ali frangiate dello scialletto nero e le scompigliava intorno al viso bruno i capelli neri crespi.

Sebbene nel cortile non ci fosse nessuno, ella si attardò a guardare di qua e di là, coi grandi occhi diffidenti, tutta agitata dal vento come un grande pettirosso.

Finalmente rientrò, piegandosi davanti al fuoco per scaldarsi le mani; e d'improvviso, come stordita dal calore e dalla luce della fiamma, si lasciò cadere seduta sulla pietra del focolare appoggiando la testa all'anta del camino.

Allora la nonna, che già l'osservava attenta, le vide il viso macchiato di rosso e le palpebre gonfie di chi ha pianto. Ecco perché indugiava a scendere e s'era esposta al vento; per farsi cancellare dal viso le traccie delle lacrime! ohi, ohi, che moscone nero le ronzava intorno?

"Annarosa, tua madre è uscita. Non ti ha dunque detto nulla?"

"Ma sì. È andata a visitare zia Paschedda Mura."

"È malata grave, Paschedda Mura; lo sai?"

"Se è malata Dio l'aiuterà a guarire!"

Quest'accento insolitamente ostile sorprese la nonna, che pure non osò insistere sull'argomento. Un senso improvviso di timidezza glielo impediva.

Ma continuò ad osservare Annarosa quasi a spiarne sul viso i pensieri. E Annarosa non cercava più di nascondersi, anzi rivolgeva al fuoco il viso ancora ingombro di ciocche di capelli, e le ombre tremule e le luci che il chiarore della fiamma vi diffondeva parevano prodotte dallo sbattersi delle lunghe ciglia e dal lieve tremito della bocca sdegnosa.

Pensava a quei suoi parenti che, sebbene d'un ramo paesano della famiglia, la nonna e il fratello nominavano sempre con grande rispetto.

Qualche volta zio Fredu Mura e la moglie venivano a far visita alla nonna: visite fredde, quasi di etichetta, alla cui conversazione lei non prendeva mai parte.

Di Stefano ricordava che era venuto solo due o tre volte, anni avanti, per certi affari di famiglia, e a lei non aveva neppur badato.

Ma ecco, le pare di rivedere, nei mucchi di brage accumulati sulla cenere del camino, un paesaggio di montagna, al tramonto. Si è in una festa campestre, e si balla sotto il bosco al suono della fisarmonica. Stefano s'avanza e la invita a ballare. Grande e grosso, pallido e con gli occhi d'un nero profondo, con le palpebre grevi, come assonnate, sembra più vecchio della sua età; tuttavia è con una certa timidezza goffa che s'avvicina a lei, sebbene anche lei sia la ragazza più vergognosa della schiera intorno riunita.

Fin d'allora si parlava d'un possibile matrimonio fra loro due; e le pareva di rivedere ancora tra l'ombra del bosco e lo sfondo rosso del tramonto gli occhi delle altre ragazze, che seguivano con invidia il suo giro di danza e la credevano palpitante di gioia fra le braccia di Stefano.

E lei palpitava davvero, ma non di gioia. Stefano non le parlava, ma la stringeva forte e pareva volesse penetrarle le vesti con le sue dita; e il contatto del corpo vigoroso di lui, l'odore del sigaro, il calore della mano tenace, le davano un turbamento profondo: la attiravano e la respingevano.

E aspettava quasi con terrore che egli le parlasse finalmente d'amore e le chiedesse di diventare sua moglie. Perché lei non voleva certo disobbedire alla famiglia; ma amava un altro.

Il brontolio della nonna la richiamò alla realtà.

"È quasi notte e Gavino non torna. E neppure quella scempia della serva. Quando son fuori non si ricordano più della casa. Ma il ragazzo bisogna frenarlo: altrimenti finirà come quell'altro."

Annarosa s'alzò protestando.

"Non tutti si devono rassomigliare. E non c'è bisogno di far sempre pesare i morti sui vivi."

"Annarosa! Zio tuo non è morto: morto fosse, meglio!"

"È peggio che morto! Ma la sua miseria se la porta lui. E lasciate che ognuno vada per la sua via; tanto si arriva tutti allo stesso punto."

