DAGON
di H.P.Lovecraft
(1890-1937)
Trad. a cura di Marco
R. Capelli
Apparsa per la prima volta su PB6 Luglio
2003
Sto
scrivendo queste righe in uno stato di comprensibile
tensione, dal momento che prima che scenda
la notte, io cesserò di esistere.
In miseria ed senza più scorte di questa
droga, che, sola, rende la mia vita sopportabile,
non sono in grado di sopportare oltre questa
tortura e non posso fare altro che gettarmi
da questa stretta finestra giù nello
squallore della strada là sotto.
Ma non pensate, a causa della mia schiavitù
per la morfina, che io sia un debole o un
degenerato.
Quando avrete letto queste pagine così
malamente vergate, potrete intuire, anche
se non sarete mai in grado di capire veramente,
perché io debba, necessariamente, dimenticare
o morire.
Fu in una delle parti meno frequentate dell'immenso
Pacifico che la nave sulla quale ero imbarcato
venne catturata dai corsari Tedeschi. La Grande
Guerra era solo all'inizio così che
la marina Tedesca non era ancora scesa ai
livelli di degradazione che avrebbe raggiunto
negli anni successivi, il nostro vascello
venne quindi considerato una legittima preda
e noi, dell'equipaggio, fummo trattati con
estrema correttezza in qualità di prigionieri
di guerra. Tanto liberale era, infatti, la
disciplina impostaci dai nostri carcerieri
che appena cinque giorni dopo la cattura,
riuscii a fuggire, da solo, su di una scialuppa
nella quale avevo caricato cibo e acqua sufficienti
per parecchi giorni.
Quando, finalmente, fui libero ed al largo,
mi resi conto di non avere la minima idea
di dove mi trovassi. Non ero mai stato un
navigatore competente e tutto quello che potevo
dedurre dalla posizione del sole e delle stelle,
era che mi trovavo da qualche parte a sud
dell'Equatore. Non avevo nessuna idea della
longitudine e non c'erano isole o coste in
vista. Il tempo si mantenne buono e per molti
giorni continuai a galleggiare impotente sotto
il sole bruciante; aspettando di essere raccolto
da qualche nave di passaggio o di raggiungere
la costa di qualche terra abitata. Ma non
incontrai né una nave né alcun
segno di terraferma e cominciai a disperare,
completamente solo in quell'interminabile
distesa blu.
Il mutamento avvenne mentre ero addormentato.
Non saprò mai realmente come, perché
il mio sonno, seppur tormentato di incubi,
non ne fu interrotto. Quando, infine, mi svegliai
fu per scoprirmi semiaffondato in una distesa
di melma nera come l'inferno che si estendeva
tutt'intorno a me fino a dove potevo guardare
e nella quale la mia scialuppa stava arenata
a pochi metri da me.
Si potrebbe facilmente pensare che la mia
prima reazione ad un cambiamento così
prodigioso ed inatteso fosse di grande meraviglia
, ma io ero in realtà assai più
terrorizzato che stupito; c'era nell'aria
ed in quella fanghiglia putrescente un qualcosa
che mi gelava fino al profondo. L'area era
resa putrida dalle carcasse in decomposizione
di molti pesci e di altre creature meno facili
a descriversi che vedevo spuntare dal fango
disgustoso di quella pianura senza fine. Forse
dovrei rinunciare al tentativo di tradurre
in semplici parole l'orrore insopportabile
che deriva dal silenzio assoluto di una immensità
desolata. Non c'era nulla da udire e nulla
da vedere tranne quella immensa distesa di
fango nerastro e, tuttavia, l'assoluta immobilità
e l'omogeneità del paesaggio mi opprimevano
di un terrore nauseante.
