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Il vecchio della montagna
Capitolo 10
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 10

Tornò la primavera. L'erba cresceva foltissima sui pianori, le siepi fiorite di biancospino parevano ancora coperte di neve; sotto il bosco si sentiva l'umida fragranza dei ciclamini, delle viole e dei mughetti, e fin dentro la capanna arrivava il profumo del musco fiorito. Da ogni roccia sgorgava un ruscelletto; fatta rio, la fontana attraversava l'orto che Melchiorre ricominciava a solcare.

Si slattavano i capretti, serrando il loro musetto in una rozza museruola di legno; si cominciava a venderli, e col latte abbondante si faceva il cacio. Le faccende essendo triplicate i pastori avevano meno tempo di abbandonarsi alle loro passioni. Melchiorre mungeva di nuovo le capre all'alba e subito Basilio scendeva in città; quindi non più convegni notturni con Paska. Ma ella scendeva ogni mattina per tempo alla fontana, nell'ora in cui Basilio doveva ritornare sulla montagna, ed egli l'attendeva, fermo col cavallo sull'orlo del sentiero.

Appena scorgeva la figurina di lei attraversare agilmente lo stradale i cui paracarri brillavano di rugiada, metteva una grossa pietra sull'estremità della fune del cavallo, e scendeva correndo il ciglione. Dallo stradale teneva d'occhio il cavallino, rassegnato e campeggiato in aria, e chiacchierava un po' con la ragazza. Più d'una volta furon visti così assieme; e la gente disse che Paska e Melchiorre avevano riannodato la loro relazione e che Basilio era il messaggiero. La cosa fu riferita a zia Bisaccia, quindi al pastore.

«Cos'è questo pasticcio?», egli chiese al mandriano. «Che hai tu da vedere con quella...?»

Al nome insultante Basilio sentì il sangue montargli al capo.

«Ebbene, volete saperlo? Sono il suo fidanzato! Cosa avete da dir voi? La sposerò.»

Melchiorre si mise a ridere: una risata che gli gonfiò il petto e gli illuminò gli occhi. Da quanto tempo non rideva così! Basilio avrebbe preferito uno schiaffo.

«Oh, oh! ah, ah!», gridava Melchiorre, curvandosi e battendosi le mani aperte sulle anche. «Dubitavo della cosa; ma che fossimo a questo punto!... Buona fortuna, buona fortuna!»

Non disse altro, non insultò, non scacciò Basilio, come questi temeva; non mostrò alcun rancore, non nominò mai più la cugina. Ma Basilio da quel momento s'accorse d'essere trattato con beffa continua, con ostentata compassione, con mal celata diffidenza. E se ne sentì umiliato, e tentò anche d'andarsene, cercando segretamente un altro padrone; ma nessuno gli offrì le condizioni vantaggiose che godeva presso i Carta ed ora egli aveva bisogno di guadagnar molto, d'accumulare e nascondere il suo denaro. Da più mesi non mandava un centesimo alla sua povera madre.

Il pensiero suo continuo e struggente era di acquistare un piccolo gregge e sposarsi con Paska; ma ogni capra costava dieci lire: quanti mesi, quanti anni ancora doveva servire per accumulare nella sua unta borsa di pelle stretta da una correggia, almeno quaranta o cinquanta di quei piccoli fogli colorati, con l'immagine del re!

Inoltre doveva fare il servizio militare, e se lo lusingava la speranza di ricever al ritorno, sebbene non nuorese, un certo numero di capre, secondo l'antico costume, il pensiero di lasciar Paska e forse di venir da lei dimenticato, lo tormentava giorno e notte.

Coll'avanzar della primavera il suo amore cresceva, rigoglioso come la vegetazione della montagna.

Il musco copriva le roccie con la sua fioritura carnosa e vermiglia: la ginestra indorava i ciglioni: fiorì l'asfodelo, fiorì tutto il bosco, cangiando in pari tempo le foglie.

Un soffio voluttuoso percorreva le alte erbe, fra cui le nuove caprette si rincorrevano lasciando solchi argentei, mentre alcune capre tisiche ricercavano con mirabile istinto i cespugli medicinali che prolungavano la lor grama esistenza. Basilio respirava con voluttà quel soffio ancor puro e già ardente, pregno di irritanti profumi; nelle lunghe sieste tornava a sdraiarsi al sole, come nello scorso agosto, sprofondando le mani calde fra l'erba fresca, e pensieri affannosi e desideri indicibili lo facevano spasimare.

Un giorno, agli ultimi di maggio, Melchiorre prese otto grossi capretti che ancor gli restavano, li legò per i piedi e li attaccò quattro per parte alla sella del cavallo. E mandò Basilio in un villaggio al di là della valle, da un negoziante che desiderava comprare i capretti.

Basilio partì cantando, spingendo in avanti il cavallo carico, sui cui fianchi i capretti, a testa in giù, abbandonavano il corpo lanoso.

Scese pei boschi fioriti, attraverso le roccie rosse di fior di musco; s'inoltrò giù nella valle, pei sentieri incavati ove la ginestra gettava i suoi archi d'oro, guadò il fiume, sulle cui acque verdi il sambuco stendeva le ombrelle dei suoi fiori e riprese a salire sulla montagna di schisto fiorita di rose canine. In una brughiera, tra fittissime macchie di lentischio, vide pascolare un puledro grigio dalla coda mozza.

