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L'incendio nell'oliveto
Capitolo 10
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 10

Poi anche lei risalì, piano piano, e andò a mettersi al solito posto accanto alla nonna. Vedeva di là in cucina Mikedda che rifriggeva per la cena gli avanzi del banchetto della sera avanti, e fra i pilastri del portichetto la matrigna che ormai rassicurata aveva lasciato la stanza e andava e veniva nel cortile: ed esitava a parlare, ma sentiva che bisognava farlo, subito. La sua esitazione le dava un senso d'angoscia. Le pareva di affogare, nell'ora che passava, nell'ombra che si addensava: nuotava, ma perdeva forza, e ogni attimo di silenzio l'allontanava dalla riva.

"Se non parlo subito non posso più dirle tutta la verità", pensava, "e lei non potrebbe più capirmi e compatirmi."

La nonna stava ferma e silenziosa nella penombra, con accanto la canna che pareva un cero spento: doveva però indovinare la pena di Annarosa e aspettare ch'ella parlasse, perché d'un tratto s'impazientì e cominciò a passare l'indice della mano sana sulle vene della mano inerte, come seguendo così un suo pensiero. Si volse, vide che anche Mikedda era uscita nel cortile.

"È andato via presto, oggi, Stefano", disse allora con la voce grossa dei cattivi momenti; "bisticciati vi siete? Aveva un brutto viso. E tu non l'accompagnavi."

"Bisticciati ci siamo, sì. La colpa è stata mia; anche lui però è nervoso. Bisognava bisticciarsi pure, una volta o l'altra. Nonna..."

Si fermò. Sentiva il suono falso della sua voce e le pareva di aggrapparsi alle sue parole come a dei frantumi nuotanti che le sfuggivano di mano. Il pianto la soffocava, più amaro dell'acqua del mare; ma non voleva andare a fondo, no; si scosse tutta, come facendo davvero un ultimo sforzo per salvarsi, e non guardò più in là. Che importa se ascoltano? Il suo segreto ormai appartiene a tutti.

"Nonna, la promessa di matrimonio è rotta."

La nonna aspettava queste parole; eppure afferrò con un improvviso movimento d'ira la canna e la batté sulla pietra del camino: così zio Predu aveva battuto il suo bastone. Annarosa però respirava già di sollievo.

"Nonna, non vi arrabbiate", disse fermandole il polso, e chinandosi a parlare sottovoce. "È così. Sono io che l'ho mandato via. Sono io che non voglio più sposarlo."

E le fermò più forte il polso perché la sentiva tremare tutta e vedeva la sua bocca torcersi e gli occhi spalancarsi nel viso convulso. La nonna però la respinse e cominciò a gridare:

"Sono io che devo decidere, non tu, no! E quella faccia dura di Stefano deve parlare con me, prima di ascoltarti. E se ne è andato così, senza dirmi niente! Ha creduto di scivolare lungo il muro? E anche il padre, il vecchio tronco, deve parlare con me. Sono qua... Sono qua io."

La sua voce risuonava rauca, forte: una voce che Annarosa non le aveva mai sentito e che la spaventava. E il suo spavento crebbe per i movimenti convulsi che la nonna faceva tentando di alzarsi.

"Nonna, che fate? Nonna mia!"

Si protese su lei, la cinse con le braccia, per tenerla ferma, le abbandonò il viso sul grembo e scoppiò in un pianto soffocato, fitto di gemiti repressi: gemiti che la nonna si sentì penetrare nelle viscere e che parvero calmarla più che ogni altra spiegazione di Annarosa.

"Taci", mormorò infatti, come se già fra loro esistesse un'intesa segreta; "non farti sentire qui. Aggiusterò tutto io."

Annarosa pianse più forte, affondandole il viso sul grembo e scuotendo la testa per accennare di no, di no. No, la nonna non poteva capire, non poteva aggiustare nulla: eppure le pareva di aver salvato qualche cosa poiché la nonna non la respingeva, anzi le prometteva la sua protezione; e credette di sentire la voce stessa del suo cuore nella voce ancora grossa che le diceva:

"Stefano tornerà. E tu, anima mia, se tu piangi è perché gli vuoi bene. Lo hai respinto per superbia e per gelosia; ma s'egli ti fa piangere non lo dimenticherai più. Alzati, adesso."

Ella si sollevò e vide la matrigna che parlava nel cortile con una strana figura di vecchio che aveva una gamba sola e l'altra sostituita da un bastone ferrato intorno al quale ondulava il gambale di una larga braca di tela mentre l'altro gambale era ripiegato entro la ghetta di orbace: inoltre teneva un sacco di erba sulle spalle e pareva anche gobbo: e parlava forte come fanno i sordi.