Il sole bruciava in un cielo crudele e privo
di nuvole, quasi nero, come se riflettesse
la palude di inchiostro che si stendeva sotto
ai miei piedi. Quando mi arrampicai nella
scialuppa arenata mi resi conto che soltanto
una teoria avrebbe potuto spiegare la mia
posizione. Per effetto di un incredibile sollevamento
vulcanico, una porzione del fondale oceanico
doveva essere stata portata alla superficie,
riportando alla luce regioni che per innumerevoli
milioni di anni erano state celate dalle incommensurabili
profondità oceaniche. Così enorme
era l'estensione della terra che era emersa
sotto di me che, per quanto tendessi l'orecchio,
non riuscivo ad avvertire il minimo rumore
dell'oceano che la circondava, né vi
erano uccelli marini in cerca di cibo tra
le carcasse in decomposizione.
Per diverse ore restai seduto pensando e riflettendo
nella barca che, inclinata su di un lato,
costituiva l'unica sorgente d'ombra mentre
il sole si muoveva implacabile nel cielo.
Durante la giornata il terreno acquistò
una certa compattezza, in breve tempo sarebbe
stato sufficientemente asciutto per incamminarsi.
Quella notte dormii pochissimo ed il giorno
successivo fabbricai una sacca da riempire
con cibo ed acqua, in preparazione del viaggio
in cerca del mare scomparso e di un possibile
salvataggio.
La terza mattina giudicai che il terreno
si fosse asciugato a sufficienza. L'odore
di pesce si era fatto intollerabile, ma preoccupazioni
troppo gravi mi occupavano la mente perché
io me ne curassi più di tanto, così
mi avviai con determinazione verso una meta
sconosciuta. Per tutto il giorno mi diressi
costantemente verso Ovest, guidato da una
lontana elevazione che si sollevava più
di ogni altra in quel deserto ondulato. Quella
notte dormii all'addiaccio ed il giorno successivo
continuai a dirigermi verso l'elevazione,
sebbene non sembrasse molto più vicina
di quando l'avevo scorta per la prima volta.
Nel pomeriggio del quarto giorno, raggiunsi
la base del tumulo, che si rivelò essere
assai più alto di quanto non sembrasse
da lontano. La vallata che lo circondava evidenziava
ancor più il contrasto con la superficie
che si stendeva alle mie spalle. Troppo stanco
per iniziare la scalata, mi addormentai all'ombra
della collina.
Non so perché i miei sogni furono
così disturbati quella notte; ma il
crepuscolo era passato ed una luna assurdamente
ricurva era sorta al di sopra della pianura
che si stendeva ad Est quando mi svegliai
coperto di sudore gelido, determinato a non
riaddormentarmi. Sapevo che non avrei potuto
sopportare nuovamente le visioni che avevo
sperimentato. Ed al bagliore della luna mi
resi conto di come fossi stato poco saggio
a viaggiare durante il giorno. Senza il bagliore
bruciante del sole il mio viaggio mi sarebbe
costato assai meno energia. Infatti, mi sentivo
perfettamente in grado di tentare la scalata
che durante il giorno mi era sembrata troppo
difficile. Raccogliendo la mia sacca mi avviai
verso la sommità del monte.
Ho già detto che l'ininterrotta monotonia
di quella pianura ondulata era per me fonte
di un terrore indefinito, ma il mio orrore
crebbe ancora quando finalmente raggiunsi
la cima della collina e guardai dall'altro
lato, giù nelle profondità di
un abisso incommensurabile nei cui meandri
la luna non era ancora alta a sufficienza
nel cielo per penetrare. Mi sentii come se
mi trovassi al limite estremo del mondo, spiando
oltre il bordo nell'incommensurabile caos
della notte eterna. Nonostante il terrore,
curiosamente mi venne alla mente il Paradiso
Perduto e l'orribile scalata di Satana attraverso
l'informe reame delle tenebre.
Quando la luna si fu arrampicata più
in alto nel cielo, iniziai a rendermi conto
di come le pareti delle valli non fossero
così verticali come avevo immaginato.
Cenge e sporgenze rocciose costituivano un
facile appiglio per la discesa mentre, dopo
un primo salto di alcune centinaia di piedi,
la pendenza diventava assai più moderata.