Allora smontò; prese la cordicella legata all'arcione del suo cavallo, la lanciò al lungo collo del puledro, lo prese e gli si slanciò sulla groppa nuda col proposito di rilasciarlo lì al ritorno. E via per la brughiera che pareva un selvaggio mare dalle onde verdi. Solo un cuculo batteva la sua nota acuta, sfumata nell'immenso silenzio: pareva il melanconico palpito della solitudine. Basilio passò, eretto sul puledro, come un giovine centauro emergente da quel selvatico mare di lentischi. Gli sembrava che il puledro fosse suo, che suoi fossero il cavallo e i capretti e tutto lo spazio che attraversava; e che tutto fosse in suo potere di vendere, per presentarsi a Paska al ritorno con la borsa colma e l'anello di sposa.

Lo invase una smania di slanciarsi alla corsa attraverso l'altipiano, gettando grida selvagge alle libere lontananze primaverili.

Giunto al villaggio vendé i capretti. Gli chiesero se il puledro era da vendere. Egli guardò la sella vuota del cavallo, e pensò ch'era naturale rifar il viaggio su quella e non sul dorso nudo del puledro. E lo vendette.

Al ritorno - era notte - ripassando nella brughiera, sentì il cuculo singhiozzare ancora, lentamente, invisibile, nella solitudine desolata; i lentischi brillavano all'obliquo raggio della luna nuova.

Sentì un brivido alle reni, ebbe un vago istinto di paura e di tristezza; ma passato oltre gli parve che ogni pericolo fosse svanito.

Dopo il primo passo riuscito a meraviglia - il puledro era stato comprato da un forestiere allontanatosi subito dal Nuorese, - Basilio trovò la sua via; e, allorché venne avvisato per la leva s'infiammo gli occhi con bagni d'acquavite. Soffrì inauditi tormenti, ma sceso a Nuoro per la visita militare fu riformato per oftalmia.

Verso la fine dell'estate era invece già completamente guarito. Nulla era cambiato nell'ovile dei Carta; solo Basilio, fattosi alto e serio, aveva negli occhi un'ombra continua. La lepre, grossa e dura, sempre silenziosa e inutilmente viva, pareva avesse smesso il suo sogno di fuga: le sue corte palpebre s'abbassavano sugli occhi con melanconica stanchezza; doveva aver dimenticato la vigna natìa, i fratelli forse morti, le danze alla luna.

E zio Pietro continuava a soffiar nel fuoco col suo bastone, spazzava la mandria con l'alta scopa di siepe, preparava i pasti, si pettinava sul fazzoletto rosso, pregava e narrava storielle. Il suo cuore si rasserenava, il piccolo Giglio del Monte aveva esaudito le sue preghiere, spazzando le nuvole dall'oscuro orizzonte della sua vecchiaia, serena adesso come una interlunare notte estiva.

Un giorno ch'erano soli, Melchiorre gli disse:

«Padre, sentite. Zia Bisaccia mi vuol dar moglie».

«Se è buona, prendila. Ma hai dimenticato l'altra?»

«È buona», disse Melchiorre, senza rispondere alla domanda. «È sua nipote. Bassotta, grassa, bruna, con gli occhi di gatto. Una buona massaia.»

«Come si chiama?»

«Benturedda.»

«Ha qualche cosa?»

«Molto, una casa, una vigna, una terra, una giumenta.»

«Se è onesta, pigliala. Ma hai o no dimenticata l'altra?»

«L'ho dimenticata, padre.»

Dopo le opportune pratiche di zia Bisaccia, un giorno d'autunno zio Pietro montò a cavallo, e guidato dal figliuolo scese a Nuoro. A Nuoro si cambiò il vestito, si lavò, si pettinò la barba, mise la berretta sarda, e condotto da zia Bisaccia andò a chieder la mano di Benturedda. Questa era, come Melchiorre l'aveva con brevi pennellate dipinta, bassa, grassa, col seno e i fianchi poderosi, olivastra; aveva gli occhi azzurrognoli incassati sotto foltissime sopracciglia nere. La fronte breve e pelosa sfuggiva nell'arco del fazzoletto molto tirato in avanti; la voce uscente dalle labbra grosse e ironiche aveva un timbro maschio sgradevole.

La madre era sorella di zia Bisaccia. Obesa, con un seno enorme e il volto grasso cascante, fissò su zio Pietro gli occhi celesti infossati come quelli della figliuola, e cominciò a parlare quasi sillabando, stringendo la bocca per darsi aria di importanza.

«Benturedda è giovane, molto giovane; non ha fretta di maritarsi. Voi lo sapete, compare Pietro, chi sta bene non si muove: chi ha provviste in casa non va a comprare in casa degli altri. Nostra Signora sia lodata, noi non abbiamo a lamentarci della carestia...»

Sebbene preparata alla domanda del vecchio, e con la risposta già pronta, fingeva di voler ancora pensarci su. Ma zia Bisaccia gridò:

«Ma che tempo, che tempo! Sorella mia, ascolta bene, ascolta tua sorella. Tua figlia è ricca, Melchiorre è ricco; cosa diavolo stiamo ad aspettare? Essi hanno casa», e contava, al solito, sulle sue dita, «hanno terre, bestiame, pane, vino, lana, olio... palle che ti trapassino il corpo! Cosa vuoi dunque aspettare?»

«Sorella mia, che modo di parlare è questo?»

Tuttavia si lasciò convincere e rispose di sì. Avrebbero dato l'entrata a Melchiorre per Tutti i Santi.

