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Autore
La madre scrive al figlio che
a fatica sbarca il lunario in mezzo alle difficoltà
di una città lontana. Scrive col dolore
nel cuore.
"Figlio, voglio solo vederti".
Non è finita qui. Molte altre parole
sono messe insieme in frasi sgrammaticate
e buttate giù come scarabocchi. Eppure
il dolore nel suo cuore è chiaro senza
alcun dubbio. È da tanto che non si
vedono.
Il figlio sa che sua madre lo aspetta ogni
giorno. Ma cosa può farci? Non ha soldi
per intraprendere il viaggio. Sopravvivere
ogni giorno è un problema. Devo partire
domani, in qualche modo; devo andare a trovare
mia madre, si consola così. Ma i giorni
diventano settimane, le settimane si trasformano
in mesi e i mesi in anni.
La madre aspetta il figlio ogni giorno.
Dico questo a proposito di mia madre. Qualsiasi
cosa io dica qui di seguito è su mia
madre. Ogni figlio avrebbe cose simili da
dire su sua madre in quest'India dove viviamo.
Parlerò ora della lotta per la libertà.
Non ha alcuna relazione diretta con mia madre.
A parte il fatto che io sono figlio di mia
madre. In tutta l'India ci sono madri che
hanno partorito figli come me. Cosa hanno
fatto quando i loro figli furono chiusi in
prigione nel nome della causa della libertà
della loro madrepatria?
I giovani uomini e donne dell'India furono
perseguitati e picchiati e gli furono rotte
le ossa dai lacchè del governo straniero.
Furono ammassati nelle prigioni. Cosa fecero
le loro madri nelle migliaia di case là
fuori? Non lo so dire con certezza. Ma so
bene cosa fece mia madre.
Sto buttando giù quello che successe
senza uno scopo preciso. Leggendo la lettera
di mia madre mi sono venuti in mente alcuni
vecchi ricordi. La storia di come andai da
Vaikom a Calicut per partecipare al satyagraha
del sale.
Ho qualcosa da dire prima di riportare questo
fatto. Non rivelo nessun segreto quando dico
che sto scrivendo questo nel 1937 o che l'India
non è ancora libera. Devo comunque
rivelare il segreto che ho ricevuto delle
botte e che sono stato perseguitato nel nome
di Gandhiji . Comunque, se mia madre non mi
avesse messo al mondo niente di tutto ciò
sarebbe successo. Mia madre non avrebbe patito
nessuna agonia mentale a causa mia. Perché
mia madre mi ha portato in questa terra di
schiavitù, povertà e indescrivibile
sofferenza? Forse tutte le madri d'India si
sentono chiedere la stessa domanda dai loro
figli. Oppure questa domanda deve rimanere
inespressa nelle menti di uomini e donne.
Perché l'India è così
povera? Non posso dire con orgoglio "Io
sono indiano". Non sono altro che uno
schiavo. Odio il paese schiavizzato che è
l'India. Ma
non è anche l'India
mia madre? Proprio come la madre che mi ha
messo al mondo ha delle aspettative su di
me, anche l'India non si aspetta qualcosa
da me? La terra d'India si aspetta di ricevere
il mio corpo morto proprio come mia madre
si aspetta di vederlo vivo.
Aspettative!
Ora ricordo.
Mia madre mi ha partorito. Mi ha allattato
al suo seno e mi ha fatto crescere. Ha fatto
di me un uomo. Mia madre dice che sono nato
dal suo desiderio. "Tu sei nato da me
dopo tenera attesa e intenso desiderio."
Ogni madre dice ciò alla sua prole.
Non so riportare qui i sentimenti che mi riempiono
il cuore. Come le catene che mi legano le
mani, mi vedo davanti celle della polizia,
prigioni, forche e davanti a loro poliziotti,
soldati, guardie carcerarie!
"L'India è una grande prigione
con alte mura che rinchiudono la mente e il
corpo!" Gandhiji disse questo. Non so
quando. Ricordo bene però le botte
che ricevetti a causa di Gandhiji. Fui picchiato
da un bramano di nome Venkateshwara Iyer.
Era il preside della scuola superiore inglese
di Vaikom. Sette colpi secchi con un bastone.
Questo accadde durante i giorni del satyagraha
di Vaikom.
C'era molta eccitazione e commozione in città
perché Gandhiji doveva arrivare.
