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Marcel Proust nasce a Auteuil, nella tenuta di famiglia nei pressi di Parigi, 10 luglio 1871. I Proust vi si erano momentaneamente trasferiti durante gli ultimi mesi di gravidanza di Jeanne Weil, la madre, per sfuggire ai pericoli e alle privazioni che l’assedio prussiano, prima, e i tumulti della Comune, poi, facevano incombere sulla capitale. Lo stesso padre, Adrien, medico e stimato professore, aveva rischiato di essere colpito da una pallottola vagante in una strada della città. Primogenito, due anni più tardi nascerà il fratello Robert, di una altolocata famiglia borghese, ebrea per parte di madre (ma il bambino sarà regolarmente battezzato e comunicato come cattolico), trascorse un’infanzia apparentemente serena, protetta dalle cure e dalle attenzioni di una madre amorosa e di una famiglia solida e unita, epperò segnata anche da una salute malferma e da una pronunciata eccitabilità nervosa, che la mitologia familiare faceva appunto derivare dai pericoli e dalle privazioni sostenute dalla madre nel corso della gestazione. All’età di 10 anni, subito dopo una tranquilla passeggiata al Bois de Boulogne, fu colto da una violentissima crisi d’asma, che lo mise in pericolo di vita, e che la mitologia letteraria, a sua volta, fa risalire a origini psicosomatiche, per cui essa sarebbe la conseguenza di una morbosa gelosia nei confronti del fratello minore con il quale doveva parteggiare le cure e le attenzioni materne ( ma, come per tutte le mitologie, religiose, letterarie o familiari che siano, la plausibilità non è di per se certificazione di verità). In ogni caso, dal quel momento, la malattia, sottoforma di crisi respiratorie, allergie alle polveri o ai pollini, infreddature, febbri, sarà una presenza costante nella sua vita e lo costringerà a periodi più o meno lunghi di isolamento. E sarà anche un potente reagente che a contatto di un’ intelligenza e una sensibilità fuori misura arricchirà la sua opera letteraria, contribuendo, in forza di studio e autoanalisi, a darle una profondità e uno spessore assoluti. L’adolescenza e la prima giovinezza lo vedono primeggiare, in termini di intelligenza, cultura e carisma, al liceo Condorcet di Parigi (per altro non assiduamente frequentato, a causa della malattia). Stringe amicizia con un gruppo di coetanei appartenenti all’aristocrazia e alla più alta borghesia parigina. In questo ambiente e in questo periodo, scoprì e soffrì impulsi omosessuali che manifestò agli amici che li avevano suscitati e, in parte, condivisi, salvo poi trarsene indietro, senza per ciò ritirargli la loro stima e considerazione. Dell’omosessualità di Proust pochi, lui vivente, erano a conoscenza e, in ogni caso, non gli impedì di amare e “conoscere carnalmente” anche donne. Al liceo Condorcet conobbe e apprezzò gli insegnamenti del Professor Alphonse Darlu, suo insegnante al corso di filosofia, che lo influenzò profondamente e lo indusse a riflettere su se stesso e sulla perduta autenticità della felice infanzia (di ciò è testimonianza una bellissima lettera che il Proust diciassettenne scrisse al suo professore). Gli esordi letterari (1888-1894) sono legati dapprima a rivistine liceali poi a riviste letterarie di maggior spessore. Nel frattempo, anche grazie ai suoi amici e alle sue qualità, riusciva ad introdursi nei più ambiti salotti letterari dell’epoca e cominciò una carriera mondana che per qualche anno sembrò essere il suo scopo più urgente. Conobbe, tra gli altri, Alphons Daudet, dei cui figli, Léon e Lucien, restò fraterno amico per tutta la vita, e Anatole France. Il suo libro d’esordio, Les plaisirs et les jours (1896), che raccoglieva testi per lo più già pubblicati in rivista, novelle di vaga ascendenza simbolista e decadente, prose satiriche e di costume, poesie