"Annarosa! A questo punto bisogna arrivarci bene, non male."

"Male è passare la vita male... come..."

Non osò proseguire: vedeva la nonna farsi rossa per lo sdegno, con gli occhi loschi, con la canna che le tremava fra le mani: e aveva paura di irritarla e addolorarla; le sembrava di essere sotto un vecchio muro che ad un urto troppo forte poteva crollarle addosso.

"Chi è che passa la vita male? Tu forse? Di che cosa puoi lamentarti? Sei orfana, perché il Signore ha comandato così, ma non sei rimasta sola, ed hai la casa e chi ti vuol bene e ti protegge. È che volete solo il godimento, i giovani d'oggi; volete solo la parte dolce della vita; il piacere sì, il dovere no! Ma la vita è come un frutto con una parte al sole e l'altra all'ombra: una matura e l'altra acerba. Spiccarlo com'è, bisogna. Io sono vecchia; mi pare di aver vissuto sempre da quando è cominciato il mondo; e tutto ho veduto, Annarò! E ti dico che bisogna seguire i precetti di Dio, le leggi eterne, per essere contenti. Detto te l'ho, tante volte, Annarosa, di leggere la Bibbia invece dei cattivi libri che tieni sempre in tasca e sotto il capezzale. Tuo nonno leggeva sempre la Bibbia ed era l'uomo più contento ch'io abbia conosciuto. Non ha mai pianto."

Annarosa non replicò. Erano tutti abituati a quei sermoni; ne erano talmente imbevuti da non provarne più impressione e neppur noia.

D'altronde qualcuno entrava. Era la servetta di ritorno dall'oliveto ove era stata tutto il giorno a cogliere olive; e ne recava un cestino colmo sul capo. Annarosa le andò incontro e parve volesse dirle qualche cosa, mentre con le sue mani fini l'aiutava a mettere giù il cestino delle olive grosse e violette come prugne: poi chinò la testa pensierosa e tornò accanto al fuoco.

Anche la servetta si cacciò fin dentro il camino per scaldarsi: aveva le vesti così fredde e dure che parevano ghiacciate; e non poteva piegare le dita gonfie per i geloni, né chiudere la bocca per le screpolature delle labbra; eppure si diede subito premura di allontanare dal fuoco il piede della vecchia padrona perché la scarpa non si bruciasse, e appena poté riprendere respiro cominciò il resoconto della giornata.

"Oh, bisogna farvi sapere che ci sono dei ladri in giro, laggiù. S'è visto persino la traccia di zio Saba, quel vecchione che ha un piede solo. È facile a riconoscersi, la sua traccia! Ha ripulito, sotto gli olivi; dove passa lui pare passino le locuste. Allora il padroncino Agostino (il suo viso delicato di bambina diventava rigido di rispetto e di ammirazione, quando si nominava il padroncino Agostino) ha deciso di passare giù la notte al podere per guardare le olive. Quelle che erano per terra le abbiamo raccolte tutte, fino all'ultima. C'era un vento che entrava in corpo come un diavolo; ma lui, il padroncino Agostino, non ha sollevato nemmeno la schiena finché non ha veduto gli spiazzi puliti come questo pavimento. E mi pungeva con una fronda per sollecitarmi. In coscienza mia, quell'uomo vuol diventare ricco prima del tempo."

"Lavorare bisogna, Mikedda mia", disse la vecchia padrona.

"Domani, dunque, bisogna mandare giù un carro, per portar su le olive. Sono entrata qui da zio Taneddu e l'ho avvertito. Ha la moglie malata, ma andrà lo stesso. Lavorare bisogna!", concluse pensierosa Mikedda, sfregandosi una mano con la palma dell'altra.

La vecchia padrona si informò che malattia aveva la moglie di zio Taneddu. Erano, marito e moglie, i più prossimi vicini di casa; tutti e due stati un tempo suoi servi, ancora spesso lavoravano per conto suo, specialmente l'uomo, che era un bravo contadino.

"È raffreddata, con la febbre. Con questo tempo chi non prende un malanno?"

"Anche Paschedda Mura è malata grave."

