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LETTERATURA E BUDDISMO ZEN
di Giuseppe Cerone

PARTE PRIMA


Una lettera

E' vero: noi Lucani siamo pazienti. E' stata proprio questa virtù innata che mi ha messo sulla buona strada nella ricerca di quel qualcosa d'indefinito di cui tante volte abbiamo parlato. Ti ricordi, vero, tutte le passeggiate fuori dal paese nel tardo pomeriggio? Era così bello, allora, il nostro paese. Prima del terremoto tutto era più bello, e non solo perchè avevamo qualche anno di meno, ma perché ancora ci potevamo riconoscere nei nostri luoghi dell'infanzia; allora il Muro non era diroccato. Ma questa, credo, è pura nostalgia. Bene, ti dicevo della pazienza. Sì, ho studiato un po' di zen e te ne parlo volentieri, cominciando col dirti che lo zen è la pazienza. A questo punto, per la verità, potrei già aver concluso, ma dubito che tu apprezzeresti questa mia sinteticità, per cui parto dall'inizio. Almeno, da quello che credo sia l'inizio.
Ho letto che la parola giapponese 'zen' deriva da "c'han", che era il nome della scuola buddista meridionale cinese, che a sua volta è una mutazione del termine sanscrito "dhyana", che significa meditazione. Lo zen, ho scoperto, è come l'essenza di un fiore, e non si può descrivere a parole. Se pure si riuscisse a sollecitarne il ricordo o a provocarne la comprensione, avremmo comunque solo la "conoscenza" del fiore, ma non il suo profumo. L'unica cosa saggia da fare sarebbe allora di cercare da sé il fiore, perché lo zen è soprattutto un'esperienza. Ma anche questa non sarebbe una soluzione, perché è necessario sapere cosa cercare e qual è la direzione approssimativa, i sentieri e le vie indirette che portano alla strada maestra. Lo zen è infatti un richiamo, indefinibile e affascinante, al nostro intuito; a qualcosa che abbiamo sepolto dentro di noi ma che possiamo sempre riguadagnare a noi stessi: è il senso dell'origine e della fine, del tempo e del mistero svelato.
Lo zen ha percorso un lungo cammino, ancora più lungo se si pensa che è solo un'essenza e non una dottrina o un libro. Partì come tutti noi dalla culla dell'umanità, un posto imprecisato definito per comodità "indo-europeo", e ha compiuto un viaggio opposto alle nostre migrazioni. I nostri popoli andarono a nord e a ovest per poi ridiscendere a sud, lo zen aleggiò sulla Cina e si fermo sul Giappone, da dove ci viene incontro, da ponente. Qualche temerario era già andato a cercarlo (H. Hesse: Il pellegrinaggio in Oriente; Una vita indiana; Siddharta), ma si era trovato di fronte a qualcosa che mal s'intonava con la società pragmatista e proiettata nel futuro come quella che si stava costruendo in Occidente, basata sulle idee meccanicistiche di Bacone, Newton, Cartesio, che non ammettevano tale spreco d'intelligenza.
Altri ne presentivano l'esistenza e ricercavano di per sé, ma ancora una volta la cultura ufficiale impediva loro di spiegare le ali. Oggi, forse, ora che i sogni di grandezza occidentali sono quasi del tutto terminati, siamo più maturi per avvicinarci con umiltà a questa fonte, anche se per molto ancora dovremo sopportare le conseguenze delle nostre ideologie politiche e religiose, che vanno dal comunismo al cristianesimo, e che spesso sono impacci inconcludenti, quantunque radicati. Ma la fonte dello zen è troppo pura e inalterata perchè la possa ancora ignorare un mondo stanco di essere accecato dal danaro, dal numero, dal tempo senza tregua.
Nella convinzione che la saggezza derivasse dalla scienza, abbiamo elemosinato questo "dono prezioso", che però molto spesso assumeva (e assume) la forma di un oggetto contundente. A tutt'oggi la si elemosina a scuola, che è solo un posto dove si sprecano energie, non si ritrovano. Forse che davvero ci coglierebbe un senso di mortale smarrimento se perdessimo le nostre "radici", se perdessimo ciò che consideriamo un "patrimonio culturale", anche se nessuno sa bene in cosa consista ? Cosa ci succederebbe se disimparassimo Dante, con le sue storie di inferni e paradisi, e Manzoni, col suo utilitarismo religioso ? Niente. Ma se ci avvicinassimo con animo nuovo alla vita e alla natura, qui, ora, senza passato, che poi non è altro se non un ricordo di morte, allora sicuramente sarebbe un passo avanti.
