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“Adesso, prova a riassumere tutto quello che sai sul fenomeno noto come risonanza. Se ti serve, puoi usare le lavagne, però non cancellare le formule che sono su quella di destra. ...Ed evita, per favore, di usare il gesso rosso, che poi non si pulisce bene.”
Sul momento, lo ammetto senza vergogna, mi sentivo un po’ impreparato sull’argomento, ma ero probabilmente condizionato dal fatto di essere sceso solamente per chiedere un cacciavite. Dato che, quando sono stanco, tendo a perdere la la mia naturale diplomazia, tentai di farglielo notare senza perdere altro tempo.
“Un cacciavite, eh? A croce o normale?”
“A croce, e col manico corto... comunque, se sei troppo occupato, lascia stare. ”
L’unico occhio che mi sbirciava da sotto al macchinario crepitante brillava di una luce che conoscevo piuttosto bene. E dato che, a quell’ora di notte, non ero dell’umore giusto per una lezione di fisica, o di biologia molecolare o di metafisica - qualunque cosa avesse in mente - decisi di tentare di andarmene, finchè potevo farlo.
Egidio sbucò per intero dal pertugio, la tunica sporca d’olio lubrificante, gli occhiali pericolosamente in bilico sulla punta del naso, i capelli scarmigliati.
Spinse gli occhiali contro la fronte con la punta del dito e mi rivolse un radioso sorriso.
”Dunque, cosa mi sai dire sulla risonanza?”
Mi limitai ad allargare le braccia, rassegnato.
“Ogni corpo, quando viene sollecitato da una forza, ad esempio se viene colpito oppure spinto, tende ad oscillare. Se la forza è in qualche modo sincronizzata con le oscillazioni, queste si ampliano esponenzialmente. Questo è grossomodo tutto quel che so. Ora, se mi potessi prestare quel cacciavite... sono quasi le due di notte e sono veramente stanco. Ho visto la luce del tuo laboratorio ancora accesa e sono venuto a vedere se ne avevi uno....”
“Il vero guaio è che non è quasi mai possibile semplificare all'osso un problema di fisica, senza lasciare indietro qualche cosa di molto importante. Anzi, spesso semplificare porta a raggiungere conclusioni del tutto errate. Più nello specifico, trovo che la tua affermazione sia, quantunque non completamente scorretta, decisamente semplicistica.”
Egidio stava volutamente ignorando quello che gli avevo detto. Normalmente non mi dispiaceva intrattenermi con lui, sapeva essere un oratore interessante ed era, senza ombra di dubbio, un genio, a modo suo.
Ma non quella notte. Avevo già bevuto otto caffè americani, fumato due pacchetti di sigarette e smontato e rimontato tre volte il generatore di potenziale elettrico che utilizzavamo per i test di conducibilità alle basse temperature, senza per altro riuscire a capire perchè diavolo ancora non funzionasse. Le uniche due cose che desiderassi erano, nell’ordine, un cacciavite a stella e tornarmene a casa.
”Prendi, per esempio un pallone.” Continuò imperterrito. ”Prendi un pallone ed applicagli una forza. Ma non dargli semplicemente un calcio, perchè gli forniresti sì una energia iniziale, ma applicheresti la forza per un tempo troppo breve.”
Mimò l’azione di un calciatore che colpisce un pallone, poi si pulì le mani sulla tunica e si avvicinò alla lavagna. Il chè costituiva un brutto segno, aveva un’idea per la testa ed il modo migliore che conosceva per darle forma, era quello di esporla ad un pubblico. Egidio era un oratore nato, e se non fosse stato il brillante scienziato che era, avrebbe certamente potuto diventare un grande attore.
Addocchiai il cacciavite che cercavo, per la verità assomigliava stranamente al mio. Pensai per un istante alla possibilità di afferrarlo e di fuggirmene per i corridoi bui dell’università. Ma mi resi conto che Egidio mi avrebbe inseguito ed avrebbe finito, probabilmente, con il coprire, nuovamente, i muri del corridoio di grafici e formule. Così mi rassegnai.
Disegnò col gesso colorato un globo che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto rappresentare un pallone e continuò: “Ecco, se noi applichiamo una forza costante, cosa fa il pallone? Accelera, e se ne va per la sua strada, se poi continuiamo ad applicare questa forza, quello si allontana ancora di più, e sempre più velocemente, ma certo non si sogna neppure di mettersi ad oscillare.”