occasionali, nonostante la simpatetica prefazione di Anatole France e l’intrinseco, seppur solo abbozzato, valore letterario, ottenne un’accoglienza tiepida e contribuì a formare l’immagine di uno scrittore dotato ma frivolo, snob, dilettante. Negli anni successivi, l’ascesa mondana, che lo portò a frequentare l’ambiente più aristocratico della belle époque, nonché la collaborazione a giornali e riviste signorili (Le Figaro, in primis), per i quali spesso redigeva cronache mondane enfatiche e magniloquenti, consolidarono l’immagine di uno scrittore alla moda. Ma quest’immagine pubblica ne celava un’altra, fatta di contrasti familiari, a causa della dissipazione e dell’inconcludenza del suo stile di vita, e dell’accanito lavoro ad un romanzo autobiografico, il Jean Santeuil, di cui si avrà notizia solo negli anni ’50 del Novecento, e che non riusciva però a soddisfarlo. L’incontro con l’opera di John Ruskin, scrittore, filosofo, critico e storico dell’arte inglese (1819-1900), sembrò restituirgli per qualche tempo l’autentica vita dello spirito e fargli rivivere la gioia immediata dell’esperienza estetica da cui sentiva che la maturità lo aveva allontanato. La dottrina ruskiniana del nutrimento spirituale dell’erudizione e del valore morale della bellezza artistica o naturale sembrava poter placare la sua ansia esistenziale. Lesse, studiò, tradusse, commentò, annotò, in un febbrile lavoro di appropriazione, l’opera del Maestro, ma già nella prefazione alla sua traduzione di Sesamo e i gigli (1905) si avverte un cambiamento di rotta: si fa largo in Proust l’idea che la contemplazione della bellezza e l’erudizione non siano altro che vie complanari al tragitto che conduce alla verità del proprio essere e che il Maestro vi si fosse impantanato. Tra il 1903 e il 1908 Marcel Proust è costretto, e in parte asseconda, ad una sorta di “discesa agli inferi”: nel 1903 muore improvvisamente il padre, nel 1905, quasi altrettanto inaspettatamente, l’amatissima madre, il lavoro letterario segna pesantemente il passo, la recrudescenza della malattia esaspera la voglia e la necessità d’isolamento. Fallito come uomo: la vacuità del bel mondo per il quale aveva speso le sue energie migliori gli appare ora chiaramente; come figlio: sentiva di essere stato il cruccio e la pena costante dei suoi genitori; come scrittore: le membra sparse e inconcluse del Jean Santeuil (che pure da lettori postumi possiamo dire che conteneva pagine memorabili) erano lì a dimostrarlo; Proust tocca l’apice inverso della sua vicenda esistenziale. Riemergerà lentamente: dal punto di vista umano anche grazie agli amici più fedeli (Lucien Daudet, Reynaldo Hahn, Georges de Lauris, e pochi altri) e dal punto di vista letterario grazie alla convinzione che la vita privata degli scrittori non ha nulla a che vedere con il valore letterario delle loro opere. E riemergerà anche in virtù di un profondo lavoro di scavo in se stesso che, gradatamente, gli consentirà di liberarsi del paralizzante senso di colpa nei confronti dei genitori ( Sentimenti filiali di un parricida ne è lo splendido risultato letterario) e, successivamente, da tutte le influenze letterarie che ingombravano la sua vera voce, il suo stile, la sua visione del mondo ( I Pastiches, imitazioni burlesche, ma accurate, dello stile di altri grandi scrittori, sono come i sacchetti di zavorra il cui progressivo rilascio gli consentono di far innalzare la sua mongolfiera). Nel 1908, partendo da un’idea molto lontana da quello che sarà il risultato finale, un saggio per dimostrare l’inattendibilità del troppo elogiato metodo di Sainte-Beuve che fondava i suoi giudizi critici sulla vita privata degli scrittori, Marcel Proust riprende a scrivere. E scrive forsennatamente, quasi colto da un raptus creativo, addirittura tra il 4 e il 6 luglio 1909 scriverà per 60 