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Ancora pochi minuti ed il sole si sarebbe nascosto dietro alle dune rosate. Ora che il grande caldo del giorno trascorso stava lentamente scemando, i ragazzi cominciarono ad uscire dai rifugi guardandosi attorno con aria assonnata. Un uccello appollaiato sulla cima di una pianta di datteri attrasse la loro attenzione, ma era troppo in alto. Solo il Grigio si fermò, in attesa, accanto al tronco, mentre i compagni si stiravano pigramente. Un refolo di vento caldo e maligno si divertiva ancora a gettar loro negli occhi la fine polvere del deserto, ma gli abitanti dell'oasi sapevano che tutto sarebbe finito di lì a poco quando, con la frescura della notte, sarebbe ricominciata la vita. Erano ormai più di cento anni che il deserto, inesorabile, avanzava divorando le oasi e disseccando le fonti e, per più di cento anni, i loro antenati avevano continuato a fuggire, spostandosi sempre più verso Nord. Le bianche ossa di quei loro avi dimenticati punteggiavano le piste inghiottite dal deserto, ma tutto ciò non significava molto per loro. Quando l'uccello volò via, lanciando un ultimo stridulo grido, anche il Grigio, deluso, corse incontro ai compagni, agile, giovane e privo di dubbi. Poco lontano, seduta all’ombra di un rampicante, stava Lea. Il Grigio e Lea avevano la stessa età, essendo nati entrambi l'anno in cui la colonia aveva raggiunto l'oasi. Quando le passò davanti, lui si voltò e la fissò per un istante. Lei, forse, gli sorrise. I giochi dei ragazzi erano sempre gli stessi. Giocavano a rincorrersi fra i sassi e le radici, a stanare e ad inseguire i piccoli animali del deserto. Soprattutto si divertivano a lottare fra di loro, imitando, un po' per gioco e un po' sul serio, le eterne risse degli adulti. Solo che, quella sera, il Grigio stava esagerando. Colpiva troppo forte e mordeva e graffiava con rabbia. Difficile dire se Lea ne fosse impressionata, troppo enigmatici e verdi erano i suoi occhi per capire cosa pensasse. Certo, però, gli altri compagni si erano stancati assai presto di quel gioco troppo rude. Tutti, tranne un giovane bruno e silenzioso che, piazzandosi a gambe larghe davanti al Grigio, aveva raccolto l’implicita sfida. I ragazzi stavano ora in silenzio a guardare, sorpresi e curiosi, mentre i due rivali lottavano rotolandosi nella polvere, ansimando per la fatica e per la rabbia. I loro giovani muscoli scattavano e si tendevano danzando freneticamente sotto la pelle scura e per quanta fatica si potesse leggere sui volti tirati, assai maggiore era la determinazione negli sguardi. Fu in quel momento che arrivò il vecchio senza un occhio. Talmente silenzioso era il suo passo, che i ragazzi si accorsero di averlo alle spalle solo quando la sua ombra coperse le loro ed il suo rauco ansimare fu proprio dietro alle loro orecchie. Allora si voltarono di scatto e corsero a nascondersi fra i folti cespugli. Il vecchio, che li conosceva ad uno ad uno, sapeva bene di far loro paura. Del tutto normale, pensò, la giovinezza non concepisce la morte e non vede nella vecchiaia che una deprecabile malattia. "Bell'affare, la violenza! L'unico fuoco che non puoi mai spegnere. Pensi di avere lasciato solo ceneri ed invece, all'improvviso, ecco che si sveglia ancora una fiamma." Così parlò il vecchio e la sua voce era roca per gli anni, ma imperiosa e ferma. Il Grigio si girò, lasciando il collo del rivale che approfittò di quella pausa inattesa per rifugiarsi sotto una siepe. Ebbe un brivido nel riconoscere il suo interlocutore e nel fissare quell'unico occhio giallo, ma non indietreggiò di un passo. Senza speranza... pensò il vecchio, ma quando vide gli occhi del ragazzo cercare quelli di Lea nel cerchio che si era formato alle sue spalle, quasi si