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L'incendio nell'oliveto
Capitolo 13
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 13

D'improvviso fu bussato forte al portoncino. Mikedda guardò con terrore, poi tese la mano tentando istintivamente di fermar l'uomo che s'era subito alzato e andava ad aprire.

Apparve Annarosa, stravolta, con gli occhi spauriti, facendo dei cenni concitati perché la serva si alzasse e la seguisse: Mikedda però si considerava oramai fuori d'ogni servizio: le pareva che un largo spazio di tempo, con molte vicende buone e cattive, fosse trascorso dopo che la padrona piccola l'aveva costretta a nascondersi là dentro: e stentava quindi ad alzarsi, come uno che sta bene al suo posto e non intende d'abbandonarlo.

Ma il contadino le ordinò di andare.

"Muoviti dunque! C'è bisogno di te."

Era lui il padrone, adesso; ed ella obbedì. Si alzò, appoggiando la mano alla pietra ancora calda di lui, e quando fu in piedi si scosse le vesti e fece alcuni passi lungo il muro guardando Annarosa come non l'aveva mai guardata, con occhi arditi, quasi con superiorità. Quando però furono nella strada, la padrona cominciò a spingerla davanti a sé, verso il portone.

"Presto, presto. La nonna sta male. Gavino le ha detto che tu non sei andata al podere."

La spinse dentro il portone e lei rientrò per la porta, e arrivò nella stanza da pranzo che già Mikedda, dopo aver attraversato di volo il cortile s'era inginocchiata davanti alla nonna e le accarezzava la mano raccontandole con voce ansante d'essere stata laggiù, di aver veduto il padrone Juanniccu e il padroncino Agostino, e che tutti e due stavano bene, seduti al fresco sotto il noce in riva al torrente.

Ma la padrona aveva uno strano aspetto, con la bocca storta che pareva sorridesse amaramente; e guardava fisso nelle pupille la serva, senza parlare, con uno sguardo che penetrava fino all'anima e vi leggeva la verità.

Allora Mikedda si sollevò; vide Annarosa che andava su e giù smarrita per la stanza e le si mise dietro mormorando:

"Io vado all'oliveto; voglio obbedire alla mia vecchia padrona."

E prima ancora che Annarosa potesse impedirglielo, era già in fondo alla strada.

Ma Annarosa non pensava a trattenerla, e non sapeva fermarsi neppure lei, portata su e giù dalla sua angosciosa incertezza.

L'ora in cui Stefano usava venire era passata da molto. Egli non tornava; non sarebbe tornato mai più, s'ella non lo richiamava. E lei sapeva che il male della nonna era questo: camminava, camminava, come per calpestare gli avanzi della sua pietà, del suo amore per la famiglia; per provare a sé stessa ch'era libera di muoversi, di dominare il suo terrore. Ma quando tornava verso il camino e vedeva la nonna piegata su sé stessa, la canna per terra, e la matrigna col viso invecchiato e indurito dal dolore, si sentiva oscillare, urtata dall'impressione di aver tutto rotto davvero, intorno a sé, della sua casa, e di camminare sulle rovine.

D'un tratto fece il giro della stanza e andò ad abbattersi accanto al focolare come l'uccellino che dopo aver tentato il primo giro di volo ricade stordito nel nido.

Dall'altro lato la matrigna tentava invano di far prendere qualche cucchiaino di latte alla nonna: questa non diceva di no, non si muoveva più, ma lasciava che il latte le colasse giù dalla bocca lungo il mento fino al petto. La nuora l'asciugò col suo grembiale, poi si lasciò anche lei cader seduta sulla pietra del focolare, con la scodella in grembo, sospirando. Era stanca, era vinta anche lei.

E stettero lì, le due donne giovani, stroncate dal loro dolore, ai piedi del vecchio tronco, come due rami divelti.

E quel tramonto che non finiva mai, che scendeva sulla loro casa come una notte polare, col sole basso che non doveva mai sparire e mai risalire sull'orizzonte, e la cui luce rosea, d'un roseo freddo, fermo, desolato, era più tetra d'ogni tenebra! Venisse la notte, e dopo la notte un altro giorno, e la fine dell'attesa e l'oblìo!