La ragazza porse da bere a zio Pietro, e parlò con sostenutezza.

«Alla vostra salute, e all'adempimento dei nostri voti!», augurò zio Pietro, sollevando il bicchiere con mano tremante.

Anche il cuore gli tremava; e la ruga della fronte gli si sollevava turgida. Una infinita tristezza lo invadeva, davanti a quelle donne che parlavano come uomini: la voce e il riso di quella che Melchiorre gli aveva detto buona e onesta, gli destavano antipatia. E pensava a Paska, dalla voce armoniosa e dal riso infantile che spandeva gioia ove vibrava. Come mai Melchiorre aveva dimenticato?

Melchiorre intanto attendeva in casa di zia Bisaccia, ritto sulla porta, fumando un mezzo sigaro sardo. Quando vide tornar zio Pietro sputò lontano e chiese con calma:

«Ebbé, vi hanno dato una zucca?2».

«Sì», rispose il vecchio. «Non vedi quanto mi pesa?»

Zia Bisaccia rideva col suo strano riso che non le smuoveva un muscolo del volto. Prese la mano di Melchiorre e contandogli le dita ripeté l'antifona:

«Voi avete bestiame, avete casa, terre, olio, latte, lana, vino. Mia nipote farà l'affar suo perché è... mia nipote. A Tutti i Santi l'entrata. Smetti quel muso da vampiro, Melchiorre Carta, e ricordati sempre di zia Caterina, che ti ha reso felice...».

Egli lasciò dire, con la mano inerte e uno stupido sorriso sul volto.

«Lana, olio, latte, cacio, case, bestiame, vino, miele... Non ti basta tutto questo per esser felice? Se non ti basta va e impiccati.»

«Per Tutti i Santi? Parliamo del regalo da farle. Un fazzoletto? O del denaro?»

«Del denaro, del denaro, figlio mio. Il fazzoletto si consuma, il denaro si conserva. Io ho un mezzo marengo d'oro. Ti cambierò la carta e... senza aggio!»

«Va bene», diss'egli; e pensava a Paska e al primo regalo che le aveva fatto. Ella gli aveva ricambiato un fazzoletto da naso, con un cuore ricamato in cotone rosso.

Padre e figlio risalirono un po' tristi la montagna, ove la nebbia d'autunno inumidiva già le foglie secche e velava il bosco, e rientrarono silenziosi nella capanna, quasi ritornassero dall'aver compiuto una cattiva azione.

Essi indovinavano scambievolmente il loro malcontento, ma non se lo comunicavano.

Melchiorre si sentiva forte e rassegnato nella sua tristezza; il passo era fatto, e sebbene egli non amasse la nuova fidanzata, era deciso a sposarla. Ma a misura che i giorni passavano, un vuoto triste e caliginoso come l'orizzonte allagato di nebbia stendevasi attorno di lui: l'anima vi nuotava, rassegnata di quella fosca rassegnazione che dà la perdita d'ogni speranza; ma se durante le pratiche di zia Bisaccia egli era stato sostenuto dal desiderio di far dispetto a Paska col suo nuovo fidanzamento, ora, compiuto questo, i ricordi gli tornavano insistenti, con insidiose tenerezze, con tumulti di sdegno contro se stesso che non sapeva dimenticare.

Paska era malvagia, era maligna e leggera, era una donna perduta: ma poiché ella non poteva più appartenergli come moglie, tutto questo non gli recava più ira né dolore.

Ricordava di lei solo la creatura bella e affascinante, che possedeva la malefica potenza di far perdere il senno a chi l'avvicinava: e in questo morboso ricordo si smarriva con l'angoscia nostalgica di chi ha la certezza di non posseder mai la persona amata. E la presenza di Basilio lo irritava maggiormente, sebbene sentisse che Paska si burlava di quel fanciullone come s'era burlata di lui, e che lo avrebbe ben presto tradito ed abbandonato.

Il giorno di Tutti i Santi scese a Nuoro, e andò a far la prima visita alla fidanzata. Fu ricevuto in cucina, e si sedette lontano dalla ragazza, senza osar di guardarla. Parlarono di cose indifferenti, di capre, di banditi, dei figli di zia Bisaccia, di cui alcuni erano ancora in carcere e gli altri non avrebbero tardato ad entrarci.

Melchiorre udiva solo la voce grossa e sonora della ragazza, e con la mano in tasca, palpando la piccola moneta d'oro, pensava quasi con paura:

«Come farò, se la madre, per disgrazia, ci lascia soli? Io non voglio baciarla, no».

Non ci fu quel pericolo; ed egli poté andarsene freddo e rigido come era venuto, dopo aver messo, sulla palma della mano di Benturedda la piccola moneta d'oro.

Quando Basilio seppe che il padrone s'era fidanzato, e che fra poco si sarebbe sposato, invece di rallegrarsene, provò un mordente impulso d'invidia.

«Sposiamoci», disse supplicando a Paska, appena poté vederla, «sposiamoci. Ho il danaro per acquistar trenta capre.»

«Trenta capre! Ci vuol altro, bello mio!»

«Sposiamoci, Paska, sposiamoci. Io non posso più vivere così, io non posso più vivere senza di te...» Spasimava e l'assaliva con baci selvaggi. «Io commetterò qualche pazzia se tu non mi sposi. Ti comprerò sette anelli e la medaglia d'oro.»

«Ti sposerò... Quante volte l'abbiamo detto! Abbi pazienza, agnello mio!»