lasciò sfuggire un sorriso. Si trattenne soltanto perché sarebbe stato un sorriso troppo triste. "Ogni volta che nel nostro popolo qualcuno abbandona il sentiero del giusto, avvicina il giorno della nostra fine. Ogni volta che qualcuno sceglie deliberatamente il male, ci rende simili agli Antichi Dei e ci condanna al loro stesso destino ". Il vecchio si guardò attorno, la formula rituale aveva suscitato l'effetto voluto? Era necessario che imparassero, che nessuno dimenticasse quel che era successo. Per questo motivo esistevano lui e gli altri Cantori. Per un tempo che ai ragazzi parve lunghissimo il vecchio restò in silenzio a fissarli, fino a quando uno di loro chiese in un sussurro: "Raccontaci degli Dei, per favore..." Questa era la domanda che il vecchio aspettava, ovviamente. In realtà avrebbe dovuto recarsi al consiglio degli anziani, quella sera si doveva decidere del futuro della colonia. I segni erano chiari, la fonte era ormai quasi completamente asciutta e la selvaggina sempre più rara. Si poteva tentare di trascorrere un'altra stagione nell'oasi, ma il trasferimento era inevitabile. E rimanere poteva significare trovarsi di già allo stremo delle forze prima ancora di intraprendere un viaggio del quale non era possibile prevedere né la durata né l'esito. Certamente l'ultima parola sarebbe spettata a lui. Sapeva quel che andava fatto, ma questo non significava che la cosa gli piacesse. Ricordava troppo bene l'arsura e le privazioni patite al tempo dell'ultima migrazione. Guardò i ragazzi seduti in cerchio attorno a lui, in attesa. Quanti di loro non sarebbero sopravvissuti? Soltanto il Grigio aveva l'aria annoiata, avrebbe preferito continuare a correre fra le felci. Il vecchio con un solo occhio lo osservò attentamente. "Ragazzo mio", pensò amaramente, "dovranno piacerti per forza queste storie. Io sono troppo vecchio per vivere ancora a lungo ed alla riunione di questa notte chiederò che mi sia concesso di scegliere un successore... Il nostro popolo deve ricordare la sua storia, e per quanto poco tu mi piaccia, sei l'unico qui che abbia anche solo la poca intelligenza che serve per diventare un Cantore!”. Si sedette su un tronco nodoso, con studiata lentezza, e si preparò a raccontare ancora una volta la Storia degli Dei. "Gli Dei erano una moltitudine. Ed infiniti erano i loro nomi. Le loro case erano simili alle alte torri delle formiche, e tante sono le formiche nelle loro tane, tanti erano gli Dei nelle loro dimore. Che, infatti, gli Dei non vivevano come noi che ci ripariamo tra le foglie degli alberi o nelle grotte della terra. Essi potevano piegare la pietra secondo il loro volere e con la pietra innalzavano torri che erano cento volte più alte del più vecchio e più alto degli alberi. E non temevano nè il vento né la tempesta, né i tremori della terra né il trascorrere del tempo. "Allora è vero che erano giganti! " esclamò un monello dall'aria spaventata. "Certo, erano almeno dieci volte più alti del ceppo su cui siedo ed il loro peso superava di trenta volte quello del più grasso fra noi. Com'era il loro aspetto, mi domandate? Oh, io tenterò di farvi capire, ma sono certo che, per quanto ci proviate, non riuscirete mai ad immaginare quegli esseri spaventosi. I loro corpi, quasi completamenti glabri, erano molli e pallidi ed un odore acre esalava dalla loro pelle viscida marchiando indelebilmente tutte le cose che toccavano. Si trascinavano avanti oscillando goffamente sulle esili zampe posteriori, mentre i loro ventri grassi e flaccidi tremavano ad ogni passo. Si apriva, su quei volti pallidi e umidi, una bocca enorme, irta di denti, e pochi peli stopposi ricadevano sulle loro piccole orecchie. Solo gli occhi erano simili ai nostri. Simili eppure, in un modo difficile a