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Antigua
di Jose Maria Eguren
Antica
Traduzione a cura di Enrico Pietrangeli

De la herbosa, brillante hacienda
en la capilla colonial,
se veían los lamparines
cerca de enconchado misal.
Y en solitarias hornacinas
de vetusto color añil
cuatro madonas lineales,
óleos de negro marfil.
Y su retablo plateresco,
su columnas de similor,
estaban mustias, verdinosas
por el tiempo deslustrador.
Y los pesados balaustres
e incrostaciones de carey
eran de años religiosos;
quizá del último virrey.
Era obra de antiguos jesuitas,
techo de roble y alcanfor,
que despedía de murciélago
un anciano y mustio olor.
Sus caprichosos ventanales
veían pesebre y pancal
donde trinaban golondrinas
al balido del recental.
Oíamos arrodillados
los niños desde el coril,
la misa llena de murmurios
y de fresco aroma cerril.
Divisábamos cerro alegre,
por el antiguo tragaluz,
la murmuradora compuerta
y los sauces llenos de luz.
Y llegar oímos un coche
de híspidos galgos al rumor;
dos huéspedes se acercaron
y una niña de Van Dyck flor.
Estaba de blanco vestida,
con verde ceñidor gentil,
su cabello olía a muñeca
y a nítido beso de abril.
Diamante era en luces añosas,
luz en cofre medioeval;
acallaba aroma de cirio,
con su perfume matinal.
Y nos miraba dulcemente
con primaveril sensación,
junto al melodio desflautado
que era de insectos panteón.
Relinchaban en el presebre
el picazo y el alazán;
soñamos pasear con ella
a la luz del día galán.
Llevarla ofrecimos, fugaces,
por la toma, por el jardín,
por la cerrada vieja colca
y por de la hacienda el confín.
Sus mejillas se coloreaban
con primaveral multiflor,
sus lindos ojos se dormían
al áureo y tibio resplandor.
Y nos hablaba con dulzura
y cariñosa inquietud;
cundían sueños plateados
al ígneo sol de juventud.
Sonó la campanilla clara
seguida de dulce rumor
de los tábanos. Nuestros padres
los de ella oraban con fervor.
Al lado, con grandes espuelas,
rezaba ronco el caporal,
y también los peones que saben
misterios del cañaveral.
La acequia de cal y canto
que iba del estamque al jardín,
nos lammaba con el ensueño
de madreselva y de jazmín.
Correr ansiamos con la niña
y en Camelote navegar,
para sentir, al aire verde,
un repentino naufragar.
Y salvarnos en la isla rosa
vivienda del insecto azul,
como en el árbol de los cuentos
donde canta el dulce bulbul.
O llegar a la gruta vistosa
con los brillos del zacuaral,
que habita el hada del estanque,
que es una garza virreinal.
Mas ella lanzó agudo grito
a un pajizo reptil zancón,
y los orantes la rodearon
blacos de desesperación.
En su cara sombras de muerte
y de amargura descubrí:
tenía en la pierna celeste
un negro y triste rubí.

 

Jose Maria Eguren

Dell’erbosa, raggiante tenuta,
nella cappella coloniale
s’intravedevano i lampadari
prossimi all’ornato messale.
Ed in solitarie nicchie
di vetusto, color indaco:
quattro madonne allineate,
olî sacri di nero avorio.
E sull’altare plateresco
colonne similoro,
logore e ammuffite
dal tempo che divora.
Ed i pesanti balaustri,
le incrostazioni, da testuggine marina,
erano di anni religiosi;
di quell’ultimo viceré, probabilmente.
Era opera di antichi gesuiti:
tetto di rovere e canforo
sprigionava un vecchio,
stantio olezzo di pipistrello.
I capricciosi finestroni
guardavano sulla campagna
dove garrivano rondini
al belato dell’agnellino.
Sentivamo, inginocchiati,
i fanciulli del coro cantare,
la messa, piena di mormorii
e di un fresco, scabroso aroma.
Scorgevamo gaio colle
dall’antico abbaino,
un cigolante portello
ed i salici, pieni di luce…
Giunse, quindi, una carrozza
nel rumore d’ispidi levrieri;
si approssimarono due ospiti
ed una bimba, di Van Dyck il fiore.
Era di bianco vestita,
cinta di un verde gentile,
capello odor di bambola
e di puro, bacio d’aprile.
Era diamante in luci lontane,
lume di scrigno medioevale;
del cero emanava fragranza
col suo profumo mattutino.
E ci guardava, dolcemente,
col suo tocco primaverile,
insieme all’armonio usurato
che degli insetti era il pantheon.
Nitrivano dalla mangiatoia
il rabicano ed il morello;
un sogno cavalcarle a fianco
alla luce del dì galante…
Ci offrimmo di portarla, subito,
traversando il giardino,
al rinchiuso vecchio silos,
ai bordi della stessa fattoria.
Le sue guance viravano
in rinnovate infiorescenze,
i suoi occhi, radiosi, riposavano
nell’aureo splendore del tepore.
E ci parlava con leggiadria
ed affettuosa inquietudine.
Argentei sogni si propagavano
all’igneo sole di giovinezza.
Suonò la campanella, nitida,
seguita dal dolce rumore
dei tafani. I nostri genitori
e quelli della bimba
pregavano, con fervore.
A fianco, con grandi speroni,
roco intonava l’orazione il fattore
e con lui, altresì, los peones,
dei misteri del canneto padroni.
Si snodava un fossato in calce
tra lo stagno ed il giardino
catturandoci in fantasticherie
di caprifoglio e gelsomino.
Brama di correre con la bimba
e navigare in Camelote
per sentire, nell’aria verde,
un improvviso naufragare.
E salvarci nell’isola rosa,
dimora di azzurro insetto,
come in un albero di fiabe
dove, soave, canta l’usignolo.
O giungere nella rilucente grotta,
tra splendori di zuccherose canne
dove dimora la fata dello stagno
che non è che un airone vicereale.
Ma la bimba lanciò stridule grida
ad un informe rettile paglierino;
si disposero intorno, pregando,
tutti pallidi dalla disperazione.
Scoprii amarezza, ombre di morte,
scorrere sul suo volto:
triste rubino nero tratteneva
sopra la pia, celeste coscia.

Jose Maria Eguren
traduzione di Enrico Pietrangeli


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