«Ma quando? Ma quando? Subito, subito, prima del padrone, prima?»

«Il tuo padrone si sposa?», ella chiese stupita, allontanando la sua dalla faccia di Basilio, e spingendolo per gli omeri.

«Si sposa, sì, si sposa. Non lo sapevi? Sposiamoci anche noi, Paska...»

«Con chi?»

«Con chi? Io con te, tu con me!»

«Dico, con chi si sposa Melchiorre?», domandò ella rudemente; e le labbra le si incresparono, pronunciando quel nome. Perché? Perché l'anima della donna è uno stagno, nelle cui profondità dormono mostri che un lieve soffio può destare.

Melchiorre sposava un'altra donna: dunque s'era facilmente confortato.

«Chi è, chi è, dimmelo Basilio!»

«Benturedda, la nipote di zia Bisaccia. È brutta, ma è ricca», disse Basilio, appoggiando la fronte sulla spalla di lei.

«Ed egli vuol bene a quell'otre?», ella domandò, come parlando fra sé. «Non è possibile. Non è vero. Sei bugiardo.»

«Io non so se le voglia bene; so che è andato a trovarla e che le ha regalato una moneta d'oro. Come, non lo sapevi? Sposiamoci anche noi che ci amiamo, sposiamoci, Paska: vuoi che anch'io ti dia una moneta d'oro? Se la vuoi domani te la do...»

Fermo nella sua idea egli gemeva come un bambino, sfregando la fronte sulla spalla di Paska.

«Dimmi di sì, promettimelo, Paska, Paska mia, rosa mia, promettimelo: non me ne andrò se non mi dici di sì. Comprerò le capre, comprerò il frumento e l'orzo per le provviste. Nulla ti mancherà, vedrai. Mia madre ha cento scudi nella cassa e me li darà tutti, rosa mia, per comprare le capre e gli anelli e la medaglia per te...»

«Cento scudi!», ella disse come in sogno. «È poco, agnello mio. Troppo poco...»

«Troppo poco? E se fosse il doppio? Il triplo?»

Egli teneva gli occhi chiusi, la fronte sulla spalla di lei, e tremava tutto.

«Allora sì...», mormorò Paska; e come Melchiorre aveva pensato a lei domandando un'altra donna in moglie, ella pensò a lui promettendosi a Basilio.

«Oh no», ella pensava con rancore; «non valeva la pena di tradirlo, se dovevo finire con lo sposare il suo mandriano!»

«Allora sì, allora sì!», esclamò Basilio, ergendosi sulla persona.

«Bada che me lo hai promesso, bada! Se non manterrai la promessa ti ucciderò!»

«Come mi ha ucciso lui!», pensò.

Basilio, a cui ella arrivava appena fino al collo le morsicò i capelli.

«Io sono più alto di te: quando saremo marito e moglie l'allegria mi farà crescere ancora di più: come farai a baciarmi?»

«Ti chinerai tu, credo io!»

La sua voce era triste ed ironica. Egli si curvò infatti e la baciò; ma le belle labbra di lei rimasero fredde come quelle di una morta. Il suo pensiero correva lontano; ma, Basilio, inebbriato dalla speranza di sposarsi presto, non s'accorgeva della freddezza di lei, e se n'andò pensando al modo di duplicar il suo capitale nascosto nel cavo d'una roccia: rei pensieri volteggiavano come foglie putride nel turbine della sua passione.

Quell'inverno fu ancora più rigido degli inverni passati; continue nebbie dense e fredde avvolgevano l'ovile, e quasi ogni giorno cadeva un po' di nevischio. Si dovettero far rozzi ripari per le capre, e i pastori, abbandonata la capanna ove il freddo era intensissimo, si ritirarono in una grotta davanti alla cui apertura costrussero una tettoia di frasche, per meglio ripararsi dal vento che si sbatteva contro le roccie con boati di mostro. Il fumo coprì ben presto di una patina nera la lucente volta irregolare e le pareti granitiche della grotta; là dentro zio Pietro, seduto davanti al fuoco, con le mani appoggiate una sull'altra sul bastone fermo fra le gambe, pareva una figura preistorica, gli occhi chiusi nel sogno d'apocalittiche visioni.

E apocalittiche visioni erano al di fuori, nelle mostruose volute delle nuvole correnti sul cielo: il caos pareva fumasse all'orizzonte; dall'immenso crogiuolo del mare vaporavano nebbie che salivano senza tregua, incontrandosi con le nebbie della montagna; e in quel velario or grigio e diafano, or fumoso e fosco le roccie e gli alberi apparivano e sparivano in chimeriche fantasmagorie. Nelle lunghe notti, se sopravveniva un po' di calma, e la luna invernale passava come un grand'occhio velato di lagrime attraverso la nebbia e i cirri volteggianti delle nuvole, un sovrumano incanto di tristezza e di sublime desolazione regnava lassù. S'udiva lo scroscio dei torrenti, e quel roteare di acque sul granito riempiva la notte d'arcane armonie. Pareva che al di sopra dei boschi addormentati, le cui ghiande castanee nelle loro piccole coppe filogranate luccicavano come perle alla luna, passasse il cocchio della Dea della notte e della solitudine.