"Vengo dal mio chiusetto della valle e vi porto un'ambasciata di Agostineddu vostro. Oh, donne, non aspettatelo stasera, perché dorme laggiù. E anche Juanniccu è laggiù; non aspettate neppure lui. Ebbene, datemi almeno da bere."

Senza essere invitato entrò portandosi fin dentro la stanza il sacco che odorava di fieno e di menta.

Nina lo seguiva, d'un tratto impallidita.

Anche la nonna, mentre il vecchio ripeteva la sua ambasciata, volgeva il viso scuro per l'angoscia recente; e la nuova pena s'aggiunse alla prima come una nuvola all'altra.

"Che dici? Li hai veduti?"

Il vecchio non sentiva: si guardava intorno e biasimava l'oscurità della stanza.

"Eppure olive ne avete raccolte più di me, l'inverno passato: e che forse l'olio vi è colato dagli orci? O volete risparmiare quello del lascito a Santa Croce? E almeno dammi da bere", aggiunse, rivolto alla serva, "il vino almeno costa meno dell'olio. Se non l'ha bevuto tutto Juanniccu."

"Li hai veduti?", ripeteva la nonna con ansia crescente.

"Zio Saba, li avete veduti i miei padroni?", gli urlò Mikedda all'orecchio. "Come li avete veduti?"

"Perché gridi così? Sei sorda? Li ho veduti, sì, più che non veda voi in questo buio. Lavoravano, tagliavano i rami secchi degli olivi. Sì, donna Agostina. Oh, adesso vedo anche vossignoria, Dio la guardi; ebbene, come sta? Che fa, lì seduta? Se sto su io, con un piede e due bastoni, tanto più deve stare su lei, con due piedi e un bastone. Ebbene, dunque, torna la guerra: se Dio mi aiuta ci torno anch'io, coi miei settantott'anni nella bisaccia. Una gamba l'ho perduta in Crimea; l'altra la voglio perdere sulle Alpi. Salute!"

La sua voce ancora forte risuonava nella stanza, fra il silenzio angoscioso delle donne. Al chiarore del lume che Mikedda aveva acceso, la sua figura deforme con la gamba ferrata come una zampa dl cavallo, la barba di fauno intorno al viso aquilino tutto raggrinzito come un'oliva secca, gettava sulla parete un'ombra fantastica più animalesca che umana.

"Tu li hai veduti", ripeté per la terza volta la nonna, come non avesse sentito la risposta.

Egli sollevò il bicchiere:

"Alla salute di tutti. Così Dio mi aiuti, torno alla guerra. Torno, torno! Che cosa è questo tornare, del resto? La guerra c'è sempre stata e ci sarà sempre. Io ci sono dentro da settantotto anni, donna Agostina. Dunque, beviamo."

Bevette ma non restituì il bicchiere finché Mikedda non glielo riempì.

"Non importa che Agostineddu mi abbia qualche volta mancato di rispetto", disse allora con voce intenerita. "Siamo vicini, quindi come parenti. Anche fra parenti ci si bastona; so io quello che voglio dire. Bene gli voglio, io, ad Agostineddu, come fosse mio nipote stesso, Gioele mio."

"Oh", disse poi, restituendo il bicchiere; "ragazzo di talento è, Gioele; non da meno di nessuno. Anche lui mi maltratta, a volte, perché i giovani trovano sempre da ridire dei vecchi, ma mi vuole bene, anche! Il giorno di Pasqua lo ha passato con me, all'oliveto."

Annarosa trasalì: dunque non aveva sognato. Le parve, anzi, che il vecchio la guardasse, come l'aveva guardata il padre di Gioele nell'annunziare l'arrivo del figlio; ma subito cercò di nascondere il suo turbamento e accennò a Mikedda di far andar via zio Saba.

"È pazzo", disse Mikedda facendo delle smorfie; tuttavia lo accompagnò curiosa, domandandogli notizie della guerra. "Che ne dite voi, il mio Taneddu sarà richiamato?"

Si udiva nella strada la sua voce alta e il rumore della gamba ferrata che batteva il selciato: dentro, le tre donne parvero aspettare a chi di loro prima parlava; poi la nuora fece un movimento istintivo come per allontanarsi, per fuggire, ma la nonna la fermò, chiamandola per nome, con la voce ch'era di nuovo quella dei momenti di comando.

"Caterina!"

Eppure aveva un'impressione di smarrimento, la nonna, come se una fitta nebbia la circondasse, e in quella tenebra molle e paurosa i membri della sua famiglia si sperdessero, si smarrissero nel pericolo, lasciandola sola.