C'erano grandi folle sulle rive del canale
e sul molo delle barche. Mi spinsi fra la
folla con altri studenti e raggiunsi la prima
fila. Vedemmo da distante Gandhiji sulla barca.
Un ruggito come proveniente dal mare si
alzò da migliaia di gole. Si alzò
come una sfida alle regole straniere, "Mahatma
Gandhi
ki
jai !"
Il fachiro mezzo nudo mostrò le gengive,
da cui mancavano due denti e sorrise quando
approdò al molo con le mani piegate
in saluto. C'era un forte rumore tutto intorno.
Entrò in una macchina scoperta. La
macchina avanzò attraverso la folla,
dirigendosi verso l'ashram del satyagraha.
Un numero di studenti si appese ad un lato
della macchina. Io era fra loro. In tutta
quella confusione avevo un desiderio! Toccare
il Mahatma, adorato del mondo! Sentii che
sarei caduto morto se non lo avessi toccato.
Metti che qualcuno tra le centinaia di migliaia
di persone mi vedesse?
Ero spaventato
e ansioso. Toccai leggermente Gandhiji sulla
spalla sinistra!
Nessuno lo seppe.
Quella sera quando tornai a casa lo raccontai
a mia madre con orgoglio. "Umma, ho toccato
Gandhi".
Mia madre che non aveva idea della natura
di questa cosa chiamata Gandhi tremò
di paura e costernazione. "O figlio mio
!"
disse mia madre, guardandomi a bocca aperta.
Ora ricordo.
Il nostro preside era contro il satyagraha.
Era anche contro Gandhi. Così aveva
proibito angli studenti di indossare il khadi
grezzo tessuto a mano . Aveva anche ordinato
di non visitare l'ashram.
Io indossavo il khadi in quei giorni; e andavo
all'ashram. Un giorno, come entrai in classe,
il preside mi chiamò. Disse ridendo
crudelmente, "Accipicchia! Guarda che
vestiti!"
Non dissi niente. Mi chiese di nuovo, "Mascalzone,
tuo padre si è mai vestito così?"
Io dissi, "No."
Un giorno entrai in classe circa tre minuti
dopo il suono della campana. Lui era in piedi
nella veranda con una bacchetta in mano.
Quando mi chiese perché ero in ritardo,
risposi che ero andato all'ashram.
"Chi ci hai portato?" Si mise eretto
e mi diede sei colpi sul palmo con la bacchetta.
"Non andarci mai più! Capito,
mascalzone?" Mi diede ancora un colpo
sul dorso.
Ma ci andai ancora.
Ricordo.
In quei giorni possedevo una camicia e un
dhoti di khadi. Solo una camicia e un dhoti.
Allora il khadi era un simbolo di protesta.
Giurai che non avrei mai indossato tessuti
stranieri. Dicevo che se fossi morto avrei
dovuto essere sepolto avvolto in un lenzuolo
di khadi.
Mia madre chiedeva, "Dove hai preso questo
tessuto grezzo che fa prudere?" Credeva
che il khadi sulla pelle facesse prudere!
Io dicevo, "Questo tessuto è fatto
nella tua terra, in India."
E così - Gandhiji, i fratelli Ali,
l'autogoverno, la dominazione britannica -
questi erano gli argomenti di conversazione.
I vecchi nella nostra città avevano
solo due giovanotti a cui potevano chiedere
di chiarire i dubbi sull'Inghilterra o sulla
Cina. Uno era il signor K.R. Narayanan. L'instancabile
Narayanan era il corrispondente speciale della
maggior parte dei giornali. E se qualcuno
mi faceva qualche domanda su qualche argomento
io raramente dicevo "non lo so".
Ma una volta fui incapace di rispondere.
Mia madre mi chiese, "Bene, questo Kanthi
metterà fine al nostro morir di fame?"
Era un grosso problema. Riguardava l'intero
paese. Io non ne sapevo niente. Ma dissi,
"Quando l'India diventerà libera,
smetteremo di morire di fame!"
Era l'anno 1930. Penso che fosse l'anno in
cui Gandhiji mandò dall'ashram di Sabarmati
la lettera con i suoi famosi undici punti
al viceré, Lord Irwin. Penso che fosse
stato un giovane inglese di nome Reynolds
che recapitò la lettera. Ma non fu
data nessuna risposta soddisfacente. Come
menzionato nella lettera, Gandhi iniziò
il suo programma di satayagraha. Gandhi partì
con settanta seguaci verso il mare vicino
a Dandi per infrangere le leggi sul sale.