I pastori dormivano entro la grotta, coi piedi rivolti al fuoco: accovacciati nell'ombra, il gatto e la lepre parevano donnole addomesticate e completavano così il quadro preistorico. Ma il sonno di Basilio s'era fatto lieve e inquieto. Ad ogni piccolo rumore sollevava la testa, e ascoltava con gli occhi chiusi. Talvolta s'alzava, usciva fuori e percorreva i dintorni, fermandosi ogni tanto col viso eretto alla luna. L'alta persona snella, il bel capo ricciuto e il profilo greco, circondati come da un'aureola vaporosa sullo sfondo lunare, potevano ricordare il giovine Endimione sul ciglione della selva, in attesa dell'amante sublime.

E Basilio, spiando le spiacevoli sorprese che la notte poteva apportare, pensava alla sua Diana; e se non l'attendeva tra i freddi vapori della montagna, sentiva però un continuo delirio d'attesa. Invece di calmarsi col tempo e con la sicurezza del conseguimento, il suo amore diventava spasimo. Volesse o no il padrone, egli scendeva quasi ogni giorno a Nuoro e cercava Paska e le andava dietro perdutamente. Tutti ormai conoscevano la sua passione.

A Nuoro egli s'indugiava anche con Felix, il quarto figlio di zia Bisaccia, col quale aveva stretto intima relazione. Essendo annata di ghiande, molti pastori porcari popolavano il bosco coi loro branchi di maiali già grassi. Anche le capre, sebbene per istinto non toccassero le ghiande e neppure l'erba ove i porci eran passati (riconoscevano al fiuto l'immondo passaggio) avevano tanta pastura che il latte ne veniva troppo denso, e i delicati capretti, risentendosi dell'eccessivo nutrimento, s'ammalavano.

Irritato per altre ragioni Melchiorre pretendeva che fossero i porci a guastargli il pascolo; e proibì al pastore vicino di attraversare la sua tanca. L'altro promise, ma non mantenne; e un giorno Melchiorre, trovati sotto gli elci alcuni porcellini, li rincorse e li cacciò. Nella fuga i porcellini si sbandarono; e alcuni precipitarono in un dirupo e si storpiarono. Il porcaro venne a parole con Melchiorre: s'ingiuriarono, si rinfacciarono dei delitti immaginari; e da quel giorno, rotte le buone relazioni di vicinanza, si negarono il saluto. Questo finì di inasprire Melchiorre. Egli scendeva ogni domenica a Nuoro, per visitar la fidanzata che gli diventava sempre più odiosa. Dopo le prime cerimonie, madre e figlia gli si mostravano come veramente erano, maligne, pettegole, avare sino alla sordidezza, piene di boria. In quattro mesi non una dolce parola era passata tra i due fidanzati: l'enorme mole della madre vigilava il focolare.

Una sera Melchiorre si trovò solo con lei.

«E vostra figlia?», domandò sedendosi a testa china, con gli occhi fissi per terra fra i suoi due piedi.

«È uscita, tornerà fra poco», rispose la donna, guardandolo attentamente. Dopo un breve silenzio disse: «Adesso che siamo soli, voglio parlarti di una cosa».

«Cosa?», egli domandò sollevando gli occhi senza alzar la testa.

«Senti, Melchiorre, figlio mio. Tu sai che a me non piacciono le chiacchiere e i pettegolezzi.» («Tutt'altro!», pensò egli). «Si tratta di cosa seria e grave. È dunque venuta qui una persona seria, una persona buona, così foss'io, e questa persona mi disse: "In fede di cristiani battezzati, ditemi, è vero che date vostra figlia a Melchiorre Carta?".

"È vero."

"State attenta a quel che fate, perché egli naviga in cattive acque, e non tarderà ad esser posto in mani della giustizia."»

«Perdio!», gridò Melchiorre, più adirato che spaventato, battendosi un pugno sul ginocchio. «Ricomincia il gioco?»

«Che vuoi dire? Che gioco?»

«Continuate.»

«Bene. Dopo molte preghiere e scongiuri, finalmente la persona mi diede qualche indizio. Pare sia stata tua cugina Paska a svelar qualche cosa. Sai bene», la donna abbassò la voce, «Paska è serva e... dicono, io l'ho inteso, non affermo sia vero, liberaci Dio... serva e qualche cosa di più presso un magistrato. Pare ci sieno denunzie anonime contro di te, che cioè accogli i banditi nel tuo ovile, che si vede spesso bestiame rubato nella tua tanca...»

Le labbra di Melchiorre, sbiancate, fremevano; ma non s'aprirono per parlare: egli anzi stringeva i denti per nascondere la sua commozione alla donna.

«...Non ho voluto mai dirti nulla, ma con Paska son passati dei pettegolezzi da quando ti seppe fidanzato di mia figlia. S'è lasciata andare persino a dire che se ella voleva, tu avresti sposato prima lei che l'otre... la chiama l'otre la figlia mia...»

Le labbra di Melchiorre sorrisero; gli occhi rifulsero di gioia. Adesso capiva e pensando a Benturedda le sue labbra sorridevano; e gli occhi splendevano pensando a Paska.

«...Mia figlia è un otre di latte, ma Paska è un otre di siero putrido! Dice inoltre che, se lei avesse voluto, tu a quest'ora saresti in galera; ma che è ancora in tempo, visto che la giustizia ti ha sulla punta del naso. Dopo tutto ciò io penso che ella sparga la voce delle denunzie anonime perché il matrimonio tuo con mia figlia vada in fumo. Tuttavia, Melchiorre, figlio mio, sentimi bene. Io ti promisi mia figlia perché ti so un giovine onesto, laborioso e buono.»