La ragazza sobbalzò; disse: "Allora...", ma non proseguì. Anche lei pensava che se la ricca paesana moriva, il matrimonio della padrona piccola si concludeva. Ma la padrona piccola, ritornata lì silenziosa presso il camino, era così triste e di umor serio che conveniva parlare d'altro.

La nonna domandava se Agostino aveva abbastanza da coprirsi durante la notte.

"Ha il cappotto e un sacco di lana. Del resto a lui che importa? non sente né freddo né caldo: è come gli eremiti, fatto di pietra!", esclamò Mikedda.

E d'un tratto si lasciò anche lei cadere aggomitolata per terra fra la scranna e la parete, sognando. La figura del suo sogno non può essere che quella del padroncino Agostino, su lo sfondo dell'oliveto. Il vento scuote i vecchi olivi fitti sulla china della valle, dando loro ondulazioni e toni grigi cangianti come di nuvole; le olive cadono, verdoline e violacee lucenti come perle e bisogna sveltirsi a raccoglierle dalla terra fredda. Quando il cestino ne è colmo si va a vuotarlo entro la casetta, ove ce n'è già un bel mucchio. Il padroncino l'aiuta a sollevare e mettere il cestino sulla testa, e lei sta là tutta tesa nell'atto di sostenere con ambe le mani il suo carico con la speranza e la paura che Agostino voglia darle un bacio; poi corre nella casetta nascosta fra gli olivi in cima al podere, e senza togliersi di testa il cestino versa dall'alto, sul mucchio, le olive: alcune le rotolano sul viso e le danno un brivido come fossero grosse gocce d'acqua. Dopo essersi indugiata nel gioco, s'affretta a uscire perché già sente il passo di Agostino ed ha paura di essere sgridata. Egli infatti la sgrida rincorrendola come per picchiarla; ma lei pensa, che se riesce a prenderla forse la bacerà, e gli butta il cestino contro gridando:

"Lo dirò a nonna sua, se mi tocca!"

Il grido basta per salvarla, per salvarli tutti e due. E vanno lontani uno dall'altro a cogliere le olive, come separati dal vento.

Il rumore della porta che si spalancava e si sbatteva più forte di quando l'aveva spinta il vento fece trasalire le tre donne silenziose intorno al camino. Un'ondata di vita, un odore di frescura e d'inchiostro entrò nella stanza col piccolo Gavino. Per evitare il sermone della nonna egli le si precipitò addosso, sfregandole sul viso la guancia di mela matura, poi lasciò cadere i libri in grembo ad Annarosa e prese la canna.

"Ho tardato perché guardavo il corteo di un battesimo. Ma un battesimo curioso, nonna; sentite: precedeva la donna col bambino coperto da un manto rosso che strascicava per terra: poi venivano la madrina e il padrino: la madrina vestita di rosso, il padrino col mantello. Il vento glielo gonfiava così, come un pallone. Poi veniva il padre della creatura alto e grasso, col cappotto di velluto e un'aria di padrone del mondo. Poi veniva un vecchio con una lunga barba, e un altro vecchio con un'altra lunga barba; poi uno zoppo, poi molte donne con ragazzini per mano. Anche il padrino zoppicava un poco, ma poco però: era Gioele Sanna!"

Annarosa balzò in piedi stringendosi al petto i libri per comprimere il palpito improvviso del suo cuore, sebbene dal suo angolo Mikedda gridasse per smentire Gavino.

"Dammi la canna: voglio scacciare le tue bugie. Gioele Sanna non è affatto in paese."

"Ed io ti dico che l'ho veduto; aveva il mantello gonfio così!", insisteva il ragazzo; e correva intorno zoppicando e scuotendo le braccia per accennare gli svolazzi del mantello; finché Annarosa non gli corse dietro, e gli tolse la canna e il gabbano imponendogli di smetterla col suo cattivo scherzo. Poi, accorgendosi d'essere osservata dalla nonna, ella andò nella camera attigua.