Bisognava richiamarli, come il pastore richiama il gregge sbandato nella nebbia.

"Nina, tu non sai niente cosa sia andato a fare Juanniccu laggiù?"

La donna stava dritta accanto alla tavola, ferma, già di nuovo apparentemente calma.

"Non so niente. Non l'ho più veduto da questa mattina presto."

"E tu, Annarosa?"

"Io non l'ho neppure veduto."

"Egli non va mai laggiù; qualche cosa dev'essere accaduto."

"Che cosa volete sia accaduto? Agostino lo avrebbe mandato a dire: avete sentito, lavoravano nell'oliveto."

"Juanniccu non è buono, a lavorare."

"Forse ci sarà del bestiame che pascola, e Agostino l'avrà pregato di aiutarlo a stare in agguato, stanotte."

"Juanniccu non è buono a stare in agguato, lui! No, qualche cosa di nuovo c'è."

Tacquero. Ma tutte e tre pensavano la stessa cosa. Pensavano che Agostino doveva aver costretto lo zio a scendere al podere per chiedergli spiegazione delle sue parole, e lo teneva laggiù per impedirgli di parlare oltre. Troppo tardi, pensava la nonna. E Annarosa, non ostante la sua pena e la sua umiliazione, sentiva un sorriso ironico fiorirle sulle labbra ancora amare di pianto.

L'altra stava immobile in mezzo alla stanza.

"Ascoltatemi", riprese la nonna, con la voce rauca che tremolava, "mala giornata è stata oggi, per noi. La tentazione è entrata in casa nostra e ci succhia il sangue come il vampiro. Ebbene, rimedio bisogna porre; e subito."

Annarosa tentò di calmarla nuovamente.

"Ma state quieta, nonna! Che volete sia accaduto? È come dice la mamma; vedrete."

"Non è questo soltanto, anima mia; laggiù sono due uomini e si aggiusteranno fra loro, anche se vogliono farsi del male. Ma la radice del male è qui, in casa. Nina, nuora mia, sai che tua figlia ha rotto il matrimonio?"

La nuora non rispose subito; pareva sapesse già anche lei, e non si sorprendesse e non disapprovasse. Annarosa si sentì offesa da questo silenzio, attanagliata da un morso di gelosia.

Pensò che Stefano, nell'andarsene, avesse scambiato qualche parola con la matrigna, per avvertirla dell'accaduto. Poi sentì un'angoscia atroce del suo sospetto; si piegò come punta da un dolore fisico acuto. Che male era il suo, oramai! Subito però si rialzò, come lo stelo dell'erba al vento, più ferma nella sua decisione di guarire del suo male sradicandolo.

D'altronde la matrigna parlava calma, d'una calma accorata.

"Perché hai fatto questo, Annarosa?"

"Perché dovevo farlo."

"Così, senz'avvertire?"

"Se avvertivo era lo stesso."

"Tu, almeno, vorrai dire perché lo hai fatto."

La sua voce tremava, adesso, ma era umile; domandava e non imponeva.

"Ebbene", disse Annarosa, sollevando il viso a guardarla, "ho fatto così perché la coscienza mi ordinava di farlo. Io non gli voglio bene", aggiunse reclinando il viso, vinta dall'atteggiamento fermo della matrigna.

"Sciocchezze, Annarosa. È un capriccio che ti passerà."

E la nonna sospirò, sollevata; sospirò così forte che Annarosa balzò, col cuore gonfio di ribellione, portata ancora via dal soffio del suo orgoglio.

"Un capriccio! Sì, tutto è capriccio, in questa casa, tutto, anche le cose più serie. Anche la verità. E sia pure un capriccio. Io non voglio sposare Stefano."

"Dovevi pensarci prima."

"Come potevo pensarci, se non me lo permettevate? Era una cosa decisa, anche senza il mio consenso. Contavo, io? Ero come una sciocca, d'altronde: credevo di poterlo davvero sposare, così, per interesse, per obbedienza alla famiglia. Adesso, no, adesso no; non voglio più."

Allora la nonna impose alla nuora:

"Ma diglielo tu, Nina, che cessi subito di parlare così".

"Annarosa, tu ci penserai: tu non vorrai la rovina tua."

"Appunto perché non voglio la mia rovina. Oh, cessate; è inutile tormentarmi. Io ho pensato e ripensato: così pensassero tutti ai loro atti, prima di compierli!"

"Era dunque meglio che tu pensassi bene ai tuoi prima di accettare. Adesso è tardi; tu rimarrai compromessa, tutti diranno che egli ti ha lasciata. Che vergogna non sarà questa? Tu vuoi rovinare la famiglia, Annarosa. Perché fai questo?"