Annuii stancamente, speravo che ammettendo il mio errore mi avrebbe lasciato prendere il cacciavite, ma avevo sottovalutato il suo spirito didattico. “Ora,” continuò Egidio spingendosi nuovamente gli occhiali sul naso “i fenomeni oscillatori si manifestano solo quando il corpo sollecitato reagisce alla sollecitazione con una forza che è proporzionale a quella applicata, tramite, semmai, una costante moltiplicativa. Pensa, ad esempio agli ammortizzatori di una macchina, oppure ad una altalena... “, fece una pausa, “Oppure ad un pallone da basket che rimbalza...”
Quest’ultimo esempio doveva aver eccitato la sua fantasia, perchè si voltò verso di me con l’espressione di un bambino che abbia appena ricevuto un nuovo giocattolo. Mi appoggiai alla parete pensando al mio generatore. Dietro di me l’enigmatico macchinario a cui Egidio stava lavorando continuava a ronzare misteriosamente, emettendo suggestive scintille azzurrognole e spandendo per la stanza un inquietante odore di ozono.
“Quando colpiamo il pallone con il palmo della mano, l’aria compressa all’interno reagisce con una forza che è proporzionale alla compressione. Ora, questo è dovuto al fatto che la gomma che riveste il pallone mantiene l’aria ad una pressione costante, volendo... potremmo esaminare la cosa anche a livello molecolare: premendo sul pallone con la mano ne diminuiamo il volume interno, come conseguenza aumenta il numero di urti fra le molecole di ossigeno azoto, piombo ed altre porcherie... - beh, siamo a Milano, no? - Ovviamente, aumenta anche il numero di urti contro la membrana di gomma e da qui deriva la forza di reazione. Mi segui?”
Feci cenno di sì con la testa ed aggiunsi “In pratica funziona come un pendolo, no? Se applico la mia forza con la mano in “fase” rispetto al rimbalzo naturale del pallone, questo accelera in continuazione il proprio moto.”
Mi osservò soddisfatto. “Si e no”, rispose, “In realtà il pendolo fornisce una reazione proporzionale alla forza applicata solo per piccoli angoli di oscillazione... quando il seno di x è proporzionale a x. Se pensi ad un orologio, che ha un periodo di un secondo, basta un angolo di due gradi e già si perde quasi un secondo al giorno, cosa che è onestamente inaccettabile anche per un orologio meccanico... non trovi?”
“Uh... certamente”
”Ovviamente si potrebbe costruire un pendolo isocrono.... Christiaan Huygens1 ci ha già provato per quel che ne so, ma a questo punto il problema è quello dell’attrito che, inevitabilmente, aumenta all’aumentare della complessità meccanica ed alla fine l’orologio che ne esce, pur se teoricamente migliore, è ancora meno preciso. Anche se, forse, il problema potrebbe essere risolto, mi chiedo... Ma stiamo divagando!”
Su quest’ultimo punto, non avevo dubbi. Presi una sedia, la girai e mi sedetti allargando le gambe ed appoggiando il mento alla spalliera.
Cancellò la lavagna con la manica della giacca e disegnò qualcosa che ricordava vagamente un ibrido tra un’amaca ed un tavolo da ping pong.
“Sai cos’è questo?”
”Un letto” dissi. Ero veramente esausto.
Mi guardò sorpreso, non credo avesse notato l’ironia.
”No, è un ponte” e scribacchiò sotto al disegno queste parole 7 novembre 1940, ore 11.00 AM – Tahoma Narrows (Washington) “Ti ricorda qualcosa?”
Sorprendentemente, risposi di sì. Mi ricordava di un mio vecchio professore di fisica e di un filmato proiettato durante una lezione, molti anni prima. Ricordavo la luce azzurrognola, il pulsare ritmico dell’otturatore e le immagini in bianco e nero che si succedevano a scatti, simili a quelle delle comiche di Laurel e Hardy. C’era un ponte, un’enorme struttura d’acciaio, che improvvisamente iniziava ad oscillare, sempre più velocemente. E c’erano automobili americane dagli enormi parafanghi bombati che venivano sbattute l’una contro l’altra mentre gli autisti, terrorizzati, si mettevano faticosamente in salvo. Poi il ponte prendeva a torcersi violentemente, come un serpente d’acciaio impazzito, mentre l’asfalto si sbriciolava. Il filmato era muto, ma si poteva quasi immaginare lo stridio lamentoso delle strutture e l’esplodere dei rivetti spezzati.