E la nonna ricominciò a frugare nella cenere ricordando che questo Gioele Sanna aveva fino a poco tempo prima frequentata la casa, e tutti della famiglia, compresa la serva, si burlavano di lui dicendolo innamorato di Annarosa. Si burlavano di lui perché oltre all'avere un lieve difetto a un piede, era un ragazzo povero e di bassa gente.

Il nonno materno era appunto quel vecchio contadino zio Saba, che aveva perduto una gamba in Crimea, ma era anche reduce di qualche antica condanna per furto.

I ragazzi si burlavano di Gioele anche perché dicevano che aveva ereditato la zoppaggine del nonno.

Il padre, poi, aveva fatto il magnano girovago, specie di zingaro, di quelli che vanno a piedi di paese in paese con paioli di rame sulle spalle. Adesso aveva una bottega di fabbro, in fondo alla strada, e lavorava anche di notte, per far studiare il figlio: ma il passato non si cancella né si spezza neppure a colpi di martello.

E la nonna continuava a frugare e a far dei segni sulla cenere, ricordando che nelle sere d'estate vedeva, dalla sua scranna voltata verso l'uscio, i nipotini aggruppati nel cortile intorno a Gioele che suonava una vecchia chitarra. I capelli lunghi intorno al viso pallido e liscio e certe ghette ch'egli si faceva da sé con strisce di panno gli davano un'aria di trovatore. Non cantava, però, e nel silenzio le note del suo strumento facevano più effetto: a volte vibravano così forti e armoniose che pareva scintillassero e cadessero come stelle filanti.

Annarosa ascoltava seduta sull'orlo del pozzo, o anche sopra il muro del cortile, col viso bianco di luna e una ghirlanda di stelle sul capo; anche la vedova seduta all'ombra del portichetto d'ingresso e i contadini vicini accovacciati sulla soglia del portone aperto ascoltavano in silenzio. Persino lei, la nonna, si commuoveva: era stata giovane anche lei!

Ma appena Gioele se ne andava e le ultime note della chitarra cadevano come gocce di oro nel silenzio della strada, i ragazzi si burlavano di lui, imitando il suo modo di camminare e di suonare, e dicevano ad Annarosa che egli l'avrebbe sposata per condurla in giro per il mondo, lei a cantare, lui ad accompagnarla con la chitarra.

Anche lei rideva, allora; ma adesso che Gioele è lontano e il sogno della fanciullezza finito, adesso piange e non permette che si burlino più di lui.

Non bisogna però diffidare troppo di quel pianto e dei modi bruschi di lei. La nonna sa bene che sono prodotti dell'orgoglio. E la segue con la coda dell'occhio, e la vede andare e venire nella camera attigua, rimettendo i libri e il gabbano del fratellino; e infine avvicinarsi alla finestra sull'orto e star lì ferma a pensare, forse a tentare di calmarsi.

La sua figura si disegnava immobile e scura sullo sfondo della finestra, più alta del profilo dei monti lontani che si staccava bianco e grigio sul cielo verdognolo del crepuscolo e sulle cui cime più alte apparivano e sparivano monumenti di nuvole come fatti di neve e abbattuti dal vento.

Annarosa guardava e pareva calma, intenta solo alle cose di fuori. Vedeva sotto la finestra l'orto grigio, a scaglioni, che scendeva fino allo stradone della valle. Al chiarore glauco del crepuscolo i cardi, i cavoli, le parietarie che coprivano i muri di sostegno, prendevano un colore metallico, e ogni foglia, ogni stelo si agitava al vento. Tutto soffriva, anche nella natura; e questo le dava un cattivo conforto.

D'un tratto spalancò la finestra e vi si sporse: una ondata di vento le batté sul viso, il rumore del torrente della valle balzò fin dentro la stanza da pranzo.

"Annarosa!", gridò la nonna.

Ella chiuse la finestra e tornò ad appoggiarsi ai vetri. L'ombra saliva dalla valle, piccole stelle rossastre apparivano ancora incerte fra le creste basse dei monti, come scintille sprizzanti dal granito percosso dal vento.