"La famiglia!", gridò lei; poi abbassò la voce e ripeté a sé stessa, con lieve disprezzo: "La famiglia, oh!".

La nonna impugnò la sua canna. Aveva voglia di battere Annarosa, di urlare contro la nuora che parlava fredda e forse nell'oscurità della sua coscienza era contenta del disastro.

"La famiglia, sì. Tutto, si fa, per la famiglia. I figli sono obbligati alla madre e al padre, e questi ai figli: e i fratelli ai fratelli. Senza di questo non si vive: è come l'albero, col tronco che sostiene i rami, ed è nulla senza di essi: e una foglia fa ombra all'altra. Lo dice anche la Bibbia."

"Oh, per carità, lasciate la Bibbia in pace, nonna: la vita è altra cosa!"

Ma la nonna non le permise di proseguire: la sua voce ridiventò rauca, la sua persona tentò ancora di sollevarsi.

"Annarosa! Taci! Sei fuori della legge di Dio. Vattene, che io non ti veda più. Vattene, dunque, e va e corri per le strade del mondo, poiché la famiglia non esiste più per te."

"E tu, nuora", gridò con voce convulsa, dopo aver respirato con ansia; e le parole le si ingarbugliavano in bocca: "pensa ai casi tuoi... tu... pensa a scacciare il peccato di casa nostra, perché già il Signore ci maledice...".

La donna si accostò, lentamente, spandendo davanti a sé la sua ombra tremante: pose la sua mano sulla spalla della vecchia e si chinò.

"Calmatevi", disse con un filo di sdegno nella voce. "Annarosa non darà dispiacere alla famiglia: domani tutto si aggiusterà. Stefano tornerà."

"Stefano non tornerà, mamma."

"Egli tornerà", ripeteva la matrigna rivolta alla nonna, come facendole una promessa.

"Mamma! Egli non tornerà; non deve tornare. Mamma, non deve tornare!"

Era un grido disperato, che domandava aiuto. E la matrigna lo sentì serpeggiare nel suo sangue, e tremò tutta come la sua ombra. Poi si sollevò, con la mano ancora sulla spalla della nonna, appoggiandosi a lei: ma non parlò più.

Rientravano Gavino e la serva, parlando fra di loro del vecchio reduce; lo avevano accompagnato fino alla sua casupola, e il ragazzo ne rifaceva i gesti e il modo di camminare, mentre Mikedda ricordava ancora una volta come spesso giù al podere Agostino trovava, là dove mancavano le olive, l'impronta di un piede solo e d'un bastone...

"La vita è sempre guerra, padrona mia!"

La nonna non badava a loro. Era ricaduta nella sua immobilità pensierosa: era troppo immobile, però, troppo pensierosa; e la nuora e la nipote la guardavano con inquietudine. Quando si trattò di condurla a letto, entrambe le si avvicinarono quasi furtive, come paurose di un nuovo scatto di lei o con la speranza di poterla prendere e portare a letto senza che ella se ne accorgesse.

"Nonna", mormorò Annarosa, chinandosi a raccogliere la canna caduta sulla cenere, "è già tardi."

La nonna sollevò gli occhi e le guardò, prima l'una e poi l'altra, con uno sguardo nuovo in lei, fisso eppure vago, come stentasse a riconoscerle: poi abbassò la testa e ricominciò a passarsi l'indice della mano sana sulle vene della mano inerte.

Tentarono di sollevarla. Invano. Pareva una statua di bronzo. Tentarono, con più forza. Allora ella diede un grido che le fece irrigidire.

"Non mi toccate!", impose.

"Nonna!", supplicò Annarosa, accostandole il viso al viso.

Ma la nonna si volgeva in là, con un moto di repulsione.

"Vattene, non mi toccare, tu. Sei fuori della legge di Dio e non hai più parenti, tu. Dubiti della tua stessa madre, tu."

"Sì, questo è lo scettro che mi date", aggiunse, respingendo la canna che la nuora tentava di rimetterle in mano. "Come a Cristo: per burlarvi di me. Vattene via anche tu. Eri un'orfana e ti ho accolta come la vipera nel nido, per morderci tutti."

La donna si sollevò, coprendosi gli occhi con una mano; con l'altra fece cenno ad Annarosa di andarsene, di tacere.

Ma neppure il loro silenzio placava la nonna; e qualche cosa di minaccioso e di oscuro come il brontolare lontano del tuono era nelle sue parole sommesse e cupe.

