Quando si parla di qualche personaggio dall'esistenza singolare si dicono frasi come: "La sua vita fu un romanzo" oppure "Il suo capolavoro fu la sua vita". Queste frasi sembrano fatte apposta per Vittorio Alfieri, il cui capolavoro, la sua "Vita", è l'autobiografia forse più celebre e più bella dell'intera letteratura italiana; questa vita è un vero e proprio romanzo pieno di scene "forti", di passioni travolgenti, di tentati suicidi, di ideali, di enfasi, di un indomabile furore e sdegno nei confronti di ogni tipo di meschinità.
Non manca neanche il riscatto morale del protagonista, che, dopo una giovinezza dissipata, si riabilita in età matura con un'incredibile e ferrea applicazione agli studi: il suo vagabondare irrequieto e il suo errare tra ideali imprecisati si trasformano così in un impegno morale e civile alla conquista della libertà. E dopo questo itinerario di riabilitazione compare il successo finale che corona le fatiche dell'autore. Ecco la storia dell'Alfieri, come egli stesso ce l'ha raccontata. Nato ad Asti nel 1749 da un conte molto tradizionalista e da una contessa molto devota e dai nobili sentimenti, nonostante ciò o forse proprio per questa ragione egli fu un ribelle. Fino ai diciassette anni frequentò l'Accademia di Torino, ma senza profitto: la sua vera passione erano i cavalli, amore che l'accompagnò per tutta la vita. Poi cominciò a vagare per l'Europa, dopo aver visitato l'Italia, che lui riteneva piena di "ipocriti fantocci". Anche all'estero trovò lo stesso ambiente fatto di cavalieri col codino incipriato e di damine leziosamente ignoranti, nonché di artisti di grande fama che s'avvilivano a fare la "genuflessioncella d'uso" agli insulsi e potenti sovrani delle varie corti. Un giorno, mentre vagabondava in preda alla sua rabbiosa furia di trovare qualche ideale per cui vivere e morire e mentre passava da un amore a un duello, da una crisi di disperazione all'esaltazione per la propria originalità e per il proprio ingegno, sorse in lui la precisa volontà di "farsi di ferro in un secolo in cui gli altri erano di polenta". Fu in un momento di noia e tranquillità che egli intuì la sua strada: era al capezzale di un ammalato, quando, per ammazzare il tempo, pensò di scrivere una tragedia su Cleopatra, la cui immagine sembrava guardarlo da un arazzo appeso al muro. Subito la scrisse, la limò, fece correggere tutte le sgrammaticature dovute alla sua scarsa istruzione e la fece rappresentare. Fu un successo enorme, con tre repliche applauditissime al Teatro Carignano di Torino: era la prima tragedia scritta decorosamente da un italiano dopo tanto, tanto tempo di silenzio. L'Alfieri capì subito che se voleva intraprendere la strada dell'arte e del teatro con dignità doveva al più presto formarsi una solida cultura.
Di qui la sua celebre frase "Volli, volli, fortissimamente volli" che lo portò a farsi tagliare la chioma fluente, senza la quale un conte dabbene non avrebbe mai varcato la soglia di casa, e a farsi legare alla sedia con corde strettamente annodate per poter "digerire" in un tempo relativamente breve una vera e propria montagna di libri.Aveva ventisette anni: dopo dieci anni spesi male, uno studio furibondo lo portò a formarsi una solida cultura classica. Per farci un'idea del suo teatro, potremmo fare ricorso a sei brevissimi suoi versi: "Mi trovan duro?/Anch'io lo so:/pensar li fo./ Taccia ho d'oscuro?/Mi schiarirà/poi libertà." Il teatro di Alfieri è appunto duro, talvolta oscuro, ma tutta questa durezza ed oscurità servono a far riflettere, a far pensare alla libertà, a quel grande ideale che pervade tutta l'opera del grande astigiano. Oggi questo teatro non si gusta più sulle scene se non in sporadiche occasioni, perché considerato "invecchiato", e attualmente invece si preferisce lo spettacolo. L'Alfieri invece detesta lo spettacolo, le vicende e i personaggi secondari e tutta la paccottiglia sentimentale-decorativa che caratterizzava le scene dei suoi tempi. Non potremmo capire bene la portata delle sue innovazioni teatrali se non ricordassimo cosa era diventato il teatro ai suoi tempi: uno spettacolo fine a se stesso, senza nerbo, senza niente di serio da dire. Le tragedie alfieriane, invece, sono caratterizzate dall'essenzialità e dalla stringatezza, che paiono così dure da sopportare. Il tema fondamentale trattato da Alfieri è la libertà, sentimento antico e sempre nuovo: soprattutto la libertà civile e politica. Pur senza trascurare le altre grandi passioni che travagliano l'animo umano, come l'amore o l'ambizione, egli esalta sempre la figura del ribelle, dell'eroe della libertà che si scaglia contro l'ordine costituito, contro la tirannia, contro l'obbedienza cieca a leggi e persone ingiuste. I suoi drammi vogliono insegnare il gusto di quell'eroica libertà: egli vuole così risvegliare le coscienze addormentate del suo tempo, additando come esempio i