”Esatto, uno degli eventi più spettacolari della storia dell’ingegneria!” Sorrise. “Ed un’incredibile coincidenza che, proprio quel giorno, vi fosse un cineamatore nelle vicinanze, venuto a riprendere non so quale evento sportivo. L’intero fenomeno, del resto, non durò che pochi minuti, ma ci vollero anni di studi per rendersi conto di cosa fosse effettivamente successo.”
C’era riuscito di nuovo, in qualche modo, aveva catturato la mia attenzione.
Mi si avvicinò, mise un dito in bocca poi lo alzò verso il cielo, come se cercasse di determinare la direzione di una misteriosa corrente d’aria che lui solo poteva percepire.
”Il vento”, sussurrò. “Era stato solo il vento. In realtà il ponte di Tahoma, inaugurato solo pochi mesi prima, avrebbe potuto resistere ad un vento che soffiasse dieci, venti, cento volte più forte di quello che lo investì quella mattina. Se solo fosse stato un vento costante! Ma il vento, quel giorno, a causa della particolare conformazione del canyon sottostante, soffiava esattamente in fase con la frequenza di risonanza del ponte! Capisci?”
“Come un’altalena?”
”Giusto!! Il vento amplificava i naturali movimenti della struttura, particolarmente elastica, sempre di più, sempre di più, sempre di più. Fino al crollo. Fortunatamente non vi furono morti, con l’eccezione di un cane, che non ne volle sapere di abbandonare la macchina del padrone. Anzi, arrivò persino a mordere un passante che cercava di trascinarlo in salvo.”
“Sono sempre i migliori i primi ad andarsene, eh?”
La reazione spaesata di Egidio a qualsiasi tentativo di ironia era tremendamente scoraggiante, così, per quella sera, decisi di evitare altri commenti.
“In ogni fenomeno oscillatorio...” Egidio ignora quasi sempre le cose che non capisce. “...sommando due onde si ottiene la massima ampiezza quando queste sono in fase. E’ il motivo per cui, se un esercito deve attraversare un ponte, viene ordinato ai soldati di abbandonare il passo militare e di proseguire in ordine sparso. Che io sappia nessun esercito ha mai distrutto un ponte... senza bombardarlo intendo, però non si sa mai. Certe costruzioni gigantesche dei nostri giorni, vengono progettate con, al loro interno, enormi oscillatori che lavorano in direzione opposta a quella delle oscillazioni naturali dell’edificio, proprio per evitare fenomeni di risonanza.”
Mi alzai dalla sedia “Okay, Egidio, adesso hai la mia attenzione. E quindi puoi dirmi cos’è quel coso laggiù.”, dissi, indicando la macchina che continuava a crepitare minacciosamente in fondo al laboratorio.
Egidio era al colmo della gioia.
“Ti presento R.O.M.E.O.!”
“R.O.M.E.O.?”
“RisOnatore a Microonde di EgidiO”
“Ah...”
Sfoderò un sorriso smagliante e si avvicinò a quel coso dall’aspetto sinistro. Assomigliava ad una arancia bitorzoluta, delle dimensioni di un piccolo furgone. Cavo all’interno e rivestito di fogli di alluminio si appoggiava su quattro piedi dotati di ammortizzatori. Qua e là spuntavano fasci di cavi colorati che strisciavano sul pavimento fino a collegarsi a cinque decrepiti terminali allineati contro la parete, sui cui monitor scorrevano in rapida successione infinite serie di dati alfanumerici. Sul lato opposto alla lavagna c’era una sorta di braccio metallico che terminava in una sfera dorata, il braccio puntava verso una piattaforma grande quanto un piatto da portata, sostenuta da un treppiede per macchine fotografiche. L’intera struttura dava nel complesso, l’impressione di essere stata costruita con pezzi di scarto e non sembrava offrire nessuna garanzia di solidità. Le scintille azzurrognole ed il crepitio continuo contribuivano, poi ad una generale impressione di malignità, che, al momento, attribuii alla mia stanchezza.