Una nota di chitarra tremolò in lontananza. Illusione? Forse una corda del telegrafo che vibrava al vento. Ma a lei pareva proprio di chitarra, e che scendesse di lassù dagli scogli dei monti, gettata dal vento, quella nota che le riafferrava il cuore come un uncino da pesca. Era con quella nota che Gioele, fin dalla loro prima adolescenza, le aveva fatto capire di amarla. Lei lo amava già, così, perché era il solo ragazzo estraneo col quale aveva contatto; così, perché non si può vivere senza amare, e la donna nasce con l'amore nel cuore come la rosa col suo colore.

Un giorno Mikedda le aveva portato una lettera di Gioele. Ella s'era sdegnata; poi aveva risposto.

"Annarosa", chiamò di nuovo la nonna.

"Sì, ho risposto", ella disse fra sé, come terminando un discorso con sé stessa. "E ci siamo parlati, e ci siamo amati. Ma la speranza di sposarlo, no, mai gliel'ho data. E nessuna promessa. So chi è lui e chi sono io. E adesso bisogna finirla. Sì, nonna, lo so, bisogna finirla."

Tornò nella stanza da pranzo. La servetta e Gavino erano andati a portare qualche cosa alla moglie del contadino: ecco la nonna di nuovo sola, immobile nella stanza già scura, con l'aureola della fiamma intorno alla figura nera. Annarosa la guardò intenerita. Dopo tutto la nonna era la cosa più sacra, per lei, la colonna più ferma della sua vita. Le parole della nonna erano tutte vere; erano la verità stessa. E quella sua immobilità, nel silenzio e nella solitudine della stanza quasi povera, quella sua pesantezza di bronzo, e l'aureola del fuoco le davano un aspetto di idolo domestico.

Ma appena si rivide la fanciulla accanto ricominciò a brontolare.

"Tua madre tarda. Buona è, Nina, ma è sempre come una ragazza; si distrae ad ogni mosca che vola. E adesso ecco che non si ricorda di tornare ed è quasi notte."

"L'avete mandata voi, perché mandarla?"

"Come? Non dovevo mandarla a visitare una parente malata? Cristiani siamo: ma tu oggi parli come una giudea."

"Poteva andare domani; non morrà stanotte zia Paschedda; forse neppure quest'inverno!"

"Dio lo voglia; ma intanto è grave, e la presenza di tua madre è necessaria, in quella casa."

"Perché necessaria?", ribatté Annarosa, senza muoversi, senza agitarsi, ma con voce turbata. "Perché? Siamo parenti, ma loro sono ricchi e si sono tenuti sempre lontani da noi: sempre ci hanno fatto sentire la nostra umiltà. Pare abbiano paura che noi si chieda loro aiuto. Perché umiliarsi a loro? Perché? Perché noi non si sta al nostro posto, nonna? Non abbiamo bisogno di nessuno, noi; non abbiamo che il nostro decoro e dobbiamo tenerlo."

La nonna la guardava in viso, così intensamente ch'ella volse gli occhi e tornò a intimidirsi.

"E tu, Annarosa, ci hai badato sempre a questo decoro?"

"Ci ho badato, sì! Che cosa volete dire?"

"Il figlio del fabbro non ha nulla a ridire sul conto tuo?"

Annarosa si drizzò sulla schiena, rossa in viso e con un nodo alla gola; non poté parlare subito: le sembrava d'aver ricevuto alle spalle un colpo che le toglieva il respiro.