grandi modelli tratti dall'antichità classica. Così egli ce ne parla: "Io credo fermamente che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d'ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi. Tale era il teatro d'Atene, e tale non può essere mai un teatro cresciuto all'ombra di un principe qualsivoglia…". Da questi nobili intenti educativi traggono vigore i suoi personaggi: Bruto, Oreste, Antigone, Saul, Don Garzia; sono personaggi tutti d'un pezzo, personaggi che decalmano con enfasi eroica e non si dimostrano mai vili, ma sempre dei veri titani. Nel teatro di Alfieri non esistono personaggi scialbi o trascurabili: mancano le comparse, sono abolite quelle scene che non sono essenziali per il racconto; insomma, Alfieri va dritto al sodo. Tutti i personaggi delle sue tragedie, sia gli eroi che i tiranni, sono protagonisti e si fronteggiano apertamente, esprimendo il proprio preciso carattere fino all'esasperazione. La sua concezione, da questo punto di vista, è la stessa di quella della tragedia classica greca: dallo scontro diretto degli eroi contro la tirannia più bieca il pubblico può trarre lo spunto per educarsi. I fatti che accadono in ciascuno dei drammi alfieriani sono scarsi, perché tutto si incentra nel dialogo. Anzi, l'autore sopprime volutamente anche l'azione che logicamente dovrebbe concludere il dramma, il tirannicidio, la vittoria della libertà sull'oppressione: preferisce infatti lasciare nell'animo dello spettatore l'attesa di quella vendetta sacra, il desiderio della ribellione contro l'oppressore. Oppure, con molta più sottigliezza, preferisce mostrare la tirannia che uccide se stessa, il tiranno che va incontro da solo all'inevitabile punizione: è questo il tormento che agita il protagonista del suo capolavoro, il re Saul. La concisione dell'Alfieri, necessaria all'essenzialità dei suoi drammi, è diventata proverbiale. La prima scena del quarto atto dell'"Antigone" contiene ben cinque battute di dialogo in un solo verso: "Scegliesti? - Ho scelto. - Emon? - Morte. - L'avrai." L'ultima scena del secondo atto del "Filippo" è costituita di soli tre versi: "Udisti? - Udii. - Vedesti? - Io vidi. - Oh, rabbia! / Dunque il sospetto? - E' ormai certezza. - E inulto. / Filippo è ancor? - Pensa. - Pensai. Mi segui." E' un parlare cifrato, che rischia di far girare la testa allo spettatore o al lettore, ma serve a martellare un'atmosfera asciutta e drammatica, di sicuro effetto. A noi può dare fastidio questo linguaggio a cui non siamo abituati; e del resto anche allora esso veniva parodiato in molti modi. Basti pensare che tre begli spiriti del tempo composero una pseudo-tragedia alfieriana e la fecero anche rappresentare, spacciandola per autentica. C'erano solo tre personaggi: Socrate, sua moglie Santippe e il discepolo Platone. All'interno essa era costituita di veri e propri scioglilingua e discorsi stringati di questo tipo: " - Dillo. - Nullo. - Non sailo? - Sollo. - Sallo". La cosa più stupefacente è che il pubblico, scambiando la tragedia per un'opera autentica dell'Alfieri, si spellò letteralmente le mani per applaudire il nuovo "capolavoro". Basta questo episodio per far comprendere come i rinnovamenti operati da Alfieri nel teatro italiano fossero ormai entrati nel gusto del pubblico. Le tragedie di Alfieri ondeggiano tra Classicismo e Pre-Romanticismo: classica ne è la forma e la struttura, la scelta del linguaggio scarno ed essenziale; preromantici sono i fermenti nuovi di libertà e di passionalità, preromantico ne è il contenuto. Così le sue opere apparvero subito vivaci, nuove, moderne, eppure piene di distaccata misura nell'espressione che era segno della continuità con la tradizione. Le tragedie di Alfieri ebbero un successo strepitoso, grazie anche ai bravissimi interpreti che le portarono sulle scene, fino a tutto l'Ottocento romantico, che ben si riconosceva nel suo spirito ribelle precursore dei tempi nuovi. Ma non sta qui la grandezza dell'Alfieri: essa sta piuttosto nell'impegno severo, nella sua volontà di rendersi utile con la sua arte all'educazione civile e morale del pubblico. Questa certezza della propria missione lo animò fino alla fine, quando continuò a lavorare freneticamente nonostante la malattia che lo portò alla tomba, l'8 ottobre 1803.
OPERE DI VITTORIO ALFIERI
Tragedie (1775-1795): Cleopatra, Antigone, Polinice, Virginia, Agamennone, Oreste, La congiura de' Pazzi, Don Garzia, Maria Stuarda, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Agide, Sofonisba, Bruto I, Bruto II, Alceste seconda, Saul, Mirra;
Trattato "Della Tirannide" in due libri (1777);
Trattato "Del Principe e delle Lettere" (1777);
Satire (dal 1786 al 1797);
Rime (dal 1789 al 1803);
Misogallo (dal 1790 al 1798),
Tetralogia politica (commedie): L'uno, I pochi, I troppi, L'Antidoto (1801-1802)
La Vita di Vittorio Alfieri da Asdti scritta da esso (pubblicata postuma nel 1804)