«E benestante!», proruppe lui.

«E benestante anche. Non si vive di solo amore...»

«Macché amore!»

Con le braccia incrociate egli stette ad ascoltare le conclusioni, mentre la donna raddolciva la voce, fino a renderla umile.

«...E sono pronta a mantener la promessa. Ma caso mai... se tu non ti sentissi tranquillo... se per caso... alla fine si è uomini e soggetti all'errore.»

«Donna», egli disse acerbamente, «io non sono un ladro! E se non avessi dato già abbastanza dispiaceri a quel povero vecchio, dopo queste vostre parole me ne andrei e non rimetterei più piede in questa casa.»

«Tu mi hai frainteso!», esclamò allora la vecchia, e cercò di rabbonirlo e appena rientrò Benturedda cambiò discorso.

Melchiorre fremeva, di nuovo assalito dalla paura di pericoli ignoti; anche le due donne, che non lo amavano e diffidavano di lui, gli parevano due nemiche. Pure, in fondo, una segreta dolcezza lo confortava.

Paska aveva detto che, ella volendo, egli si sarebbe più volentieri sposato con lei che con la fidanzata, la cui voce sembrava davvero il gorgoglio d'un otre. Ella dunque ammetteva una loro riunione? Era gelosa forse? Ogni altro sentimento, il dispetto, l'odio, il dolore, la vergogna, tutto svaniva davanti all'insidiosa dolcezza che le parole dispettose di lei gli davano. Egli sentiva di disprezzarla e non avrebbe più voluto sposarla anche s'ella fosse stata carica d'oro; ma la desiderava con angoscia, e il solo pensiero di rivederla gli dava un fremito di piacere. Uscì stravolto, e rientrato da zia Bisaccia le raccontò ogni cosa.

«Vorrei scambiar due parole con Paska. Fate in modo ch'io possa parlarle, zia Caterina. Voglio sapere, voglio vedere se c'è qualcosa di vero in tutto questo pasticcio.»

Zia Bisaccia diventò pensierosa.

«Se mi prometti di non far nuove pazzie, procurerò di farla venire qui stasera stessa...»

«Andate! Andate! Son passati quei tempi!»

Allora la donna indossò la tunica, rigettandone i lembi sugli omeri, e uscì.

Cadeva la sera: Melchiorre rimase presso il fuoco, col volto nascosto fra le mani. Quando zio Pietro era andato a chiedergli Benturedda in isposa, egli non aveva atteso con tanta ansiosa inquietudine.

Paska passeggiava su e giù per il Corso, fra gruppi di domestiche dallo sguardo carezzevole e di bimbe che parlavano di mode e sparlavano del prossimo come donne già fatte. Il padroncino di Paska, sempre mingherlino, col visuccio pallido affondato in un colletto di pelo, camminava a fianco della ragazza: e dietro il cagnolino nero, col suo campanellino, col collare che pareva d'oro.

Il crepuscolo invernale era freddo e luminoso; la luna piena sorgeva dall'Orthobene, sospesa come un'enorme perla sul tenero azzurro del cielo, e spandeva un riflesso d'acqua sul lastrico bagnato del Corso.

Zia Bisaccia attraversò le strade col suo fiero passo da cavalla indomita: borbottava fra sé con infinito disprezzo mille ingiurie contro i signori e le signore, e specialmente contro le serve che passeggiavano sfacciate e sfaccendate. Finalmente vide chi cercava.

«Ssss...», soffiò, traendo un dito fuor della tunica incrociata sul petto.

«Cosa volete?», chiese Paska avvicinandosi sorpresa.

«Voglio te. Vuoi venire un momento a casa mia? C'è una persona che vuol parlarti.»

«Chi è?»

«Cugino tuo.»

«Zia Caterina!?», interrogò Paska, guardandola un po' stupita, un po' spaventata.

«Non aver paura! È in casa mia e basta.»

«Verrò subito, allora. Per voi!»

«Per me un corno!», rispose la donna, e voltando le spalle s'allontanò, nera nella sera luminosa.

Melchiorre attendeva, dando le spalle alla porta: nella cucina si addensava il buio, e alla mobile luce rossastra della fiamma grandi ombre tremavano sulle pareti.

Ancor prima che zia Bisaccia rientrasse, egli sentì dei passi leggeri e un tintinnio di campanello nel cortile. Si volse e vide una donna, un bimbo e un cane fermi sulla porta.

«Paska», disse, alzandosi, «perché hai condotto questo signorino?»

Il bambino guardava con occhi spalancati; Paska sollevò e corrugò le sopracciglia, accennando a Melchiorre di esser prudente.

«Siamo venuti per cercar zia Caterina, che mi voleva. Dov'è?»

«Non è tornata ancora.£ Avete fatto prima di lei, forse.»

«Prima. Siediti qui, Efes.» Paska fece sedere il bimbo sulla panca davanti al focolare, accanto a lei, e lo strinse a sé, quasi per difendersi caso mai Melchiorre... Il cagnolino, seguito dall'inquieto sguardo di Efes, girava per la cucina fiutando ogni cosa; e sempre il campanellino suonava e il collare splendeva. Quanti ricordi amari per Melchiorre!

Ritto davanti al focolare, egli fissava avidamente Paska con uno sguardo d'odio e di passione.

