GLI
AUDIOLIBRI DI PB
Le versioni audio dei migliori racconti
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Nella sala del convegno, ci sono poco più
di venti persone. E' stato organizzato da un
terrone da anni residente a Roma, che vuole
fare cultura nella capitale, e che mi ha invitato,
essendo io diventato improvvisamente un esponente
letterario della nostra comune terra d'origine.
Michele si siede placidamente negli ultimi posti
e io sul palchetto, pronto a recitare la mia
parte, da aspirante attore di avanspettacolo.
Quando arriva il mio turno di parlare, dopo
essere stato presentato, e dopo aver ascoltato
la noiosa prolusione dell'organizzatore, che
è anche un mediocre critico letterario,
leggo gli appunti preparati il giorno prima.
Non sono molto bravo a parlare a braccio, rischio
sempre di perdere la direzione.
Mi schiarisco la voce, saluto, ringrazio, e
poi racconto le vicissitudini sofferte per pubblicare
il mio primo libro. Dopo proseguo: "Ma
non chiedetemi qual è il mistero che
sorregge la letteratura. Il critico inglese
Frank Raymond Leavis (Cambridge, 1895-1978)
ha condotto una rigorosa battaglia contro la
letteratura di mero consumo, contro le mode
letterarie non sorrette da adeguato impegno
etico. Ha scritto 'Civiltà di massa e
cultura minoritaria' nel 1930. Il suo ideale
era la grande tradizione di Henry James, Joseph
Conrad, George Eliot. Lui sapeva cosa voleva.
Forse non aveva capito nulla ugualmente, ma
si appigliava a questa fede per apparire convinto
e trasmettere la sua convinzione.
Ma questo, naturalmente, non basta a giustificare
la scrittura. C'è in ballo anche una
certa dose di predisposizione naturale. Molti,
infatti, attraversano la vita senza conoscerne
l'amaro. Molti non ne riconoscono la bellezza.
Altri vivono nel fanatismo, abbarbicati alle
loro conquiste. Altri ancora vivono alienati
da se stessi, senza mai prendere coscienza del
loro vero io. Lo scrittore, allora, è
uno che cerca, sì, di mettere su carta
la sua coscienza critica ma che deve anche essere
bravo a inventarsi un'estetica, cioè
inserire le proprie idee in un contesto interessante,
come una donna che, pur essendo bella e femminile,
si trucca per apparire ancora più piacente..."
Concedo alla platea qualche secondo, bevo un
sorso di acqua minerale, respiro profondamente
e riprendo: "La mia personale avventura
di scrittore non è stata facile. Per
anni sono stato uno scrittore frustrato. Pensavo,
per esempio, che si dovesse per forza costruire
una trama intorno alle cose da dire, cioè
trovare un alibi. Pensavo che lo stile andasse
limato e curato per anni, per il solo piacere
di qualche critico parruccone, rimasto attaccato
a visioni letterarie ottocentesche, ma a tutto
discapito dell'immediatezza e dell'incisività.
Oppure pensavo (me lo avevano quasi fatto credere)
che la lunghezza di un testo fosse importante;
che bisognasse rinunciare ai racconti per il
romanzo, etc. Poi mi è capitata fra le
mani una poesiola di un mio alunno, dedicata
a una ragazzina. Diceva:
'... e la prima volta che ti ho vista
eri bella come una zanzara!'.
Io ero convinto che le zanzare fossero tutt'altro
che belle, e invece... E questa dichiarazione
di fede mi ha ricordato una perla giapponese
ammirata durante le mie letture zen. E' della
monaca Chiyono e recita così: 'In vari
modi cercai di salvare il vecchio secchio, poiché
la corda di bambù era logora, e poi tutt'a
un tratto il fondo si staccò e cadde.
Niente più acqua nel secchio, niente
più luna nell'acqua!'. E sono rinsavito.
Che stupido! mi sono detto. Vuoi dire una cosa?
Dilla! Vuoi scrivere? Scrivi! Chi potrebbe mai
censurare la tua libertà? Chi potrebbe
ingabbiare l'energia atavica che si è
ridestata?. Solo io la potrei affogare, se dessi
soddisfazione ai limiti imposti dagli altri.
Ma gli altri, ora lo so, non sono migliori di
me. E se abbiamo scelto di aderire a questa
'religione', la letteratura (che per molti versi
è un mondo parallelo), è proprio
perché credevamo che, più delle
altre, ci avrebbe consentito di combatterla
con le sue stesse armi. Insomma, che la scrittura
fosse l'unico momento possibile di libertà.
Pertanto, non lascerò più che
un accento mi sbarri la strada, e penso con
pietà a quanti passano la vita a sottolineare
gli 'errori' altrui, i critici, con la preoccupazione
maggiore di conservare la loro ipocrita dignità.