Il governo britannico aveva imposto una tassa
perfino sul sale usato da migliaia di poveri
nel paese. Prima di iniziare la marcia su
Dandi che scioccò l'intero paese Gandhiji
annunciò, "O torno all'ashram
dopo esser riuscito a ottenere le nostre richieste,
o il mio cadavere galleggerà sul mare
arabico."
Gandhi morto? La questione echeggiò
dall'Himalaya a Kanyakumari e l'intero paese
fu in una ribollente confusione. Il governo
britannico usò tutti i suoi poteri
per opporsi agli indiani disarmati. I militari,
la polizia, le prigioni - il governo non era
altro che questo. Gandhiji e i suoi seguaci
furono arrestati sulla riva del mare vicino
a Dandi.
Come altre parti del paese, anche il Kerala
era in agitazione. Le persone che infransero
le leggi del sale sulla spiaggia di Calicut
furono trattate brutalmente secondo le istruzioni
del sovrintendente della polizia. Furono presi
a calci con pesanti stivali e picchiati con
dei lathi . Anche questi in mano a soldati
e poliziotti indiani!
Kelappan, Muhammed Abdur Rahiman e altri capi
furono arrestati. Altre persone contravvennero
alle leggi e vi furono ulteriori arresti.
E violenza della polizia. La cosa che più
lacerò il cuore, comunque, fu il trattamento
inflitto agli studenti sulla spiaggia di Calicut.
Studenti così giovani! I futuri cittadini
del Kerala. Furono battuti e atterrati dai
poliziotti. Centinaia di studenti giacevano
sanguinanti sulla spiaggia di Calicut, con
le teste rotte. Questa dichiarazione, fatta
da uno dei capi, è stata pubblicata
nel Mathrubhumi :
"I poliziotti hanno dovuto alzar le mani
e picchiare i poveri studenti che si erano
radunati sulla spiaggia di Calicut per fare
il loro dovere verso la patria! Erano solo
ragazzi, disarmati e innocenti. Le loro teste
e le loro braccia e gambe furono rotte da
poliziotti che sostengono di essere nati da
donne Malayali! Quando so che gli uomini ricchi
e di prestigio in questa città rimangono
in silenzio di fronte a tali avvenimenti,
perché dovrei incolpare i poliziotti
ignoranti che obbediscono ciecamente agli
ordini degli ufficiali superiori?"
Quelli erano giorni in cui gli uomini di prestigio
rimanevano in silenzio. Ma l'uomo comune non
stava in silenzio. Uomini e donne fecero marce
di protesta cantando canzoni di sfida.
Anch'io ci andai. Senza chiederlo a nessuno.
Lasciai i miei studi e andai a Calicut con
un compagno di nome Bavo. Bavo prese un gioiello
d'oro da casa sua. Lo vendemmo a Vaikom. Quella
sera mia madre cucinava in cuciva. Non sapeva
niente. Chiesi a mia madre un bicchiere d'acqua
come una specie di addio. Lo bevvi, la guardai
e me ne andai.
Avevamo paura che qualcuno ci seguisse. Scendemmo
a Ernakulam e camminammo fino alla stazione
di Edapalli. Era buio, già un bel po'
dopo il tramonto. Il treno era molto in ritardo.
Poi alcuni poliziotti entrarono. Tremavamo
di paura. Chiamarono uno ad uno e fecero delle
domande. Noi fingemmo di dormire. Uno di loro
mi colpì in pancia con un lathi e mi
chiamò. Mi puntò una luce in
faccia e chiese: "Tu dove vai, mascalzone".
Cosa dire? Avevo paura a dire che andavo a
Calicut per unirmi al Congresso. Mentii. "Vado
a Shoranur".
"Perché?"
Ancora una bugia. "Mio zio ha un negozio
di tè".
Per fortuna non mi fece più domande.
Stavano cercando un ladro. Comprammo i biglietti
per Shoranur, scendemmo qui, camminammo fino
a Pattambi e prendemmo di nuovo il treno per
Calicut. Lì soggiornammo alla Pensione
Al-Ameen. La prima cosa che feci fu quella
di scrivere a una persona che era venuta da
un posto vicino al mio villaggio. Era Syed
Mohamed che allora era nella prigione di Bellary.