Spinto da un impulso che non saprei definire
con certezza, mi calai con difficoltà
attraverso la parete di roccia e raggiunsi
il più morbido pendio sottostante,
dove mi fermai a fissare le profondità
stigie nelle quali la luce, ancora, non riusciva
a penetrare.
All'improvviso la mia attenzione fu catturata
da un oggetto enorme e dall'aspetto singolare
che si trovava sul pendio opposto, che si
alzava ripidamente a poco più di un
centinaio di yarde dalla mia posizione. Un
oggetto che biancheggiava ora sotto i raggi
della luna che si levava. Mi resi conto ben
presto che si trattava soltanto di un gigantesco
blocco di pietra, ma provavo la chiara e distinta
sensazione che né la forma né
la posizione potessero essere opera della
natura.
Un esame più attento mi emozionò
oltre ogni possibile descrizione poiché,
nonostante il suo peso impressionante e la
sua posizione sul fondo di un abisso che aveva
oziato nelle profondità del mare sin
da quando il mondo era giovane, io ero in
grado di percepire senza alcun dubbio che
quello strano oggetto era un monolito accuratamente
lavorato la cui massa possente aveva conosciuto
la perizia e forse l'adorazione di creature
viventi e pensanti.
Stupefatto e spaventato, eppure non senza
provare un eccitamento simile a quello di
uno scienziato o di un archeologo, esaminai
più attentamente l'ambiente che mi
circondava. La Luna, ora vicina allo zenit,
irradiava una luce chiara e misteriosa attraverso
i balzi torreggianti che racchiudevano il
crepaccio, e mi rivelò che un corso
d'acqua che non avevo notato scorreva sul
fondo, serpeggiando fuori vista da ambedue
i lati e quasi toccando i miei piedi mentre
stavo immobile sul pendio. Dall'altro lato
del crepaccio la corrente lambiva la base
del ciclopico monolito sulla cui superficie
potevo ora scorgere iscrizioni e rozze sculture.
Le scritte erano composte in un sistema di
geroglifici che mi era completamente sconosciuto
e che, a differenza di qualunque cosa avessi
mai visto sui libri, consisteva principalmente
in una serie di simboli marini convenzionalizzati,
quali pesci, anguille, polipi, crostacei,
molluschi, balene e simili. Molti caratteri
rappresentavano creature marine che dovevano
essere sconosciute nel mondo moderno ma le
cui forme, in decomposizione, avevo osservato
sul fondale oceanico sollevatosi.
Furono i bassorilievi, tuttavia, ad affascinarmi
più di ogni altra cosa. Chiaramente
visibile anche attraverso il corso d'acqua
che ci separava, per via dell'enorme dimensione,
c'era una serie di bassorilievi i cui soggetti
avrebbero destato l'invidia di un Dorè.
Penso che quelle cose volessero rappresentare
degli esseri umani , o perlomeno un qualche
tipo di essere umano, anche se le creature
venivano rappresentate mentre nuotavano come
pesci o nell'atto di recare omaggio a templi
monolitici che davano, anch'essi, l'impressione
di essere costruiti sotto la superficie del
mare. Delle loro facce e delle forme non oso
parlare in dettaglio, perché anche
il solo pensarvi fa vacillare i miei sensi.
Grotteschi oltre l'immaginazione di un Poe
o di un Bulwer, restavano orrendamente umani
nelle loro linee generali nonostante mani
e piedi palmati, labbra orribilmente larghe
e flaccide, occhi acquosi e sporgenti ed altre
caratteristiche meno piacevoli da ricordare.
Curiosamente, sembrava che fossero stati scolpiti
completamente fuori proporzione rispetto a
ciò che li circondava, ad esempio una
di quelle delle creature veniva mostrata nell'atto
di catturare una balena che era stata raffigurata
soltanto di poco più grande della creatura
stessa. Notai, come ho detto, il loro aspetto
grottesco e le loro dimensioni, ma decisi
rapidamente di trovarmi semplicemente di fronte
agli dei immagini di una primitiva tribù
di pescatori o di marinai; una tribù
i cui ultimi discendenti erano morti ere prima
che il primo antenato dell'uomo di Piltdown
o di Neanderthal vedesse la luce. Paralizzato
da questa visione inattesa di un passato al
di là dell'immaginazione del più
ardito antropologo, restai immobile, assorto
nelle mie meditazioni, mentre la luna proiettava
strani riflessi sul canale silenzioso di fronte
a me.