"Senti", riprese subito la nonna. "Non che io trovi nulla di disonorante nel fabbro e nel figlio suo; cristiani sono, come noi, e vivono come meglio possono. E il nonno di Gioele, il vecchio Antonio Saba, ha fatto il dover suo, in gioventù; è stato alla guerra ha perduto la gamba; e poi, al ritorno, se ha preso qualche cosa da chi ne aveva, se, diciamolo chiaro, ha rubato qualche pecora o qualche sacco d'olive, lo ha fatto per bisogno, perché non poteva lavorare come un uomo sano. Adesso ha la sua striscia d'oliveto, accanto al nostro, vive sempre là, e se passando negli altri poderi si china a raccogliere qualche oliva lo fa perché è vecchio e i vecchi sono rimbambiti: cioè operano come i bambini, senza sapere quello che si fanno. Insomma, ripeto, il vecchio Antonio Saba e i Sanna vivono come possono; io li onoro e li rispetto come prossimo mio, e, tu lo sai, quando c'è qui del lavoro da fare preferisco Michele Sanna a qualsiasi altro fabbro del paese; onesto e laborioso è, e se ha girato il mondo, in gioventù, lo ha girato per conto suo senza far male a nessuno, anzi industriandosi a guadagnarsi la vita. E anche il suo ragazzo, se ha quel difetto non è colpa sua; è nato così e non lo hanno saputo curare a tempo, perché erano poveri, e i poveri non chiamano i dottori e si lasciano piuttosto cavalcare dal male. Pagati si vogliono i dottori! E il povero denari non ne ha: questo è il guaio. Il ragazzo Sanna è un buon ragazzo, di umore buono; ti dico la verità, quando veniva a suonare la chitarra nel cortile lo ascoltavo con piacere. Adesso sento che continua a studiare con profitto, e queste vacanze scorse quando ancora veniva a visitarci lo ascoltavo parlare con gusto; ragazzo di talento è, e svelto nel parlare. Certo che anche lui avrà il suo posto; ma che posto vuoi che sia? Avrà un impiego, o farà anche il dottore; ma tempo ce ne vuole, e quando uno è così, come lui, di famiglia così, senza beni di fortuna e anche non perfetto di corpo, credi tu che la gente lo consideri e gli affidi buoni impieghi e alti onori? Povertà e cattiva stirpe son cose tristi, Annarò! E tu hai parlato bene, poco fa; ognuno al suo posto, ognuno col suo decoro. Tu sei ragazza ancora e non sai le cose della vita: ebbene, io ti dico che è meglio morire che vivere nell'indegnità e nel bisogno.

"Senti", riprese vedendo Annarosa disposta finalmente ad ascoltarla; "tu mi puoi dire: "E marito vostro non era povero? E noi non siamo poveri?". Anzitutto non è vero; poveri non lo siamo perché da vivere, in casa, ce n'è abbastanza. E mio marito non era povero; poco aveva, ma quel poco ci bastava. E non volevamo diventar ricchi perché, a dir la verità, in quei tempi, pochi ci pensavano; tutto era facile, si viveva con poco; posso dire, quasi, che noi eravamo ricchi con quello che avevamo; i tempi si son fatti difficili di poi, dopo la morte di tuo padre. Mancato lui fu come mancasse un puntello alla casa. Agostino piccolo ancora per capire e lavorare come fa adesso, tua matrigna più bambina di voi; le spese che crescevano e le rendite che diminuivano. Ti dico, in verità, furono due o tre anni di cattiva navigazione. Più di una volta io ho dovuto mettere lo scialle e andare in cerca di denari, per pagare le imposte e anche... anche per vivere... E non sempre trovavo le porte aperte, ragazza mia; più di una volta tornavo a casa con le mani abbandonate giù come quelle di Cristo schiodato dalla croce... Tu, forse, lo ricordi."

Annarosa ricordava: erano stati gli anni più acerbi della sua fanciullezza; e appunto qualche cosa di acre, di tristemente eccitante come una spina rimasta dentro la carne, le teneva sveglio l'orgoglio, al ricordo di quegli anni di adolescenza umiliati dalle strettezze famigliari.

"Ricordo, ricordo!", disse forte, come invitando la nonna a non insistere. "Appunto per quello non bisogna più umiliarsi a nessuno."

"Chi parla di umiliarsi? Quando ci si è umiliati? Se io, in quegli anni di bisogno ho cercato aiuto l'ho cercato con dignità, ed ho pagato i miei debiti al doppio ed al triplo e qualche volta ad usura. E le falle della barca tappate furono. Non è il pane nostro, l'umiliazione. Zio tuo stesso, per disgraziato che sia, non si umilia a nessuno; mangia piuttosto una volta al giorno e va vestito male; ma nulla vuole da nessuno. In fondo non si umilia neppure in casa perché non accetta che lo stretto necessario quello che infine gli spetta dall'eredità del padre."