Gli scrissi dicendo che avevo deciso di dedicarmi
al servizio della patria. Avrei usato tutto
il mio potere per rompere la catena di schiavitù
che la legava. Sarei subito andato incontro
all'arresto.
Mi rispose, "Ho più solo pochi
giorni. Poi sarò rilasciato. Potrai
unirti al Congresso solo dopo che ci vediamo
e parliamo." All'epoca era coeditore
del giornale Al-Ameen e un capo importante.
Lui, insieme a E. Moidu Moulavi e altri, era
stato duramente picchiato dal sovrintendente
di polizia, Amu. Io non avevo la pazienza
di aspettare fino al suo ritorno. L'India
stava per diventare libera il giorno seguente:
anch'io dovevo avere una parte nella lotta
per la libertà! Molti che appartenevano
alla mia religione non avevano partecipato
alla lotta per la libertà. Dovevo rimediare
a questo squilibrio.
Il mio compagno però non voleva entrare
nel Congresso. Provò a dissuadermi
in molti modi. Suo padre arrivò e mi
disse di tutto per aver indotto suo figlio
a scappare di casa. Capii che l'incidente
aveva causato un gran subbuglio a casa sua.
Mi sentii scoraggiato. Non ero io che ero
scappato di casa con suo figlio. Ma nessuno
mi avrebbe creduto, in quanto ero io il più
grande. Ero in una situazione critica. In
quel momento anche mio padre arrivò.
Mentii di nuovo. "Non sono entrato nel
Congresso. Né tornerò a scuola.
Sto cercando lavoro. Lo troverò presto."
Riuscii a calmare i sentimenti di mio padre
e lo rimandai indietro. Andai direttamente
all'ufficio del Congresso. Anche qui rimasi
deluso. Sospettavano che fossi pagato dal
C.I.D ! I loro dubbi furono rafforzati dal
mio diario. Avevo annotato cose in diverse
lingue - inglese, malayalam, tamil, hindi
e arabo. Lo avevo lasciato su una panchina
mentre andavo in bagno. Quando tornai trovai
che il Segretario lo aveva raccolto e lo stava
leggendo. Non poteva averci capito molto.
Ma gli aveva dato adito di dubitare di me.
Gli mostrai la lettera di Syed Mohamed. Anche
allora i suoi dubbi non si chiarirono. Cercarono
di giudicarmi dall'aspetto e dal mio comportamento.
Fotografie di capi nazionali erano appese
alle pareti. Vidi la foto di un uomo con baffi
sottili sul labbro superiore e uno sguardo
di discreta dignità. Portava un cappello
di feltro inclinato in modo disinvolto e una
camicia bianca con un largo colletto. Provai
sdegno nei confronti di questo capo vestito
con abiti stranieri e chiesi chi era.
Il segretario disse, "Bhagat Singh."
Mi venne un colpo al cuore quando lo sentii.
Il grande avventuriere Bhagat Singh! Non era
ancora stato impiccato. Avevo letto sui giornali
di tre rivoluzionari implicati nel caso della
cospirazione in Punjab - Bhagat Singh, Rajguru
e Sukhedev. Avevo sentito dei loro tentativi
di lanciare una bomba all'Assemblea e di far
esplodere il treno del viceré. Guardai
la fotografia attentamente. Il Segretario
disse, "Hai la stessa fisionomia di Bhagat
Singh. I baffi e il colletto sono identici.
Ti serve solo un cappello di feltro!"
Non dissi niente. Anch'io stavo pensando alla
somiglianza fra me e Bhagat Singh. Il Segretario
mi chiese di nuovo, "Sei veramente musulmano
tu?"
Io dissi, "Perché dubita?"
Gli raccontai la storia della mia vita fino
a quel momento. Finalmente mi chiese, "Sei
pronto ad andare alla spiaggia domani e a
fare il sale?"
"Sono pronto!" accettai.
Così ci alzammo presto al mattino.
Ci stavamo preparando ad iniziare con le pentole
di fango e le bandiere e altre cose quando
udimmo un thud-thud nelle scale. Fummo sorpresi
nel vedere qualcosa come sei o sette poliziotti
che entravano con un ispettore in carica.
Tutti noi undici fummo arrestati e portati
via.