Egidio si sfregò le mani e la sua espressione era, più che mai, quella di un bambino alle prese con un nuovo giocattolo. Si avvicinò alla macchina e l’accarezzò dolcemente. Ebbi l’impressione che il crepitio si trasformasse in un ronfare sordo, come di gatto.
”Beh, sai, sono partito dal ponte... ma di strada ne ho fatta parecchia. Cercherò comunque di essere quanto più semplice possibile. Se passiamo dal livello macroscopico a quello microscopico, mi sono detto, le cose non possono cambiare di molto. Se esaminiamo una molecola, una qualsiasi molecola, cosa scopriamo? Che gli atomi che la compongono vibrano! Giusto? Ciascuno con una propria frequenza. Questo è normale... ma cosa accadrebbe se noi potessimo accelerare questa frequenza, una, dieci, cento volte?”
”Già, cosa?” avevo un po’ paura della risposta.
“Prima avremmo un aumento di temperatura. Un semplice aumento di temperatura. Un fenomeno ben noto, ma se noi potessimo andare oltre, molto oltre quel punto... allora le molecole si spezzerebbero, producendo una certa quantità di energia, dettaglio trascurabile, ed atomi liberi!”
“Disintegrazione?”
”Completa.” Il sorriso di Egidio era smagliante. “Ora, i problemi che dovevo risolvere erano fondamentalmente due: primo, come fare vibrare le molecole, secondo, come conoscere la frequenza propria di ciascun composto. “ Egidio mi guardò da sopra gli occhiali con aria complice. “La risposta al primo problema venne quasi da sè - fu una specie di illuminazione - mentre stavo riscaldando una omelette nella mensa degli insegnanti: microonde!”
”L’hai preso tu, allora....” dissi fissandolo con sorpresa
“Non so di cosa parli...” Egidio sembrava imbarazzato
“Del forno a microonde che stava in sala mensa.”, sospirai.
“Ahem, sai ho dovuto fare tutto con mezzi propri... in ogni caso non sei curioso di sapere come ho risolto, brillantemente, il secondo problema?”
In effetti, lo ero, nonostante l’ora fosse spaventosamente tarda ed avessi lezione la mattina successiva.
”Come?”
”Nel modo più semplice! Provandole tutte! La mia macchina oscillatrice testa il materiale campione inviando onde di frequenza crescente. I dati rilevati sono analizzati da questi elaboratori che, in presenza di uno specifico segnale “di risposta” identificano la frequenza corretta. Stabilita la frequenza, si tratta solo di aumentare il livello energetico fino a che... ma aspetta, che ne dici di un esempio? Dai, dammi il tuo orologio.”
Era un regalo della mia ex moglie, in realtà lo tenevo solo per ricordarmi di lei quando mi sentivo solo. Mi aiutava a non sentirne la mancanza, comunque glielo diedi.
Egidio lo appoggiò sulla piattaforma e mi allungò un paio di occhiali protettivi da saldatore. “Indossali mi disse”. Quindi mi fece allontanare di qualche passo ed iniziò a digitare comandi sul terminale del PC più vicino. La macchina iniziò a ronzare con insistenza, una ragnatela di scariche elettriche si disegnò sulla superficie lucente, mentre sugli schermi alle mie spalle scorrevano velocissimi cifre e numeri.
“Ecco, ci siamo, la frequenza è stata identificata”
I neon che illuminavano il laboratorio iniziarono a spegnersi ed a riaccendersi in rapida successione mentre le lampade ad incandescenza ronzavano e proiettavano attorno una luce sanguigna e tremolante. Egidio puntò il dito indice verso la piattaforma ed io guardai, il mio orologio era sempre lì, ma una strana luminescenza verdastra lo stava avvolgendo. Poi, all’improvviso, i contorni dell’oggetto si fecero incerti, come se lo stessi osservando attraverso una densa nebbia.
Un istante dopo, non c’era più.