Invece si aspetta ancora, pure sapendo che tutto è finito. Lo stesso gattino, immobile sullo spigolo della tavola, fissa i vetri riflettendo negli occhi verdi quel chiarore triste di orizzonte marino. Nessuno arriva. Una solitudine d'isola deserta è intorno alla casa. Solo più tardi il contadino domandò di vedere la vecchia padrona; e invano tentò anche lui di farla parlare; pareva diventata sorda e muta, con i soli occhi ancor vivi nel viso cadaverico. Egli disse quasi severamente alle due donne:

"Perché non la mettono a letto?"

Allora, aiutate da lui, la sollevarono e la portarono nella camera: ella non faceva più resistenza, con le mani penzoloni e i piedi che strascicavano sul pavimento; ma quest'abbandono accresceva il segreto terrore delle donne. La fecero sedere e Annarosa le tolse le scarpe e le calze, le toccò i piedi, bianchi, freddi e pesanti come di marmo. Le sfilarono il corpetto, la sollevarono ancora per far cadere la sottana; e nella sottoveste bianca corta, con la sua trecciolina d'argento intorno alla nuca, apparve piccola e docile come una bambina: ma era tutta pesante, fredda e pesante come di marmo, e le due donne giovani la sentivano gravare su di loro, già morta eppure ancora viva come non lo era mai stata.

Il contadino pregò Annarosa che si degnasse di uscire un momento nel cortile e di ascoltarlo.

"Padroncina, se me lo permette le dico una cosa: perché non manda a chiamare il medico? Se lei non si offende aggiungo un'altra cosa: mi pare che la padrona Agostina stia male."

"È tranquilla."

"Troppo tranquilla. Non parla, lei che parlava sempre! Se mi permette le dirò anche: poiché non ci sono gli altri uomini in casa perché non manda a chiamare il suo fidanzato?"

"Vedrò", ella disse freddamente; e dopo averlo fatto uscire corse nell'orto. Aveva paura di rientrare in casa, aveva paura di chiamare il dottore: che poteva fare il dottore? E si ostinava a dire a sé stessa che il male della nonna era passeggero: un po' di riposo e tutto passava. Ricordava la prima volta che la nonna era stata colpita dal male; una mattina d'inverno, anni avanti, stava seduta così, anche allora, davanti al fuoco, e dava ordini alla serva: d'improvviso aveva stralunato gli occhi pur continuando a parlare ma con sillabe incerte come fanno gli ubriachi; poi aveva tentato di rialzarsi ed era ricaduta, e per due giorni non si era mossa né aveva più pronunziato parola.

Anche questa volta accadrà così. Ma quel freddo e quella pesantezza dei piedi le davano ancora un'impressione di morte. E sentiva bene che era corsa nell'orto per consigliarsi meglio con sé stessa e con le cose intorno.

E tutte le cose intorno lucevano nel crepuscolo; anche le ombre avevano un riflesso d'argento, e il cielo già di un glauco scuro, ad ovest vibrava ancora di bagliori dorati: gli occhi del giorno s'aprivano ancora nel sogno della sera.

Un'aureola d'argento circondava la casa nera: una stella brillava tra il fumo azzurrognolo del comignolo e pareva una scintilla uscita dal camino.

"È l'anima della nonna che se ne va. Ella non si potrà mai più sedere accanto al fuoco, non potrà più prendere la sua canna", pensò Annarosa, e risalì singhiozzando come se la nonna fosse già morta.

Vide la matrigna ferma fra il letto e la parete, così immobile che sembrava un'ombra sul muro, con la testa avvolta dal fazzoletto che usava per uscire: l'espressione del suo viso s'era fatta ancor più dura e severa: rassomigliava stranamente alla nonna, della quale pareva avesse già preso il posto.

"Ella aspetta che le dica di andar a richiamare Stefano", pensò Annarosa.

Sedette accanto al letto e piegò il viso sulla mano che la nonna aveva messo fuori della coperta. Ricordava i giorni quando tornava da confessarsi e baciava quella mano per chiedere perdono dei suoi peccati e promettere una nuova vita d'elevazione: e un senso d'ebbrezza le veniva da quel bacio più che dalla comunione stessa con Dio.

Anche adesso la baciava per chiedere perdono e promettere una vita nuova: ma non poteva, non poteva dare alla matrigna l'ordine che questa aspettava.

E la nonna non si placava. Respinse il viso di Annarosa e ritirò la mano sotto la coperta.

E il tempo passava e nessuno veniva. Solo Gavino era rientrato e guardava dall'uscio senza osare d'avanzarsi. La madre gli andò incontro, lo prese per mano e lo condusse nelle camere di sopra: poi tornò al suo posto.