"Chi domanda nulla a nessuno? Dimmelo tu!", ribatté, alzando la voce irritata, sebbene Annarosa non replicasse più. "Perché matrigna tua è andata a visitare una malata, tu parli così? Sta certa però, se lei non vede buona accoglienza non tornerà a battere a quella porta. È donna che non si umilia davvero, matrigna tua! Testa da ragazza, ancora, a volte, ma con la sua buona parte di superbia. Se tarda a venire, è segno che l'hanno trattata bene. Eccola, dunque."

Col suo passo elastico la matrigna attraversava la cucina già scura; s'avanzò fino al camino, ma non sedette, non si tolse lo scialle. Aveva il viso un po' colorito dal freddo, gli occhi animati.

"Zia Paschedda è grave. È una donna che se ne va. Gli uomini, là, son disperati. Non sanno far nulla. Il vecchio mi ha chiesto se non potrei passare la notte da loro..."

Guardava la nonna, esitando, e la nonna la guardava, di sotto in su, soddisfatta per la buona accoglienza dei parenti, ma diffidente all'idea di lasciarle passare la notte fuori di casa.

La servetta intanto rientrava di corsa, ansante di curiosità, seguita da Gavino.

"Se zia Paschedda muore, davvero che quel lupo di zio Predu riprende subito moglie", disse ridendo.

Le sue parole sventate caddero fra il silenzio generale: tutti però, anche Gavino, pensarono la stessa cosa: se zio Predu si riammogliava, Stefano correva rischio di non prendere tutta l'eredità.

"Puoi andare, Nina, se non ti è di troppa fatica. Siamo cristiani", disse infine la nonna.

"Vengo pure io, così non avrete paura, mamma; prendetemi, mamma", supplicava Gavino; e la servetta sospirò:

"Saremo noi ad aver paura, stanotte, così sole in casa, col padroncino Agostino che rimane laggiù. Mala cosa, la morte!"

La donna, con lo scialle chiuso sul viso, sembrava anche lei spaventata all'idea di passare la notte fuori di casa; ascoltava però, con gli occhi un po' aperti e il viso proteso, come se una voce lontana la chiamasse.

"E datemi un po' di caffè, prima! Là non c'è neppure acqua. Hanno perduto tutti la testa come piccole creature."

"Era lei che guidava ogni filo. Tutta la casa", raccontò, "è in ordine che fa meraviglia: tutto contato, nell'armadio e nei cassetti; tutto messo in fila: e come comandava lei, e aveva tutte le chiavi, gli uomini non riescono a trovare uno spillo. Li teneva "anche lei"", pensò, ma non lo disse, "come bambini. Stefano, grande e grosso com'è, cammina in punta di piedi, e non sa dire due parole assieme, avvocato come è. Zio Predu sta lì, accanto al fuoco, con le mani sul pomo del bastone, e le lacrime gli cadono fino alla cenere. Lei muore e tiene ancora le chiavi sotto il guanciale. No, Annarosa, non mi dare i biscotti; davvero non posso mangiare, ho un nodo alla gola."

La nonna le diede alcune avvertenze.

"Tu non ti coricherai; sta su, accanto al suo letto, a vegliare. Se si aggrava manda subito a chiamare il prete e accendi i ceri. Deve averne una bella provvista di ceri, Paschedda Mura. Donna avara era, Paschedda Mura, ma donna savia. E adesso va, Nina mia, e Dio t'accompagni."

E la donna andò. La serva e Gavino l'accompagnarono fino alla strada, poi tornarono indietro discutendo su quante migliaia di lire possedeva zio Predu Mura.

Forse centomila, forse trecentomila. E una casa grande, e un'altra casa in campagna; e le casse piene di roba, la cucina piena di rame, la cantina piena di botti, la dispensa piena di orci d'olio e di frumento: tutto pieno gonfio da non potercisi muovere.

"Dev'essere un bel pensare, però, in quella casa", disse la servetta, riprendendo il suo posto fra la scranna e il muro. Non ricevette risposta e anche lei tacque, pensierosa. E nel silenzio si sentì di nuovo il soffio del vento e nella cucina scura il frugare e rosicchiare di topo di Gavino.

© Grazia Deledda







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