definirsi, differenti. Che nei nostri occhi, a fissarli con attenzione, si scorge una scintilla luminosa dell'infinito, mentre nei loro bruciava, nascosta, una brace dell'Inferno. Oh, si, gli Dei possedevano davvero una grandissima forza. Le loro zampe erano simili ad artigli e la loro presa era mortale. Ma nonostante questo, i loro movimenti erano lenti ed i loro sensi ottusi. Erano esseri totalmente inadatti alla caccia... che sarebbe stato facile per una preda avvertirne la presenza anche a centinaia di passi, poiché la terra tremava sotto i loro piedi ed il lezzo che emanavano bruciava le narici. No! Il segreto della loro potenza non era la forza, ma la magia." Attese un momento, la parola magia faceva sempre effetto sulla fantasia degli ascoltatori, anche il Grigio, benché volesse sembrare distratto cominciava ad ascoltare incuriosito. "La magia permeava tutta la loro esistenza e compensava ogni debolezza. I loro occhi non vedevano nella notte ed essi avevano imparato ad evocare gli spiriti del fuoco e del lampo per illuminare le tenebre. Luci crepuscolari fiammeggiavano giorno e notte sulle alte torri e fasci abbaglianti si protendevano nell'oscurità del cielo notturno, sino a ghermire le nuvole grigie. Nelle loro dimore tenevano certe magiche pietre di alabastro e smeraldo con le quali potevano conversare con i fratelli lontani, mentre invisibili servi, certo demoni dei più profondi abissi, servivano il cibo sulle loro mense e spalancavano le porte al loro passaggio. Tanti erano gli incanti che essi conoscevano che di molti, in verità, si è oggi perduta la memoria, ma certo il più grande di tutti era il dominio sui Draghi. Alcune delle leggende più antiche raccontano che furono gli Dei stessi a dar vita ai Draghi. Forgiando le loro corazze nel fuoco dell'Inferno al principio dei tempi. Altri Cantori ritengono, più semplicemente, che i Draghi siano sempre esistiti e raccontano di come gli Dei li abbiano soggiogati nel corso di epiche battaglie. Qualunque sia la verità, ed ormai non ci è dato di saperlo, i Draghi erano le creature più spaventose che possiate immaginare. Mille e più razze di Draghi popolavano la terra in quei tempi lontani. Alcuni di loro erano poco più alti di voi... altri erano invece tanto grandi che, da vicino, li si sarebbe potuti facilmente scambiare per enormi montagne! Certi erano velocissimi, e correvano per gli immensi sentieri delle città degli Dei, altri volavano fra le alte torri o più su, nel cielo plumbeo, lasciandosi alle spalle una scia d'argento. Altri ancora, erano lenti e pesanti, ma talmente forti da spianare le montagne e deviare il corso dei fiumi al loro passaggio. Tutti avevano una corazza lucente ed impenetrabile, tutti sputavano fiamme abbaglianti e le loro urla, simili al rombo dei tuoni, laceravano i timpani. Erano esseri completamente privi di pietà e di intelligenza e travolgevano tutto quello che si parava sul loro cammino. Persino gli Dei, talvolta, erano vittime di tanta cieca furia. Oh, sì, nulla mancava agli Dei in quei giorni! Sulle loro mense erano serviti i cibi più deliziosi e le loro torri erano fresche sotto il sole rovente e salde nella tempesta." "Ed erano immortali..." "No, questo no. In verità gli Dei non erano immortali, ma certo le loro vite erano infinitamente più lunghe delle nostre ed essi avevano magie capaci di prolungarle ancora oltre ogni limite naturale." "E' vero, Cantore, che una volta i nostri antenati vivevano nelle case degli Dei? " "Così era, infatti, in quei tempi lontani anche il nostro popolo viveva tra gli Dei. Ma soltanto alcuni dei nostri avi avevano ceduto alle lusinghe di quegli esseri enigmatici e vivevano nelle loro dimore. Nutriti, è vero, ma tenuti alla stregua di curiosi giocattoli, coccolati o puniti a