I Dolore
Non so più cosa fare,
ho esaurito tutte le risorse, sono
sdraiata qui,
tutto il mio corpo teso al tocco
della paura,
e la mia mente,
soffocata come se i nervi
si rifiutassero di lasciare che
i pensieri si formino,
non è più un luogo
sicuro dove ritirarsi, una casa
ordinata,
non risponde più
ai bisogni del mio corpo, non fa
più scudo
con belle parole, come prima avrebbe
fatto ogni giorno,
al mio pozzo di terrore. Ora, lentamente,
il mio cuore, le mie mani, tutto
il corpo si abbandonano
alla paura. Letto, corsia, finestre
iniziano
a perdere la loro solidità.
I volti non sono più
gentili o desiderati, ma combatto
ancora il terrore
più grande - l'oblio - che
l'ago mi inietta.
II La corsia
Chi con le fotografie dei nipoti,
chi parlando della sua malattia,
chi con il ricordo del suo giardino,
chi col suo matrimonio - ognuno
tiene a bada la morte costruendo
intorno al proprio male
un passato che, a suo tempo, non
ha mai onorato.
Il sole scorre attraverso la finestra,
la terra si solleva
dolcemente verso questa nuova stagione.
Boccioli
si arrampicano nel mondo sano dove
nessuno pensa
al dolore. E i pazienti non vogliono
che ci si pensi;
la loro protezione è fatta
di piccole cose -
il sogno la notte scorsa, una foto,
un'immagine.
III Dopo un intervento
Cosa dire innanzitutto? Capivo
di aver paura,
non nel modo in cui avevo paura
quando ero sveglia e stavo bene,
voglio dire semplicemente
che la paura è diventata
assoluta e ne sono diventata
succube; lei chiamava, io obbedivo.
La paura, che prima era particolare,
legata a questa o quest'altra immagine,
parola, evento,
qui è diventata generale.
Passato e futuro non
significavano nulla. Solo il presente
aveva
questa enorme, vaga paura, questo
unico desiderio.
Ma la vita si agitava sempre e
gli stessi nervi sono divenuti
colpi che fanno male crescendo,
sensibili
non alla morte ma ad altri modi
di vivere.
E ora sono convalescente, la paura
non può pretendere
di avere pieni poteri. Ma non sono
più la stessa.
IV Pazienti in una corsia pubblica
Come bambini ora, un letto accanto
all'altro,
con i fiori dove, in una vera infanzia,
ci dovrebbero
essere giocattoli, segretamente
ci prendiamo cura della nostra malattia,
e quando parliamo lo facciamo per
compiacerci
del fatto che ancora non siamo morti.
Tutto è tenuto al sicuro
- il mondo sano
tenuto a distanza, su una corda.
Là dove le cose umane come
odio e speranza
persistono. Il mondo che conosciamo
è pieno
di cose di cui abbiamo bisogno,
non belle
ma desiderate - un bicchiere da
tenere
e da cui sorseggiare, un cubetto
di ghiaccio, una pillola
che ci aiuta a dormire. Ma in questo
nido caldo e
isolato, il minimo allarme
parla chiaramente di morte. Le nostre
paure si ingrandiscono,
non ci sono più posti in
cui nascondersi
e non c'è più pace
nel giacere immobili.
V I visitatori
Mi fanno visita e cerco di mantenere
un sorriso affabile sul mio viso.
Anche qui
le formalità sono necessarie,
nessuna relazione
profonda, solo un modo per mettere
da parte
le emozioni; la paura che
sentivo la notte scorsa è
sepolta in un sonno narcotico.
Arrivano, e tutta la loro gentilezza
mi fa venir voglia
di piangere (dicono che i malati
piangono facilmente).
Quando se ne andranno sarò
fiacca e debole,
il mio cuore batterà e inciamperà
all'impazzata;
ma attraverso la mia malattia posso
vedere
un desiderio indelebile che nessun
dolore, nessuna paura può
domare.
La vostra assenza è stata
più forte di ogni dolore
e sono felice di scoprire che, quando
la mente
è più debole, è
a voi che torna sempre.
Attraverso tutte le notti rumorose
in cui,
bruscamente svegliata,bramavo che
il giorno
e la luce arrivassero - in quel
deserto malato eravate la vita,
la pioggia.
VI Ospedale
Osserva le ore che sembrano restare
fra questi letti e fermarsi finché
un grido irrompe nel tempo per provare
che il genere umano soffre ancora.
Osserva i lunghi fiori avvizziti,
un momento così coraggioso
per uno sguardo.
Gli occhi febbricitanti guardano
fra le ore
e i petali cadono lasciando morbide
orme.
Un mondo dove il silenzio non afferra,
ha solo un'esitante piccola stretta.
Mani fiacche stringono le coperte,
menti scivolano via lentamente dai
loro corpi.
Anche se qui non si parla mai di
morte,
essa è più palpabile
e sentita -
mentre tocca una guancia o in una
lacrima -
con la sua presenza in assenza.
Le grida soffocate, le tende tirate,
i fiori pallidi prima di cadere
-
il mondo stesso qui è ridotto
a ciò che è piccolo
e sofferente.
Le grandi filosofie vanno via
grandi parole se la svignano, come
fede, amore
il battito del cuore umano
è un conforto sufficiente.
Solo una persona, sognando, ritorna
a come si sentiva quando stava bene,
piange sotto il cuscino alla sua
mancanza
ma non può dire nulla, ma
non può dire nulla.
VII Per una donna con una malattia
mortale
Il verdetto è stato emesso
e tu giaci tranquilla
oltre la speranza, l'odio, la vendetta,
persino la compassione di sé.
Accetti con gratitudine i regali
- fiori, frutta -
goffamente offerti adesso che anche
i tuoi visitatori
Sanno che morirai di certo, è
solo questione di mesi,
sono silenziosi adesso, ridotti
a semplici gesti,
impotenti di fronte alla situazione,
forse odiandoti
perché sei proprio tu la
causa del loro disagio.
Anch'io, guardando dal mio angolo
provvisorio,
mi sento impotente e desidero qualcosa
di violento -
sola solidarietà? Non ne
sono sicura,
ma almeno qualcosa che spezzi la
terribile tensione.
La morte non ha diritto di arrivare
così silenziosamente.
VIII Pazienti
La violenza non fa paura.
Una tempesta qui sarebbe un sollievo,
un lampo un compagno nel dolore.
È l'impotenza, il modo in
cui giacciono
oltre l'amore, la paura, la speranza,
che mi spaventa. Vorrei gridare,
far scontrare la mia voce col silenzio,
schernire
questa sofferenza passiva. Si muovono
solo con dolore, i loro corpi sembrano
non dipendere più da sangue,
muscoli, ossa.
È come se solo l'aria
li tenesse vivi, oppure un solo
capriccio
dei macchinari, dei chirurghi,
dell'infermiera.
Anch'io sono una di loro, ma sto
abbastanza bene
da desiderare un semplice segno
di vita,
o da immaginare il mio peggioramento.
Elizabeth Jennings