Era una domenica mattina. Nessuno di noi aveva
mangiato niente. Ero debole e in debito di
sonno. Una folla ci seguì. Quando raggiungemmo
la stazione della polizia tutto il mio coraggio
svanì. Era la prima visita ad un posto
del genere. Spade, baionette e manette erano
appese alla parete e luccicavano in modo funesto.
Fui completamente intimidito dalle armi luccicanti
e dalle facce crudeli dei poliziotti. Il posto
mi ricordava la mia concezione dell'inferno.
Fummo allineati nella veranda. L'Ispettore
con sottili occhi grigi entrò dentro.
Un poliziotto robusto con le braccia lunghe
marciava avanti e indietro davanti a noi.
I suoi occhi rossi e rigonfi guardarono a
turno ognuno di noi. Il suo numero era il
270. Prese il nostro capitano per il collo
e lo spinse dentro l'ufficio. Udimmo rumori
di colpi, calci e forti grida. Tremai. Ero
il quarto della fila. Dieci minuti dopo il
secondo fu portato dentro.
Rabbrividii al sentire le sue urla che laceravano
il cuore. Decisi che avrei chiesto perdono.
Ma solo per un minuto. Perché mi dissi
nuovamente, perché chiedere perdono?
Non ho fatto niente di male. Quanti uomini
e donne hanno corteggiato la morte in nome
della libertà. Pensai a Bhagat Singh
e ai suoi compagni. Lasciatemi morire. È
il mio dovere!
Il poliziotto numero 270 chiedeva ad ognuno
di noi da dove venivamo. Gli altri rispondevano:
Cannanore. Tellicherry. Ponani. Mi chiese,
"E tu?"
Io dissi, "Vaikom!"
Vaikom. Mi guardò con sorpresa. "Il
tuo nome".
Gli diedi il mio nome. Il numero 270 alzò
la testa e mi chiese, "Travancore ha
un autogoverno? "
Risposi, "No. Gandhiji ha detto che non
ci devono essere lotte negli stati indiani."
"Hm". Grugnì ferocemente.
Phut-phut! Due colpi violenti caddero sulla
mia nuca! Poi mi prese per le spalle e mi
fece piegare giù. Iniziò a picchiarmi.
Sembrava che stesse picchiando su una pentola
di rame. Contai fino a diciassette. O forse
era ventisette. Dopo smisi di contare. Perché
mai continuare a contare?
Picchiato malamente, fui in fine scortato
dentro con l'aiuto di due poliziotti. Vedendo
lo stato in cui ero, l'Ispettore chiese, "Hm?".
Un poliziotto disse, "Nambiar si è
fatto un giretto".
L'Ispettore grugnì come se non fosse
niente, "Hm".
Un altro poliziotto mi tolse la camicia e
gli altri vestiti e registrò la mia
altezza, circonferenza e segni identificativi.
Alla fine mandarono noi undici in cella.
Era una piccola stanza di cemento. Nell'angolo
c'era una pentola piena di urina che emanava
una puzza fortissima. Non ci diedero niente
da mangiare quel giorno. La notte fu estremamente
fredda. Non c'era nessun tappeto su cui sdraiarsi.
Al mattino avevamo tutti la faccia gonfia.
Riuscivamo a malapena a camminare. Ci ammanettarono
e ci fecero camminare attraverso il bazar
fino alla corte con una scorta della polizia
con le baionette in mano.
Fummo trattenuti per quattordici giorni e
ci mandarono alla sotto-prigione di Calicut.
Qui, i miei compagni mi dissero in un secondo
tempo che quando il numero 270 si stancò
di picchiarmi con il pugno chiuso, si mise
ad usare i gomiti. Un volontario mi massaggiò
con l'olio. Mi disse che c'erano nove posti,
ognuno della dimensione di una moneta da una
rupia, dove il sangue era congelato e l'olio
non aveva fatto effetto.
Ricevetti nove mesi di imprigionamento rigoroso.
Fui portato alla prigione centrale di Cannanore.
Qui c'erano seicento prigionieri politici,
compresi T. Prakasam e Batliwala.
Il mangiare in prigione era pessimo. Nel pastone
di riso che ci servivano appariva uno strato
galleggiante di vermi. Li toglievamo prima
di mangiare. Avevamo notizie del mondo di
fuori quando arrivavano nuovi prigionieri.