"A letto, mi volete condurre? E in due, anche, volete sollevarmi, come la brocca colma. Notte di vegliare, è questa, non di dormire. Il fuoco cova intorno, ma non mi coglierà nel sonno: dormite voi, voi che dormite anche se la stoppia del vostro letto brucia. Io aspetto mio figlio; idiota è ma non traditore. Vivo o morto l'aspetto."

"E impazzita", pensò Annarosa, e lei stessa si sentì presa da un senso di delirio. Corse fuori nel cortile e ne fece il giro come cercando un varco dove fuggire. Le parole della nonna la perseguitavano. "Sei fuori della legge di Dio e dubiti della tua stessa madre." Infine s'appoggiò al pozzo e ricordò le sere innocenti quando Gioele suonava la chitarra ai suoi piedi e le stelle accompagnavano col loro fiorire di luce il puro germogliare del suo primo amore.

Ed ella aveva riso, del suo amore, lo aveva ucciso come da bambina uccideva le farfalle del suo orto. Dio la castigava per questo. L'apparizione stessa del nonno di Gioele le sembrava fatale.

Le tornavano in mente anche le parole di zio Predu. Tutto si sconta, anche i delitti contro noi stessi.

Che fare, adesso? Dove fuggire?

Ormai Gioele era un fantasma: la realtà era Stefano, ma una realtà fatta delle cose più tristi della vita; il sospetto dell'inganno, la gelosia, la vergogna.

"Non voglio, non voglio!", gemette; e cominciò a scostare l'asse che copriva il pozzo. Il luccichìo nero dell'acqua in fondo le parve il riflesso dei suoi occhi disperati.

Ma subito sentì alle sue spalle come un rapido sbattere d'ali, e due mani convulse afferrarla.

"Annarosa", chiamò la matrigna; e le si abbandonò sulle spalle, come per fermarla meglio col peso del suo corpo; "dimmelo tu che cosa devo fare perché tutto cessi. Dimmelo, dunque, dimmelo tu!"

Annarosa cominciò a tremarle tutta fra le mani, come un uccellino spaurito; ma che cosa doveva dire?

"Vuoi che vada via di casa? Andrò lontano, che tu non senta più neppure il mio nome. Abbandonerò mio figlio. Tutto; ma che la pace torni in casa nostra."

"Annarosa", riprese Nina dopo un momento di silenzio, parlandole all'orecchio, "dubiti di me perché sei stata capace tu, di tradimento. La sera di Pasqua sei uscita sulla porta, per vedere l'altro, mentre avevi appena accettato il dono di fidanzata. Io ti ho veduta, Annarosa; e avrei potuto sollevare gli occhi e guardare senza rimorso, in quel momento, l'uomo che ingannavi. E invece ho pensato che io ero al posto di tua madre, Annarosa; e sono uscita nella strada, appena tu sei rientrata, e ho raggiunto Gioele."

Annarosa sollevò la testa e s'irrigidì tutta: la matrigna la sentì come assottigliarsi e allungarsi fra le sue mani.

"Raggiunto l'ho, e gli ho parlato come ad un figlio, come parlo a te adesso. "Gioele", gli dissi, "vattene; Annarosa è seduta presso l'uomo del quale ha accettato la fede. Tu sei un ragazzo ancora, ma hai la coscienza d'un uomo; Annarosa non può essere tua." Ed egli mi promise di andarsene, di non cercarti più. Annarosa, s'io volevo tradirti con l'altro, potevo fare così?"

"Voi mi avevate già tradita", disse Annarosa.

Allora la matrigna le appoggiò la fronte sulla spalla e pianse. Quell'abbandono, quei singhiozzi quasi virili, scossero Annarosa fino alle radici dell'anima.

"Lasciatemi, mamma: sono tranquilla", mormorò e rimise l'asse sopra il pozzo.

La matrigna tornò presso la nonna, e aspettò. Che cosa aspettava? non lo sapeva: solo sapeva che non c'era da far altro che aspettare. Passerà la notte, tornerà l'alba, e poi altri giorni e altre notti ancora; la vita riporterà le sue calme e le sue tempeste come il mare le sue; ma nulla ci sarà più per lei, tranne che di stare ferma al suo posto e aspettare: così forte e piena di vita restar ferma nel suo cantuccio come una bimba in castigo.

Eppure la sorreggeva l'orgoglio di trovarsi lei sola, quella notte, accanto alla nonna, come un suddito fedele accanto al suo re detronizzato. Forse anche gli altri tornerebbero ma dopo aver disertato il loro posto; lei sola era lì, ferma alla catena del suo dovere.

© Grazia Deledda







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dal 2020-12-11
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