Non capiscono che gli errori sono la vita e
che le parole li riflettono.
E poi, chi diavolo sono i critici? Alcuni sono
dei veri buffoni di corte, che godono nel millantare
il loro piccolo potere editoriale, che deriva
loro dal fatto di recensire le opere pubblicate
dalle case editrici padrone; le quali a loro
volta pubblicano da anni gli stessi nomi (scrittori
della Prima Repubblica, mi viene di pensare).
Quale funzione quindi può avere mai la
critica, asservita com'è al potere editoriale?
Non riesce più neanche a stimolare nuove
idee, non ne ha il tempo: c'è l'ultimo
libro di Eco da recensire benevolmente, e poi
viene subito quello di Bocca, e poi Alberoni,
e poi Biagi, e poi ancora Andreotti (vedrete),
etc. E meno male che è morto Moravia!
(Come farà ora sua moglie, senza più
un marito-padre-padrino?). Inoltre le grandi
case editrici, tutto sommato, sono come Rai
Uno, nazionalpopolari (hanno pubblicato persino
Lino Banfi e le memorie di qualche calciatore).
Se si vuole qualcosa di diverso bisogna andare
a teatro o scoprirlo nei circuiti alternativi,
o forse nelle piccole case editrici.
Ma dicevo della scrittura come unico momento
di libertà, almeno di parola. 'Le parole:
cosa vorrei poter dire! Ma esse non sono altro
che passanti frettolosi dell'anima' sentenziava
Victor Hugo. Però sono anche delle chiavi
per aprire porte misteriose nei recessi della
nostra mente. A Dublino, James Joyce inseguiva
i suoi pensieri, fra il verde smeraldo, le vecchie
case, la gente stanca... Molti hanno creduto
di poter svelare l'Ulisses e il Finnegan's Wake,
ma nessuno potrà mai essere sicuro dell'itinerario
seguito dallo scrittore nei suoi sogni. Bisognerebbe
avere il suo cervello, il suo immaginario, perché,
anche se una parola sembra voler dire inequivocabilmente
una cosa, forse, chissà, è legata
a ricordi fonetici e semantici di tutt'altra
natura, che neanche lo stesso Joyce avrebbe
saputo chiarire.
E allora bisogna cercare di prendere non ciò
che non ci può essere dato, ma quelle
suggestioni che scaturiscono inspiegabilmente
dentro di noi, come chi viaggia in un treno
e pensa ai fatti suoi, e il rumore di quel treno
serve a conciliare i ricordi, le esperienze,
le nostalgie. Uno scrittore non deve, d'altro
canto, interpretare ciò che pensano gli
altri, ma esprimere ciò che è.
Gli altri, poi, prendono ciò che vogliono...
Da bambino mi capitava di chiedere a quelli
più grandi di me di partecipare ai loro
giochi, ma loro si richiudevano nel fatto di
essere più grandi. In nient'altro consisteva
lo steccato, solo nel tabù accettato.
Lasciavo perdere i loro giochi , 'l'acqua nel
secchio', e creavo i miei giochi 'la luna in
cielo'.
Per cui... questo sono io: prendere o lasciare.
O, come dicono gli inglesi, 'love me or leave
me'. Scrivere è, in fondo, un atto di
presunzione, proprio come leggere, poiché,
se c'è un posto dove dobbiamo arrivare,
noi ci siamo già. Non è nel libro
che avviene la scoperta, sarebbe mentire spudoratamente,
ma nella vita dello scrittore, o del lettore".
Il mio intervento viene salutato da un discreto
applauso, ma noto che qualcuno è rimasto
perplesso. Bene, comunque ho cercato di non
annoiare. Michele è fra i primi ad avvicinarsi
per stringermi la mano e farmi i complimenti.
"Ma che fai?" gli dico io, sorridendo,
" niente sceneggiate fra di noi" .
"No, no, sei stato bravo. Hai sentito che
applauso?".
"Va bene, è finita anche questa.
Dammi il tempo di salutare gli organizzatori
e ce ne andiamo".
Dopo un po' siamo in giro per la città.
Ci sono decine di lavavetri slavi appostati
ai semafori. Michele li guarda con una certa
insofferenza. Dice: "Che bel paese dev'essere
questo. Vengono tutti qui".
Arriviamo a Trastevere e mangiamo in uno di
quei locali tipici, in cui i camerieri sono
sporchi di grasso e ti parlano in romanesco.
Il cibo però è buono. Offro io
il pranzo. D'altra parte, Michele è mio
ospite. Dopo facciamo un po' i turisti, ma il
caldo all'interno della città è
insopportabile e decidiamo di rimetterci in
viaggio per il ritorno. Si è trattato
di una semplice incursione, una modesta scampagnata
culturale, che non accrescerà certamente
il mio prestigio, né la vendita del mio
libro.
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