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L'incendio nell'oliveto
Capitolo 03
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 03

La malattia della parente fu lunga. Nina andava e veniva, e quando la malata si aggravava, passava la notte presso di lei: nei primi giorni pareva quasi si divertisse, tornava a casa col viso fresco, gli occhi ridenti, e raccontava che, sebbene con la febbre alta e in pericolo di vita, zia Paschedda si preoccupava per le cose domestiche e non si fidava che di lei.

"Quando non ci sono io è più grave del solito, benché il vecchio non si muova più di casa. Sta lì seduto sulla cassa, a intagliare una pipa di radica, e quando zia Paschedda va un po' meglio, le racconta storie e storielle. Anch'io lo ascolto con gusto: parla e poi d'un tratto pare si burli di chi l'ascolta, ma le cose che dice sono piacevoli. È un uomo furbo!"

Anche Mikedda veniva ogni tanto mandata a prendere notizie della malata. Al ritorno raccontava le meraviglie e l'abbondanza della casa dei Mura, guardando con malizia Annarosa. Un giorno disse di aver veduto zio Predu a fumare seduto in cucina, mentre la padrona Nina preparava sulle brage del focolare una bevanda calda per la malata.

"Gli occhi gli lucevano attraverso il fumo della pipa, come due stelle fra le nuvole. Sta a vedere che, se muore zia Paschedda, il matrimonio è un altro!"

La vecchia padrona prendeva sul serio le sue chiacchiere e dava avvertenze alla nuora.

"Gli uomini sono tutti uomini. Sta attenta. Forse il vecchio vuol provarti per vedere se sei una donna seria."

La nuora non sorrise neppure, non si sdegnò; anzi si fece seria come per obbedire alla vecchia. D'altronde la malata si aggravava e zio Predu perdeva la voglia di chiacchierare e di scherzare.

"Sta seduto sulla cassa, in faccia al letto della moglie", raccontava Mikedda, "col braccio appoggiato al bastone e la pipa spenta in bocca; aspetta sempre la visita del medico e non si cura d'altro. Sì, è un uomo che vuol davvero bene a sua moglie. E anche il figlio, il dottor Stefene, vuol bene alla madre. Anche lui sta lì, appoggiato al cassettone, col viso fra le mani, e non cessa di guardarla; e che uomo buono è, senza superbia! Va lui ad aprire la porta, se picchiano, e la mattina, dice Lukia, la serva, va lui ad attingere l'acqua dal pozzo per lavarsi. Eppure potrebbe avere, non una ma dieci serve e farsi legare anche le scarpe!"

Poi Nina parve stancarsi del suo andirivieni: tornava a casa pallida, sbattuta, non parlava più. La nonna la guardava scuotendo lievemente la testa come per dirle: "Nina, ti affatichi, lo so, ma è necessario, per il bene della famiglia", e Annarosa aspettava con ansia muta la notizia che la malata migliorasse.

Verso la fine della seconda settimana, la matrigna infatti tornò un giorno col viso più sereno; si tolse lo scialle, lo sbatté, lo ripiegò come non dovesse rimetterlo presto. La malata migliorava.

Annarosa fuggì dalla stanza perché la nonna non si accorgesse della sua gioia; uscì nell'orto, scese di corsa il vialetto che dalla porticina del cortile serpeggiava giù di scaglione in scaglione fino al muro sopra lo stradale.

L'orto era grande, con gli scaglioni sostenuti da muri rivestiti di gramigna. Visto di laggiù dallo stradale, con le case in alto, dava l'idea d'un piccolo bastione.

L'angolo estremo terminava a punta, come la prua d'un bastimento, e guardava sulla valle e sui monti, divisi, l'una dagli altri, solo dalla linea serpeggiante dello stradone, i parapetti del quale, costrutti con macigni, scendevano a picco sui burroni, in alcuni punti così alti che parevano muraglie di fortificazioni.

In fondo la valle s'apriva su valli più ampie che scendevano al mare.

Affacciata sul muro Annarosa aveva l'impressione di vedere davvero il mare tra i vapori dell'orizzonte. Nuvole fitte, chiare, ondeggianti, salivano di laggiù, invadendo il cielo di un azzurro cupo; ma si sentiva già un alito dolce, nell'aria che odorava di erba nascente. Le chine della valle coperte di ulivi apparivano più argentee del solito, e i cavalli al pascolo, fra i lentischi sulle prime falde del monte, nitrivano come fosse già di primavera. Ma i mandorli erano ancor neri e i boschi sull'alto dei monti conservavano il verde tetro invernale.