Gli sembrava che senza la presenza di quel bimbo, che gli riusciva odiosa e nello stesso tempo lo intimoriva, avrebbe ancora percosso sua cugina, gettandola a terra e calpestandola. E in pari tempo, la bocca rossa e fresca di lei, il suo viso infantile, le sue movenze graziose, gli ricordavano Benturedda rozza e dalle labbra grosse come quelle di una mora, e aumentavano il suo disgusto per la fidanzata. Con tenerezza e con desiderio ricordava i baci dati a quella bocca di rosa e di fuoco, che gli sorrideva così vicina eppure tanto lontana. Perché tanto lontana? Oh, no, se fossero stati soli avrebbe afferrato Paska, e invece di percuoterla l'avrebbe baciata e morsa come la volpe affamata morsica l'agnello... Ma il padroncino di Paska era là, con le manine in tasca, che lo guardava ogni tanto con uno sguardo fisso e diffidente.

«È il figlio del tuo padrone, questo?»

«Sì», ella rispose, e rise, sfidando coraggiosamente lo sguardo che la divorava.

«Perché ridi?»

«Perché ne ho voglia.»

«Bellino», domandò Melchiorre, rivolto al bimbo, «è vero che questa donna qui ti fa da cavallo, e che tu la frusti per far piacere a tuo padre?»

«Non è vero!», rispose l'esile vocina.

Paska balzò in piedi, offesa.

«Non son venuta per ascoltar insulti. Me ne vado... Andiamo, Efes...»

Per fortuna rientrò zia Bisaccia: fermò Paska sulla porta, e dopo aver accarezzato rudemente il bimbo, prese una lucerna d'ottone tutta pesta, si curvò sul focolare, con le dita sparpagliò il lucignolo e lo immerse nella fiamma. L'olio gocciolò sul fuoco e il lucignolo s'accese.

«Bimbo, vieni», disse zia Bisaccia, porgendogli una mano, e con l'altra tenendo alta la lucerna oleosa che mandava una gran fiamma; «vieni, bello, vieni, zia ti darà una cosa buona.»

Egli guardò Paska.

«Va pure», disse la ragazza, rassicurata dalla presenza della donna: ed egli andò, volgendosi indietro per chiamare il cagnolino. La camera ove zia Bisaccia lo condusse gli parve oltre ogni dire misteriosa: un baldacchino quadrato, di stoffa gialla, copriva il letto di legno; sulle pareti, in mezzo a quadretti e immagini pendevano cestini e canestri di asfodelo; grandi arche sarde scolpite nereggiavano lugubremente lungo i muri umidi. Dal soffitto pendevano formaggelli gialli, grappoli d'uva di pere e di mele cotogne.

Ma la diffidenza si mutò in gradevole sorpresa quando zia Bisaccia sollevò il coperchio di una di quelle arche, sotto cui il cagnolino era scomparso. Egli vide grandi corone di fichi secchi, attorte come serpenti inzuccherati, e uva passa lucente, e una pentola colma d'una sostanza dura, gialliccia, che gli era ignota. Allungò la testina, si fece coraggio.

«Cos'è questo?»

«Miele. Assaggialo.»

Siccome egli esitava, zia Bisaccia cacciò vigorosamente un dito nella pentola, e sollevandolo gocciolante di miele glielo accostò alle labbra. Sulle prime egli torse il visino; poi non solo succhiò, ma leccò il dito di zia Bisaccia.


Rimasti soli, Paska, ferma accanto alla porta, chiese a Melchiorre cosa voleva da lei.

Cosa voleva? Egli se n'era quasi scordato.

«È tardi», ella disse guardando fuori. «Spicciati che i padroni m'aspettano.»

«Il padrone t'aspetta? Vai a letto tutte le sere col padrone?»

«Il diavolo ti porti! Ricominciamo?... Son venuta per questo?»

«Sì, per questo», egli gridò afferrandole un braccio. «È vero che hai detto questo, questo e quest'altro? Che io sono un ladro, un manutengolo? Che il carcere mi aspetta? È vero, di': ripetile a me, queste cose, subito, altrimenti ti farò vedere chi sono io! Sono stanco, sai! Adesso basta! Tu vuoi rovinarmi...»

«Non sono io che mando le accuse anonime!», ella disse infine.

«Dunque è vero? Dunque? Parla, figlia del diavolo! Chi le dice a te queste cose?» Le afferrò l'altro braccio e la scosse tutta. Ella lasciò fare, tranquilla.

«Non me le dicono. Le sento. Io non voglio punto rovinarti... cosa mi importa di te? Ma ho parlato perché non posso vedere quell'otre maligna e perfida...»

«E perché non puoi vederla?»

Ella non seppe rispondere: ma chinò la testa e sembrava turbata.

«Perché non puoi vederla... se non t'importa nulla di me? Perché?...»

Ella taceva. Melchiorre non ricordava più perché l'aveva fatta chiamare; non ricordava più il suo pericolo; le gravi accuse che lo minacciavano. Solo l'ultimo perché lo urgeva: tutto il resto era nulla. Anche suo padre egli dimenticava, in quel momento. Dopo un breve silenzio domandò con voce mutata:

«Non hai paura di me, tu?».

«Perché dovrei averne?»

«Posso ucciderti.»

«Uccidimi.»

Per un attimo egli ebbe il violento desiderio di ucciderla.

«E allora perché un tempo avevi paura di me?»

«Allora non desideravo morire.»

«E ora lo desideri?»

«Sì.»

«Perché?»

«Perché sono disgraziata.»

«Perché sei disgraziata?»