seconda del capriccio di un momento. Altri invece, ed erano i più, vivevano ai piedi delle altissime torri, riparandosi negli anfratti del terreno o nei cunicoli del sottosuolo, nascondendosi fra le ombre dei parchi o nei tortuosi recessi delle città di pietra. Vivevano rubando gli avanzi dei loro potenti vicini, continuamente costretti a sfuggire alla morte. Per coloro che non venivano travolti dalla marcia inarrestabile e cieca dei Draghi, si trattava di sfuggire alla caccia spietata degli Dei, i cui maghi erano sempre alla ricerca di cavie su cui sperimentare nuovi, crudeli, incantesimi. Ed il destino di chi trovava una rapida morte era di gran lunga il migliore. Da questi, dai pochi che sopravvissero, tutti noi discendiamo." "Ma tutto questo non è possibile!" sbottò a quel punto il Grigio "Se questi Dei erano così potenti, perché ora non ci sono più?" "Perché odiavano la vita in tutte le sue forme.”, riprese il Cantore dopo una breve pausa, quasi come se parlasse tra sè, “Invidiavano le ali degli uccelli e le pinne dei pesci, invidiavano la bellezza del cielo e l'immensità del mare e tutto quello che non potevano essere o avere, lo distruggevano. Così fu che gli Dei ricopersero di pietra i prati e le foreste e cacciarono tutti gli altri esseri viventi. Non per nutrirsene, ma per il solo piacere di ucciderli, lasciando poi che le loro carni marcissero nei campi. Così fu che il fiato fetido dei Draghi ammorbò l'aria intossicando gli uccelli nel cielo, che il loro fiele avvelenò l'acqua, uccise i pesci nel profondo dei fiumi e disseccò l'erba nei campi. E, nonostante questo, essi continuarono a nutrirli col sangue nero strappato dalle viscere della Madre Terra. Perché, sopra ogni altra cosa, gli Dei odiavano sé stessi. Per la paura, che mai avrebbero confessato, di dover un giorno confrontarsi col male che avevano fatto. Fu forse per questa ragione che essi corsero incontro alla Fine come travolti dalla follia. La Fine di Tutto non ebbe un inizio certo, si trattò piuttosto della somma di tanti piccoli fatti, di tante piccole cose che non erano più come avrebbero dovuto essere. Dapprima il sole si fece ogni anno più caldo, poi furono gli uccelli a cambiare le rotte del loro migrare. Debolmente mutò la direzione dei venti e sottilmente si alterarono i cicli delle stagioni. Alcuni fra gli Dei avevano capito quel che stava accadendo, ma nessuno dei loro fratelli volle credere alle loro parole. Anzi, come assaliti da una nuova follia di morte, quegli esseri incomprensibili presero ad infierire sulla Grande Madre con rinnovato furore. Oh, so che per voi sarà difficile crederlo ma, in un tempo lontano, il Grande Deserto di sabbia rossa che ci circonda non esisteva. Tutte le terre erano coperte di alberi verdi e di prati tagliati dai solchi profondi di immensi fiumi, cento e cento volte più grandi del ruscello che ora mormora alle vostre spalle. Solo quando le terre cominciarono a disseccarsi e nessuna magia poté più renderle fertili, gli Dei capirono di non essere potenti come avevano voluto credere, solo allora, capirono quanto anch'essi fossero legati alla Grande Madre che avevano così pesantemente ferito. I più forti fra loro si nascosero dove ancora la Natura sembrava immune al Grande Contagio, ma presto le Terre Intatte divennero troppo poche per la grande moltitudine degli Dei ed allora essi iniziarono a combattere per possederle. Fu la guerra più terribile che possa essere immaginata. I Draghi lucenti si affrontarono in aria, sull'acqua e sulla terra. Vomitarono fiamme e morirono devastati dal loro stesso fuoco, squarciandosi in migliaia di frammenti incandescenti. Pietre infuocate caddero allora dal cielo e bruciarono quanti ancora si nascondevano nelle torri di pietra. Fu in quei giorni che anche