Quell'ondulare di nubi, di azzurro e di grigio, quella promessa di primavera, si rifletteva negli occhi di Annarosa. Le veniva voglia di cantare o di mettersi a gridare coi ragazzi che, ritti in equilibrio sul paracarri pericoloso dello stradone, giocavano alla fionda, mirando con un occhio solo, tesi ed agili come veri frombolieri. I sassolini che essi lanciavano volavano intorno al contadino che lavorava nell'orto; qualcuno lo colpiva, egli però non se ne dava per inteso; la sua piccola figura si alzava e si abbassava fra la terra smossa, del colore stesso della terra, e la zappa, ogni volta ch'egli la sollevava, si portava con sé un ciuffetto d'erba.

Annarosa gli andò vicino, sfidando i proiettili dei ragazzi, per domandargli come stava la moglie

"Guarirà anche lei. Zia Paschedda Mura pareva morisse; invece adesso sta bene; ed è la stessa malattia di tua moglie."

Egli non smise di lavorare; anzi ficcò con più forza la zappa per terra, smuovendo una rossa zolla che gli si rivolse sui piedi e glieli coprì con la sua onda scura.

"Io ho invece paura che Dio si riprenda mia moglie: ma sia fatta la sua volontà!"

Quel dolore rassegnato, che pareva cadesse fra la terra smossa, come la gioia di lei si spandeva nell'aria mite, le diede quasi un senso di rimorso: ma rientrando a casa trovò la serva dei Mura venuta ad avvertire che la padrona s'era improvvisamente aggravata e desiderava di vedere anche lei.

E anche lei dovette andare. Aveva come l'impressione di un cattivo sogno: camminava a fianco della matrigna silenziosa e le pareva che la casa di Stefano fosse lontana, in fondo ad un bosco, in un luogo triste e solitario. E invero le straducole che bisognava attraversare per arrivarci, strette fra casette di pietra, parevano, nel grigiore della sera fattasi nebbiosa, sentieri tagliati fra rocce e macchie.

Il cortile buio dello zio Predu, circondato di tettoie, l'ingresso della casa lastricato di pietre, la grande cucina con le pareti scure arrossate dal chiarore del fuoco, non distruggevano quest'impressione penosa.

La malata giaceva in una camera bassa, mal rischiarata da un piccolo lume ad olio. Qualcuno stava seduto sopra una cassa antica, come a custodia di un tesoro, col viso nell'ombra. Stefano, pallido e triste, entrò da un'altra camera, salutò le donne, poi appoggiò i gomiti sul cassettone e, col viso fra le mani, stette a guardarle senza parlare. Annarosa non osava volgersi verso di lui, ma lo sentiva lì, grave, alle sue spalle, e contava i minuti per andarsene. L'idea di dover venire un giorno ad abitare in quella casa, che pure non era molto diversa dalla sua, le dava un senso di pesantezza alla testa, una disperazione che le faceva apparire la sua vita tutta eguale a quel momento di sospensione angosciosa.

Per confortarsi guardava la malata: la vedeva, corta e grossa sotto la coperta, con la testa forte fra i capelli ancora neri, muover le labbra violacee e di tanto in tanto sbatter le corte ciglia sotto le palpebre abbassate come spiasse cosa accadeva intorno: e le pareva che col suo corpo robusto potesse resistere al male e salvarsi.

D'improvviso si sentì chiamare da lei: le accorse subito accanto; ma un colpo di tosse gonfiò il viso di zia Paschedda e le impedì di continuare a parlare: solo, con la mano agitata accennava a qualche cosa, finché, non riuscendo a farsi capire in altro modo, afferrò la mano di Annarosa e la introdusse sotto al guanciale.

E sotto il guanciale Annarosa toccò un mazzo di chiavi, che pareva fossero state al fuoco tanto erano calde: e intese che era la consegna di queste che la madre di Stefano voleva farle, cedendole il passo sulla porta della sua casa prima di uscirne lei per sempre.