Quando venimmo a sapere che Bhagat Singh e
i suoi compagni erano stati impiccati facemmo
uno sciopero della fame per tre giorni.
C'erano prigionieri da tutte le parti dell'India.
C'erano persone di ideologie diverse - rivoluzionari,
anarchici, socialisti e comunisti. Tutti comunque
avevano un obiettivo in comune, la libertà
per l'India. Dopo alcuni mesi fummo rilasciati
come risultato del patto Gandhi-Irwin. Io
non sapevo dove andare. C'erano molti volontari
come me. In molti non avevamo neanche un biglietto
del treno.
Avevo due desideri. Uno era di possedere uno
scialle. Il signor Achuthan mi comprò
uno scialle di kadhi con l'orlo ricamato.
Però, il mio primo desiderio era di
uccidere il numero 270! Ma non avevo armi.
Se solo potessi avere un revolver! Desideravo
possederne uno. Lo vidi a dirigere il traffico
all'incrocio di Palayam. Un demone alto sei
piedi. Se lo avessi colpito a man nude se
ne sarebbe a malapena accorto. Devo pugnalarlo
al petto con un coltello! Rubai un coltello
dalla Pensione Al-Ameen. Mentre lo stavo portando
via vidi Achthan. Era sorpreso di vedermi.
"Non te ne sei ancora andato?"
"No", dissi.
"Non vuoi andare a casa a rivedere tuo
padre e tua madre?"
Io dissi, "Devo fare una cosa prima".
Gli raccontai tutto. Mi portò in un
posto vicino alla cisterna di Mananchira parlandomi
molto gentilmente. "Sei un satyagrahi
?"
Mi raccontò la storia di come Gandhiji
perse i denti incisivi. "E se vuoi uccidere,
ricorda che non c'è un solo poliziotto
che meriti di vivere. Il poliziotto è
una parte indispensabile del governo. Le povere
creature sono solo degli strumenti. Qual è
lo scopo di incolparli? Sii paziente. Vai
a rivedere tuo padre e tua madre."
Achuthan mi mise sul treno. A Ernakulam rimasi
un mese all'Hotel Musulmano. Ero pieno di
insoddisfazione, dolore e senza voglia di
fare niente! Alla fine una notte raggiunsi
Vaikom. Da lì camminai fino a Thalayolaparambu.
Era mezzanotte passata, circa le tre di mattino.
A casa, quando entrai nel cortile, mia madre
chiese: "Chi è?". Inciampai
nella veranda. Mia madre accese una lampada,
e chiese, come se nulla fosse successo, "Figlio,
hai mangiato?"
Non dissi niente. Ero scosso, non riuscivo
a respirare. L'intero mondo dormiva! Solo
mia madre era sveglia! Mia madre mi portò
un recipiente d'acqua e mi disse di lavarmi
mani e piedi. Poi mi mise davanti un piatto
di riso.
Non mi chiese niente.
Ero sbalordito. "Come facevi a sapere,
Umma, che sarei venuto oggi?"
Mia madre rispose, "Oh, cucino il riso
e ti aspetto ogni sera."
Era una frase semplice. Ogni notte non tornavo,
ma lei stava sveglia da aspettarmi.
Gli anni sono passati. Molte cose sono successe.
Ma le madri aspettano ancora i loro figli.
"Figlio, voglio solo vederti
"
di Vaikom Muhammad Basheer
Traduzione a cura di Silvia Merialdo - woshisilvia@hotmail.com
Note del traduttore:
Il racconto qui proposto, Umma, è
uno dei primi e dei più popolari:
fu scritto nel 1937 ed è estremamente
genuino nel descrivere lo slancio e l'entusiasmo
di un ragazzo, Basheer stesso, che scappa
di casa e intraprende un viaggio per unirsi
alla lotta per l'indipendenza dell'India.
La mia traduzione deriva
dalla traduzione in inglese di V. Adbulla.
RINGRAZIAMENTI
Vorrei ringraziare Shahina e Anees Basheer,
figli dell'autore, che hanno consentito
la traduzione e la pubblicazione del racconto
qui proposto.
Un grazie di cuore a Prem Kumar, per avermi
fatto conoscere i racconti di Basheer
e la letteratura malayalam e per il suo
aiuto nella traduzione. Un ringraziamento
ad Andrea Barletta per i suoi suggerimenti
sulla traduzione.
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