gli Dei conobbero la paura e la disperazione. Infine, i pochi superstiti di quella guerra senza vincitori lasciarono le antiche città di metallo e si nascosero nelle ultime foreste, rinunciando per sempre alle loro arcane magie. Anche i Draghi, abbandonati dai loro padroni, si coricarono fra le rovine e nei campi e si addormentarono per non svegliarsi mai più. Ancora oggi, quando una furiosa tempesta scava tra le sabbie del deserto, se ne possono scorgere gli scheletri, sagome corrose e gigantesche fra le dune. Morirono tutti, atrocemente. Chi nascondendosi nelle oasi, chi nelle grotte dei monti o fra le rovine delle città. Ciechi, coperti di piaghe, folli per il dolore, ad uno ad uno gli Dei morirono, consumati dalle forze incontrollabili che avevano scatenato. Alcuni implorando dalla Terra ferita un perdono che essa non poteva più concedere, altri maledicendo, altri abbandonandosi ancora una volta alla crudeltà ed alla follia. Morirono liberando per sempre l'Universo dalla loro oscura presenza, morirono lasciando la Grande Madre anch'essa morente." "Ma... guarirà un giorno la Madre Terra?" "Nessuno lo sa, piccolo, ma quel che è certo è che ogni gesto malvagio allontana la speranza che questo possa un giorno accadere... Un giorno lontano..." Già da alcuni minuti l'occhio del vecchio si era velato e la voce era diventata via via più vaga, con un ultimo colpo nervoso la coda rimase immobile, appoggiandosi al corpo e le palpebre si chiusero dolcemente. I giovani gatti restarono ancora un momento a guardare il vecchio addormentato, poi se ne andarono silenziosamente. Soltanto il Grigio si fermò e fissò a lungo il Cantore. Incredibili immagini si formavano nella sua mente e fluttuavano inconsistenti come sogni per poi dissolversi e riformarsi in nuove, misteriose, suggestioni. Ma bastò che il corpo caldo di Lea lo sfiorasse dolcemente perché tutto riacquistasse la chiarezza di sempre. Il Cantore questa volta sorrise. Sognava, e sognava di un amore di tanto, tanto tempo prima. Lontano, oltre le dune ed il deserto, una torre d'acciaio consumata dai secoli rovinò su se stessa con un boato alzando una nuvola di polvere rossa. Un grosso iguana giallo si mosse, infastidito, per correre alla ricerca di un altro riparo. Ma di tutto questo gli abitanti dell'ultima oasi non avrebbero saputo mai nulla.
©
Marco R. Capelli
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Altre informazioni / L'autore
In questo libro, troverete molte finestre aperte su stagioni e paesaggi diversi di un mondo immaginario eppure, in un certo modo, coerente. Un teatrino di personaggi sperduti, testardi, a volte brutali, mossi dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto al quale non sanno dare un nome preciso ma che sognano confusamente di colmare. E questa necessità li spinge a viaggiare, a cercare, a rovesciare il tavolo, a cambiare tutte le carte della mano, contro ogni logica, perché o si trova una scala reale o non ha senso giocare. E tanti saluti a chi si contenta di vincere con una doppia coppia.
Siano essi geniali (e molto distratti) ingegneri, brutali e giganteschi barbari imprigionati in un mondo a metà fra Howard e Lord Dunsany, ombre nel deserto, impiegati non del tutto disposti a piegarsi, vecchi e bellicosi contadini toscani o fantasmi, a loro modo piuttosto concreti.
Completano il tutto un paio di divagazioni giovanili, che ho incluso più che altro per nostalgia, come fossero quei pezzi che si trovano a volte nei musei, quelli che nessuno sa davvero cosa fossero o a cosa servissero ma sembra brutto lasciarli in una cassa sul retro. Così li si espone con una avvertenza in caratteri piccoli: ritrovamento non catalogato, uso incerto. Agitare con prudenza.
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