Al ritorno a casa scrisse a Gioele pregandolo di non pensare più a lei. I giorni passarono. Ella sedeva rassegnata accanto alla nonna, aspettando: ormai, che la madre di Stefano guarisse o no, la sua sorte non mutava: eppure trasaliva ad ogni picchiare alla porta, ed anche ogni volta che Mikedda rientrava di fuori e volgeva verso di lei i grandi occhi vividi nel piccolo viso preoccupato.

Sognava l'arrivo di Gioele, e qualche atto disperato di lui per salvarla e salvarsi. Di notte, quando la nonna non poteva più domandare di lei, s'affacciava alla finestra e s'abbandonava al suo dolore con una tristezza tenera, infantile. Le pareva di avere ancora quindici anni e di aspettare che Gioele passasse, col suo passo lento, col bel viso sollevato e gli occhi rivolti a lei come al solo punto visibile di tutto l'universo. E lei scuoteva la testa, per tentare di sciogliere le sue trecce e lasciarle cadere fino alla strada, come la figlia del Re della leggenda, perché il giovane innamorato potesse servirsene a guisa di scala di seta per arrivare fino a lei.

Un bagliore di fuoco, in fondo alla strada, arrossava l'ombra: spruzzi di scintille volavano con le vibrazioni dell'incudine battuta: pareva si pestasse del cristallo e dell'argento, laggiù; poi in un momento di sosta si sentiva la grossa voce del fabbro che raccontava al ragazzo che tirava il mantice una sua avventura di quando era magnano girovago. Annarosa non se ne umiliava più. Il suo dolore e la sua rinunzia coprivano ogni cosa d'un velo di poesia.

Una sera finalmente nel rientrare a casa dopo aver aspettato il postino all'angolo della strada, Mikedda le tirò di nascosto la manica. Ed ella ebbe l'impressione che fosse il suo passato stesso a costringerla a volgersi indietro; s'accorse però che la nonna la sorvegliava e non si mosse.

Il cuore le batteva fin sulla spalla. Che accade di fuori? Gioele è alla porta? È venuto finalmente per salvarla. Eppure lei ha desiderio di chinare il suo viso sulle ginocchia della nonna e confessarle la sua tentazione di tradire la famiglia.

Quando può uscire nel corridoio, per aspettare Mikedda, s'appoggia alla parete, tanto trema: trema, ma le pare che sia il muro della sua vecchia casa a oscillare sulle fondamenta e che lei sola con le sue spalle sottili lo regga.

Dalla lunetta a vetri della porta di strada piove un barlume di crepuscolo e di luna nuova; e la figurina di Mikedda, che scivola silenziosa lungo la parete traendosi dal seno una lettera, le appare, in quel chiarore glauco, come l'ombra stessa del suo sogno. Prende esitando la lettera, ma subito intravede sulla busta i francobolli: dunque Gioele non è tornato. E corre nella sua camera respirando all'idea che il pericolo di rivederlo è, almeno per il momento, evitato. Ma che accade? Ella siede sul suo lettuccio, con la lettera sul grembo, e la busta bianca comincia a rischiarare con una luminosità iridata la grande camera triste: i vecchi mobili sembrano rimessi a nuovo, lustrati dalla luna, con gli spigoli lucenti, le borchie divenute d'argento; fiori fantastici tremolano sulle pareti; fuori dei vetri brilla un paesaggio leggendario, con montagne azzurre e alberi d'oro e le vibrazioni dell'incudine del fabbro squillano argentine, nel silenzio puro della sera, come i rintocchi d'una campana.

Ma qualcuno saliva le scale ed ella nascose la lettera sotto il capezzale; tutto intorno fu di nuovo penombra.

Seduta sul suo lettuccio, piccolo e basso e come smarrito nella vastità della camera, intorno alla quale, come nel piano di sotto, si aprivano gli usci delle altre stanze, aspettò pazientemente che tutti si fossero ritirati.

Nella cameretta attigua si sentiva Mikedda mormorare, spogliandosi al buio, uno scongiuro contro le tentazioni. Era una specie di discussione fra il diavolo che picchiava alla porta e san Martino che difendeva gli abitanti della casa: la voce della serva si faceva esile nell'imitare quella del santo e rauca quando ripeteva le parole del demonio; e quando questo, pure sbuffando e scalpitando, dovette andarsene, ella singhiozzò tutta turbata; poi tacque, poi si stese sul suo letto e sbadigliò.