ore consecutivamente. Si tratta di nuovo d’un romanzo autobiografico, ma questa volta il senso dell’opera, la trasfigurazione letteraria dei materiali biografici, la composizione degli episodi secondo un piano preordinato e significativo (da lui stesso in seguito definito “dogmatico”), la “rivelazione” di una vocazione salvatrice, sono gli chiari e definiti fin dall’inizio. Nel 1913, dopo una serie di rifiuti degli editori a cui si era rivolto, pubblica da Grasset, a sue spese, il 1° volume, Le côté de chez Swann, del suo romanzo, A’ la recherche du temps perdu, previsto dapprima in 3 volumi, poi in 5 e infine completato nel 1922 in 7, di cui gli ultimi due postumi. La progressiva dilatazione dell’opera, causata anche dalla sospensione delle pubblicazioni per via della Grande Guerra, deriva dalla continua ed inesausta propensione proustiana a rielaborare, rimodellare, riscrivere il suo romanzo sulla base delle nuove esperienze esistenziali, tra le quali vanno senz’altro ricordate l’infelice amore per Alfred Agostinelli, suo autista e segretario, morto tragicamente nel 1914 e la guerra, vissuta da cittadino nottambulo. Si trattava, insomma, di “ripassare il colore” incessantemente per rendere trasparente la sua visione del mondo. Ma nonostante la pubblicazione postuma degli ultimi due volumi, non si può parlare di romanzo incompiuto, perche lo stesso Proust ha più volte sottolineato che il senso della sua opera era già insito nella primissima versione di essa e che tutto ciò che è compreso tra il primo e l’ultimo capitolo (scritti uno di seguito all’altro) rappresentava un percorso del quale nella mente dello scrittore era già stabilito lo “svelamento”. Muore il 18 novembre 1922 in odore di santità (artistica, s’intende) lasciando un’opera di immenso valore letterario. Gli ultimi anni erano stati quelli della “gloria” e della moderata ripresa di una brillante vita mondana (sembra quasi che Proust l’asceta, il recluso nella sua stanza tappezzata di sughero non potesse fare a meno di tanto in tanto di circondarsi di aristocratici e principesse). E sono anche gli anni del “vizio” e delle equivoche frequentazioni del bordello per solo uomini retto da Albert de Cuziat. Del resto, non c’è da stupirsene, e meno che mai da adontarsene, se Proust a solo 15 anni aveva scritto che il difetto per il quale aveva la massima indulgenza era “la vita privata dei geni”. Bibliografia essenziale disponibile in italiano La migliore edizione italiana de Alla ricerca del tempo perduto è quella curata da Luciano De Maria, traduzione di Giovanni Raboni, note di Daria Galateria e Alberto Beretta Anguissola, prefazione di Carlo Bo, 4 voll. “I Meridiani” Mondadori, Milano 1983-1993 (lodata e citata anche dai migliori specialisti francesi). Per le altre opere si vedano: I piaceri e i giorni, a cura di Mariolina Bertini, note e commento di Luxius Keller, Bollati-Boringhieri, Torino 1988; Jean Santeuil, a cura di Mariolina Bertini, introduzione e note di Pierre Clarac, traduzione di franco Fortini, Einaudi, Torino 1976; Contro Sainte-Beuve, traduzione di Paolo Serini e Mariolina Bertini, saggio introduttivo di Federico Orlando, Einaudi, Torino 1974; Scritti mondani e letterari, trad. di Paolo Serini e Mariolina Bongiovanni Bertini, a cura di Mariolina Bertini, Einaudi, Torino 1984; Pastiches, con testo a fronte, traduzione e introduzione di G. Merlino, Marsilio, Venezia 1991. Le lettere e i giorni: dall’epistolario 1880-1922, a cura di Giancarlo Buzzi, con uno scritto di Giovanni Raboni Mondadori, Milano 1996. Ottimi inquadramenti critici e biografici sono: Mariolina Bertini, Introduzione a Proust, Laterza, Bari 1991; Jean-Yves Tadié, Proust, Il Saggiatore, Milano 2003.
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Paolo Mantioni
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