Ma forse tu ora stai pensando che questo rammarico non è zen, perché chi ha lo zen non rimprovera niente a nessuno, e invece Lin-Chi così ammoniva: "I seguaci dello zen devono solo appoggiarsi a se stessi, non lasciarsi ingannare dagli altri. Se incontrano un ostacolo lo devono abbattere; se incontrano un dio, lo devono uccidere, perché l'unica via della liberazione è uccidere tutti gli idoli e spianarsi la strada verso il vuoto, nel vuoto, nella libertà". E aggiungeva, comunque: "Lo zen cammina, non ha fretta".
Mia cara amica, vorrei ora mettere un po' di ordine nei miei pensieri e accennarti i temi, o gli elementi impliciti, nella pratica dello zen. Tutto nasce dalla domanda sul "perché " della nostra vita, e quindi dalla ricerca della coscienza di sé, dal senso del tempo, della morte, della solitudine, e da ciò che spinge gli uomini a superarli. Sul come superarli ti parlerò più avanti, quando vorrei anche confrontare l'approccio occidentale con quello orientale, parlando anche delle "tecniche" (yoga, meditazione, koan). E infine cercheremo di vedere i risultati, gli "illuminati".
Noterai sicuramente come, nel passaggio fra la seconda parte e la terza, le due culture divergano, perché, se meditazione c'è per tutti in una fase intermedia (gli Orientali si esercitano sui koan, circa 1700, e gli Occidentali sugli interrogativi esistenziali), i primi risolvono il problema in sintesi ed essenzialità, mentre gli altri sembrano ancora annaspare fra le parole e i concetti, e i vari tentativi di spiegarli che, essendo imprecisi, tanto più sono complessi. Insomma, lo zen in Oriente è come il picco di una montagna, in Occidente è come il mare, profondo e confuso, in cui ancora non si intravedono le cime, che pure ci sono. Il momento è comunque propizio. Ti ho detto che lo zen è indefinibile e incomunicabile: è un'intuizione, un'esperienza che non può essere spiegata in parole né si basa su tradizioni scritte o su procedimenti scientifici. Qualcuno ha tentato di renderlo palpabile, di indicarlo. Io vorrei cercare di stringere ancora di più il cerchio per cercare di avvolgere questo spirito ineffabile, ma ti dico subito che, quando il cerchio sarà chiuso, non avrò lo zen, ma solo la conoscenza di esso, che, ripeto, è tutt'altra cosa. Potrei anche cercare, per esempio, di descriverlo dicendo tutto ciò che non è, ma il punto di arrivo sarebbe lo stesso perché, anche se si dicesse tutto ciò che non è, lo stesso riuscirebbe inafferrabile.
Solo con l'illuminazione di se stessi si ha lo zen. D'altra parte, come diceva un tale: "Cosa ti posso offrire, che non sia già dentro di te ?", che corrisponde, più o meno a: "E' difficile capire, è difficile spiegare, se non hai capito già" (F.Guccini).
E qui cominciamo con i paradossi, che gran parte hanno nella pratica di avvicinamento allo zen. Ma non c'è altro mezzo per cercare di sfruttare al massimo la potenzialità delle parole, anche se: "Le parole ! Cosa vorrei poter dire ! Ma esse non sono altro che passanti frettolosi dell'anima e nessun osservatore, per quanto attento e profondo, potrà svelare e trarre fuori l'incredibile energia di cose racchiuse attraverso millenni e conservate nell'anima" (V.Hugo)
Ma: "Se si ha lo zen non si ha più paura: i dubbi e i desideri superflui si dissolvono; si vince la schiavitù delle passioni. Si è in grado di osservare la propria fine come un petalo che cade da un fiore, con serenità" (O.Senzaki).
Ecco perché è importante cercare di comprendere quest'essenza: perché sta a fondamento delle nostre più intime aspirazioni. E non è detto che sia difficile, dal momento che, superando ogni approccio intellettualistico, lo zen si concede a volte senza sforzo all'intuizione di chi vuole veramente possederlo. Molto è dunque affidato alla nostra sensibilità, a cui si chiede una certa tranquillità nel lasciarsi andare alle suggestioni che riceverà dalle parole. Le parole in sé non contengono lo zen, come la luce di un fiammifero non contiene il sole, ma anche una breve illuminazione può venirci da una piccola fiamma, come da una semplice parola. (continua)

A cura di Giuseppe Cerone

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