Allora Annarosa allungò la mano sotto il guanciale e cominciò a trarre la lettera, piano, piano, trascinandola come un corpo pesante; se la rimise in grembo, la guardò con tenerezza e con paura, come si guarda un moribondo; piano piano come per non farla soffrire, lacerò la busta: e non osò sollevare i foglietti ma vi si piegò sopra, e le parve che le linee irregolari e serpeggianti della scrittura, coi caratteri contorti, a uncini, le si attaccassero alle dita, l'avvolgessero tutta come tralci di rovi.

Gioele le proponeva di fuggire assieme.

So che ti vogliono vendere. Ma tu non accetterai. Tu mi darai ascolto.

Tu non mi hai promesso mai nulla, perché io non ti ho chiesto mai nulla. La speranza però ci portava, come una barca fragile nell'oceano infinito.

Adesso mi vuoi buttare via, e non ti accorgi che sei tu che affoghi.

Ma tu mi darai ascolto; perché adesso non è più il povero Gioele che ti parla, ma il tuo istinto stesso della vita, il tuo diritto alla gioia.

Tu vuoi sacrificarti per la famiglia; ma chi è poi la tua famiglia? È la tua nonna, già morta, che vi tiene legati tutti intorno al suo cadavere di ferro come ad un pernio. È lei, la vera rappresentante della tua razza, paralizzata dalla vecchiaia e dalla sua stessa immobilità.

Tu vivi ancora in una grotta preistorica e non te ne accorgi; quando vorrai sollevare la pietra che ti copre non ne avrai più la forza. Bisogna farlo subito, adesso.

Io sono povero, ma sempre meno di te; la mia casa è più bella della tua, la mia vigna è più bella della tua.

Vieni con me. Ti aspetterò alla tua porta, tutte le notti; ma bisogna che tu trovi la forza di uscire sulla tua porta. Ti aspetto.

Ella prese il suo scialletto e se lo gettò sul capo; coi lembi si asciugò le lacrime, poi subito si nascose il viso atterrito.

Il desiderio di scendere alla porta la vinceva.

"Vattene, vattene", disse a voce alta.

Ma col pensiero scendeva le scale, apriva. Il vento penetrava nell'atrio, riempiva col suo ansito tutta la casa. E Gioele era lì, sulla soglia, col suo mantello, i lembi del quale s'aprivano come due ali e la portavano via.

In fondo ella ricordava bene ch'egli era zoppo e che la realtà sarebbe stata diversa dal sogno.

Dove l'avrebbe condotta? No, la sua casa non era bella altro che in sogno e vigna egli non ne possedeva. A meno che non accennasse all'oliveto di zio Saba.

Eppure, continuava a seguirlo col pensiero, piangendo entro il suo scialletto.

Scendevano il viottolo che porta alla valle: la luna rischiarava il paesaggio solitario, alta in fondo allo stradone che taglia il fianco della montagna, sospesa sopra la lontananza azzurra, tra valle e valle, dove pare che la terra finisca e cominci il mare. Laggiù, fra l'azzurro, gli oliveti argentei imitano l'ondeggiare dell'acqua alla luna. Laggiù è la vigna di Gioele, con la casetta di granito dal tetto spiovente, un albero accanto e sotto l'albero un sedile di pietra coperto di musco.

"Come sono sciocca!", disse a voce alta, scuotendosi.

Si tolse lo scialletto, poi se lo rimise. Desiderava di scendere alla porta solo per vedere se c'era Gioele e dirgli ch'era inutile aspettare: ma aveva paura anche di questo.

"Vattene, vattene", ripeté, riavendosi del tutto, "io penserò sempre a te, ma non voglio il danno e il dolore della mia famiglia."

Infine si fece coraggio e socchiuse la finestra: vide che la strada era deserta, la porta solitaria. Il vento le accarezzò con violenza il viso, parve le volesse portar via le impressioni del sogno. Allora per vincere anche la tentazione di rileggere la lettera la fece a pezzetti: e il vento glieli portava via di mano come i petali di un fiore che si sfoglia.

© Grazia Deledda







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dal 2020-10-19
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