Poi, all'improvviso, la vidi. Con soltanto
una leggera increspatura a marcare il punto
in cui era risalita in superficie, la cosa
scivolò sull'acqua oscura fino a giungere
in piena vista. Enorme ed abominevole, si
avvicinò velocemente, come un stupendo
mostro uscito da un incubo, al monolito sul
quale gettò le braccia gigantesco e
coperte di scaglie, mentre inarcava la testa
orribile emettendo suoni misteriosamente modulati.
Penso di essere impazzito in quel momento.
Della mia frenetica fuga su per il pendio
e per la scogliera, e di come, fra i deliri,
io sia riuscito a ritornare alla barca arenata,
ricordo assai poco. Credo di avere cantato
a lungo e riso assurdamente quando non riuscivo
più a cantare. Conservo l'indistinto
ricordo di una spaventosa tempesta poco dopo
che ebbi raggiunto l'imbarcazione; o, per
lo meno, so di aver udito il rombo dei tuoni
e gli altri suoni che la Natura produce solo
quando si trova dell'umore peggiore.
Quando riemersi dalle nebbie, mi trovavo
in un ospedale di San Francisco; portato lì
dal capitano della nave americana che aveva
raccolto la mia scialuppa nel mezzo dell'Oceano.
Durante i miei deliri avevo parlato molto,
ma scoprii che nessuno aveva dato importanza
alle mie parole. I miei soccorritori non sapevano
nulla di sollevamenti di terre nel Pacifico,
né io ritenni opportuno insistere troppo
su di un argomento sul quale sapevo che non
sarei mai stato creduto. Una volta entrai
in contatto con un famoso Etnologo e lo divertii
con strane domande relative all'antica leggenda
Filistea di Dagon, il dio-pesce; ma rendendomi
ben presto conto di come le sue opinioni fossero
convenzionali senza speranza, non insistetti
oltre con le mie domande.
E' di notte, specialmente quando la luna
è arcuata e nebbiosa, che lo vedo.
Ho provato con la morfina, ma la droga mi
ha dato solo un sollievo temporaneo e mi ha
trascinato tra le sue spire come uno schiavo
senza speranza. Così, ora, dopo avere
scritto questo resoconto completo per l'informazione
o il divertimento dei miei simili, sono sul
punto di farla finita con tutto quanto. Spesso
mi chiedo se non possa essere stata davvero
tutta un'illusione, un prodotto mostruoso
della febbre che mi divorava mentre giacevo,
delirante e bruciato dal sole sulla scialuppa
durante la mia fuga dai militari tedeschi.
Questo mi chiedo, ma ogni volta, in risposta,
mi riappare di fronte agli occhi una visione
orribilmente vivida. Non posso pensare alle
profondità del mare senza rabbrividire
al pensiero delle cose senza nome che potrebbero,
in questo stesso momento, strisciare e barcollare
sui fondali fangosi, adorando i loro antichi
idoli di pietra e scolpendo le loro orribili
fattezze su obelischi sottomarini di granito
imbevuto di acqua. Nei miei incubi vedo il
giorno in cui potrebbero sorgere sopra le
onde per schiacciare sotto i loro talloni
nauseabondi ciò che rimane del miserabile
genere umano stremato dalla guerra, del giorno
in cui la terra sprofonderà e l'oscuro
fondale oceanico risalirà nel pandemonio
universale.
La fine è vicina. Odo un rumore alla
porta, come se un immenso viscido corpo vi
si stesse strofinando contro. Non deve trovarmi.
Dio, quella mano! La finestra! La finestra!
© H.P. Lovecraft
1917
Trad. A cura di Marco R. Capelli
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