D'un tratto la nonna parve rianimarsi: aprì gli occhi e mosse la testa come ascoltando un rumore lontano. Annarosa non s'ingannava più sulla sensibilità della nonna: qualche cosa doveva succedere. S'alzò, quindi, inquieta, e andò nell'altra stanza. Era già notte: una notte di luna, tiepida, lucida. Attraverso la porta aperta della cucina si vedeva il lastrico umido del cortile risplendere come vi fosse piovuto dell'argento: e nel silenzio si udiva risuonare ancora il martellare del fabbro: colpi caldi, vibranti, che si spegnevano nell'aria lunare come brage buttate nell'acqua.

Annarosa aveva ripreso a vagare inquieta di qua e di là nella stanza, di nuovo riafferrata da un senso d'attesa penosa. Sentiva anche lei che qualcuno veniva: chi? Stefano? Agostino? Mikedda? la vita o la morte?

Dopo qualche momento un altro rumore si confuse con quello del fabbro, s'avvicinò, si fece distinto: era il passo del cavallo di Agostino.

E Annarosa si slanciò nel cortile, spalancò il portone. Sì, è il cavallo di Agostino, con la faccia bianca di luna, che s'avanza rapido dal fondo solitario della strada: ma a cavalcioni sul suo dorso nudo si erge un'esile figurina grigia, con le trecce sciolte, coi piedi scalzi: un'apparizione quale a volte si vede in qualche fantasmagoria di nuvole.

"Mikedda! Che c'è?"

La serva si lasciò scivolar giù sul fianco ansante del cavallo.

Anche il contadino era corso fuori dal suo cortiletto e aspettava ansioso che Mikedda parlasse.

"Nulla c'è!", ella disse con voce accorata. "C'è il fuoco nell'oliveto. Brucia la casa, bruciano gli olivi intorno: anzi la casa è già bruciata. Il padroncino Agostino e altri uomini accorsi tagliano le piante per fare uno spazio libero intorno all'incendio perché questo non si estenda. Corri anche tu, Taneddu mio; cerca altri uomini e corri laggiù per aiutare a spegnere il fuoco."

"Tu sogni o dici la verità?", esclamò l'uomo, mentre Annarosa s'appoggiava tremando al muro senza poter parlare.

Allora Mikedda si riattorse con ira i capelli, volgendosi verso il contadino.

"Corri, ti dico. Che fai, lì? Si tratta d'aiutare i padroni."

L'uomo esitò un istante: poi andò verso il cavallo che s'era messo al posto ove lo legava il padrone quando intendeva di ripartire presto, vi montò rapido, e uscito nella strada batté col piede alla porta del fabbro per avvertirlo che anche il suo oliveto era minacciato.

"Datemi una scure", gridò.

In breve tutta la strada fu in subbuglio. Mikedda però aveva già chiuso il portone, avvicinandosi ad Annarosa che pareva inchiodata lì accanto al muro.

"Ha capito?", le disse abbassando la voce. "La casetta è bruciata, e il fuoco è partito di lì. Gli olivi vecchi del lascito a Santa Croce sono stati i primi a bruciare, e il fuoco va su e giù come quello dell'inferno. Ma non è questo il più... È che il padrone Juanniccu è tutto ustionato... tutto... tutto... è come un tronco bruciato anche lui."

Annarosa si cacciò il pugno in bocca per non urlare: le pupille ingrandite pareva volessero sgusciarle dagli occhi, luminose alla luna come due perle nere. Poi d'un tratto tutto il suo viso si contrasse: s'appoggiò più forte al muro perché le pareva di dover cadere.

"È morto?", domandò.

"No, ma è in pericolo. Prima di arrivar qui, io sono passata dal dottore, che è corso giù subito per medicarlo. La questione è che il padrone Juanniccu era chiuso là dentro. Ha capito? Era chiuso là dentro", ripeté, toccandole il braccio; e ad Annarosa parve di sentirle addosso l'odore degli olivi bruciati e del corpo abbrustolito dello zio.

Si guardarono, viso contro viso, come due complici dopo il delitto.

"Ho capito", disse Annarosa; "l'aveva chiuso Agostino."

"L'aveva chiuso lui, e gli aveva lasciato del vino: e c'era dentro tutta la catasta della legna fatta in questi ultimi giorni, e il frascame. L'incendio è uscito dalla casetta ed ha preso subito gli alberi fuori: c'era un gran vento che lo spingeva. È stato verso le cinque... quando la vecchia padrona si è sentita male... Se mi si lasciava obbedire alla mia padrona forse tutto questo non succedeva. No, perché io correvo a vedere nella casetta e aprivo: perché so dov'è la chiave."