«Perché il mondo è pieno di menzogne, di calunnie, d'infamie... e tutti... tutti ci credono, tutti m'odiano... e tu sopra tutti...»

Bastarono queste parole: egli si convinse che le cose dette sul conto di lei erano menzogne, calunnie, infamie: e una gran gioia gli tremò in cuore.

«Paska», disse, sollevandole a forza la testa, «è anche calunnia che fai all'amore col mio mandriano?»

«Povero ragazzo!», diss'ella, col viso sollevato ma con gli occhi lontani dagli occhi che la guardavano pazzamente.

«Povero ragazzo!», ripeté egli fra sé. «Guardami!», comandò.

Ella lo guardò.

«Paska, perché mi hai lasciato?»

«Perché eri geloso e tutti i giorni mi tormentavi»

«Mi vuoi bene ancora?»

«Ancora.»

«Paska!», diss'egli come in delirio, e tremando tutto se la strinse ferocemente al petto, la sollevò fra le sue braccia, immerse le labbra in quelle di lei con la stessa assetata avidità con la quale aveva bevuto l'acqua su alla sorgente della montagna.


Nonostante tutta la sua famosa astuzia, rientrando in cucina zia Bisaccia non s'accorse del torto che aveva fatto a sua nipote Benturedda lasciando quei due soli.

Col lucignolo ridotto in brage la lucerna si spegneva; Efisio reggeva una piccola corona di fichi secchi. Paska strinse sull'esile collo del bimbo il collare che si pelava come un vecchio gatto, e lo trascinò via. Erano appena usciti che egli chiese:

«Quando ci torniamo qui?».

«Spesso, purché tu stii zitto. Me lo hai promesso. Voglio vedere!»

Affrettò il passo perché vide Felix, il figlio di zia Bisaccia, che tornava a casa ubriaco.

Nella sua ebbrezza Melchiorre ricordò finalmente che zio Pietro doveva aspettarlo inquieto, e disponendosi a partire disse alla donna:

«Pare che la cosa sia vera, non solo, ma che sia assai grave. C'è gente che mi vuol male. Non so come finirà. Io però sono tranquillo, perché ho la coscienza pura. Ad ogni modo bisogna esser prudenti: tarderò a ridiscendere in città. Dite dunque a Benturedda ed a vostra sorella che per qualche tempo non mi aspettino.»

«Parla, parla, parla!», incalzò zia Bisaccia, afferrandolo per il cappotto. «Cosa sono queste lettere nonime? Cosa ti ha detto quella fraschetta? Parla! Sarà poi vero? o sarà come il vento che pare racconti cento cose, mentre non è che un soffio d'aria?»

«Se non ci credevate, perché l'avete fatta venire?», egli chiese aspramente.

«L'hai voluto tu.»

«State zitta: vedete vostro figlio che ritorna! E non è solo, a quanto pare...»

Felix entrò barcollando, con gli occhi chiusi e le mani penzoloni.

«Vi lascio con Gesù e con Maria, me ne vado...», salutò alquanto ironico Melchiorre, e scappò via mentre zia Bisaccia, aggirandosi su se stessa, guardava da capo a piedi l'ubriaco.

Melchiorre, che era venuto e se ne andava a piedi, sentì gl'improperii e gli urli coi quali la madre accoglieva il figliuolo, e disse a voce alta:

«Lo dia a sua nipote, quello lì!».

Era notte; la luna alta sul cielo illuminava i bassi tetti delle casupole e le viuzze erbose: gli alberi e i cespugli degli orticelli e dei cortiletti di Sant'Ussula stendevano la venatura dei loro rami ignudi sullo sfondo azzurro-latteo dell'aria; canti rauchi d'ubriachi risuonavano in lontananza.

Pareva una notte d'autunno; e in quella luce, in quella trasparenza lunare, Melchiorre, dopo tante emozioni, sentiva i muscoli agili e avrebbe voluto correre e saltare come un giovine cervo. Da quanto non si era sentito così felice! Gli pareva di volare.

Ogni pulsazione del suo cuore diceva:

«Paska, Paska, Paska, Paska... Come è bella; come le voglio bene! Sarà mia! L'otre tarderà a vedermi: come liberarmi dalla promessa?».

Ma neppure questa domanda turbava la sua gioia selvaggia.

«Paska, Paska! Tutte calunnie, tutte infamie di gente che ci vuol male. Ma adesso tutto è finito: ci sposeremo e saremo felici. Come sarà contento mio padre! Ah, era tempo che le disgrazie cessassero, era tempo, Paska, amante mia cara.»

In lontananza vibravano i canti d'amore dei giovani paesani nuoresi, e pareva accompagnassero la sua marcia trionfale.


Inoche mi fachet die,

Cantende a parma dorada...3


Ma arrivato davanti al casotto del dazio trasalì: si fermò di botto, poi si volse per fuggire. Due carabinieri proiettavano le loro lunghe ombre deformi sul terreno chiaro di luna. Ma quando si sentì inseguito Melchiorre si fermò, e in quel terribile momento, benché il profilo del Monte Orthobene, lì davanti, gli ricordasse il padre che lo attendeva, ebbe un pensiero che lo colmò di gioia.

«La mia coscienza è pura. Se mi arrestano, almeno ho una scusa per rompere la promessa con l'otre...»

2Segno di rifiuto.

3Qui mi sorprende il giorno,

Cantando per palma dorata...

© Grazia Deledda







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