"Ma Agostino, dov'era?"

"Pare fosse andato a contrattare per un cane, giù in un luogo lontano. Io non so dire bene come sia stato. Ho una grande confusione in mente; mi pare d'essere ancora in mezzo al fumo. Quando sono arrivata allo svolto dello stradone ho cominciato a veder il fumo ed ho avuto come un colpo al cuore; ho indovinato tutto, ma ho continuato a camminare e correre come in sogno, senza vedere altro che quel fumo che m'accecava. Ecco arrivo e dall'alto del cancello vedo come un focolare; la casetta e gli alberi intorno tutti di fuoco, e, sopra, una nuvola nera, che oscurava anche il sole. I contadini gridavano, accorrendo da tutte le parti: i cavalli e i cani, invece, fuggivano. Il padroncino Agostino m'apparve, tutto nero, grondante sudore, con in mano la scure per tagliare le piante. Aveva gli occhi come un pazzo. Aveva mandato un ragazzo a prendere il cavallo e correre qui per dare la notizia; non appena mi vide gridò: "Va tu, subito, ad avvertire in casa, che venga giù un dottore con qualche unguento per medicare zio Juanniccu". E il ragazzo lo mise a tagliare le piante. Ma io non ho voluto ripartire prima di vedere il padrone Juanniccu. È nella capanna di zio Saba, il quale non voleva lasciarmi entrare: io mi inginocchiai piangendo, e vidi il mio povero padrone steso sulle foglie; ha il viso bendato e non parla, non si lamenta: zio Saba l'ha unto con olio e avvolto con foglie fresche e con stracci. Non ha più capelli né barba e alle sue vesti bruciate sono appiccicati brani di pelle. No, no, non voglio più parlarne, non voglio più ricordarlo...", ella gemette nascondendosi il viso coi capelli. ""Adesso è cotto davvero", mi disse zio Saba, spingendomi fuori; poi mi disse: "Senza di me egli moriva nel fuoco come una farfalla notturna. Il guaio è che era chiuso dentro, ancora stordito dalle bastonate di Agostineddu vostro. E Agostineddu vostro per medicina gli aveva portato il vino, e ne aveva dato anche a me, ed io m'ero addormentato in fondo al mio oliveto. Mi svegliò il fuoco; mi trovai in mezzo a una nuvola e subito dissi a me stesso: quel diavolo di Juanniccu, ubriaco e idiota com'è, ha attaccato fuoco alla casa. E sono accorso e ho gridato; ma ho una gamba sola, e il fuoco camminava più svelto di me. Eppure son riuscito a buttar giù la porta, perché il fuoco, meno male, usciva dall'altra parte, spinto dal vento, e non so come ho tirato fuori il tuo padrone già mezzo abbrustolito; l'ho tirato fuori come un pane dal forno, così Dio mi assista nell'ora della morte. E ora", mi disse poi zio Saba, "le tue padrone diranno magari che sono stato io a incendiar l'oliveto!"."

Tacque, spaventata dall'ansare di Annarosa che si era rivolta col braccio sul muro e vi scuoteva sopra disperatamente la testa.

"Ebbene, che vuol fare?", riprese poi, accarezzandole timidamente una mano. "Sono cose del mondo. Piuttosto bisogna pensare a non far sapere nulla alla vecchia padrona, che, del resto, deve aver indovinato tutto. I vecchi e i paralitici vedono come i santi. Ma bisogna cercare d'ingannarla. Su, su, si faccia coraggio. Vede, la padrona Nina ha chiuso l'uscio della camera, e non viene fuori, sebbene abbia sentito rumore; non viene fuori per non allarmare la vecchia padrona. Vada dentro lei, adesso, e mi mandi fuori la padrona Nina per combinare il da farsi. Io tornerò giù subito al podere per prendere notizie."

Allora Annarosa rientrò: s'inginocchiò presso il letto, nascose il viso sulla coltre. Le pareva d'essere avvolta da una nube di fumo, ma attraverso questa tenebra vedeva, nel chiarore sinistro dell'incendio, il corpo nudo bruciato dello zio.

"Nonna", mormorò come in sogno, "perdonatemi. Ho pensato bene. Stefano tornerà. Lo manderò a chiamare..."

Quando si sollevò vide che la matrigna non era più nella camera.

© Grazia Deledda







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