Non avevo sentito un rumore, se non il sibilo sordo ed avvolgente che proveniva dall’interno della macchina, non c’era stato un lampo di luce o un filo di fumo, semplicemente, il mio orologio non esisteva più. Fissai Egidio con la bocca spalancata, mentre lui mi rivolgeva un radioso sorriso. Il ronzare della macchina si fece nuovamente intermittente e solo rare scintille luccicavano ancora sulla superficie metallica.
“Allora, cosa te ne pare?”
Non avrei saputo cosa rispondere.
Me ne andai senza cacciavite, quella sera. Inutile dire che la lezione della mattina dopo fu un vero disastro, ma almeno il generatore si era rimesso a funzionare e potemmo riprendere gli esperimenti. Nei giorni successivi cercai di evitare Egidio quanto più possibile e, ogni volta che qualcuno accennava al furto del microonde della cantina, cambiavo discorso.
Era ormai passato quasi un mese, quando ricevetti una telefonata in laboratorio.
”E’ per te, Roberto” disse il mio collega. “Credo che sia l’ingegner Sacchi....sai, quello un po’ svitato.”, aggiunse coprendo la cornetta con la mano.
“Egidio Sacchi?” Dissi, sorpreso. “Mi chiedo... passamelo, per favore”.
“Egidio?”
“Ci siamo, ci siamo!” la voce dall’altro capo della cornetta era eccitatissima.
“Eh? Ci siamo dove?”
“L’esperimento finale, il primo vero test. Senti, facciamo così, ti aspetto domani mattina alle sei nel mio laboratorio, ho bisogno di te, le tue competenze sono essenziali per la riuscita dell’esperimento. Ti spiegherò tutto con calma.”
”Ma domattina è Domenica, voglio dire....”
“Diamine, Roberto, non fare storie. Domattina alle sei, non mancare.”
“Ma.... pronto....pronto?...ma che diamine!”
“Problemi di qualche tipo?”
“No” mentii ”Per la verità non ho neppure capito cosa volesse.”
“Che svitato, quello... lo è sempre stato. Ha fatto saltare il suo laboratorio almeno cinque volte negli ultimi dieci anni. Puoi reggermi questo campione? Accidenti al generatore, continua a fare i capricci... Ma non lo avevi riparato?”.
“Si, ma mancano cinque viti.”
“Come?”
”Non importa.” sospirai “Aspetta che ti aiuto”.
Quella sera andai a letto con la ferma convinzione che, qualsiasi cosa fosse successa, non mi sarei lasciato coinvolgere nelle follie di Egidio ed, infatti, la mattina dopo alle sei meno dieci mi trovavo nel suo laboratorio.
“Fantastico, un tempismo perfetto” esclamò.
“Grazie”, risposi, un po’ imbarazzato
“Come? Ah, no, non mi riferivo a te, parlavo delle batterie. Completamente cariche. Per quanto riguarda noi, dobbiamo incominciare a muoverci o non faremo in tempo.”
Lo guardai, aveva l’aspetto più allucinato del solito, i capelli bianchi e unti, gli occhiali sporchi di olio e storti sul naso, la faccia tirata di uno che non doveva aver dormito molto negli ultimi giorni.
“Sai dove trovare le chiavi del furgone del dipartimento?”
“Io sì, ma cosa....”
“Ci serve per forza un furgone, ho visto la tua macchina dalla finestra, è troppo piccola.”
“Troppo piccola per cosa? “ Non ci capivo più nulla.
“Per la macchina no? Ti ho detto che era il giorno adatto. Oggi tenteremo un esperimento sul campo.”
“Senti io non verrò da nessuna parte, e comunque non ho la minima intenzione di rompermi la schiena per portare quel coso ... in gita turistica.” Così dicendo mi voltai in direzione della macchina e notai con sorpresa che si era... ristretta. O meglio che, al posto di quella che avevo visto un mese prima, se ne trovava una versione ridotta. Una sorta di barbecue sferico montato su di un carrello a ruote.
“Come vedi ci ho lavorato parecchio in quest’ultimo mese, ti presento R.O.M.E.O. Junior” Egidio fece una pausa contemplando la sua creazione, poi si voltò di nuovo verso di me con un sorriso disarmante “Ho davvero bisogno del tuo aiuto, Roberto, per favore. Questa è una cosa che non posso fare da solo”.
Egidio era un genio, senza ombra di dubbio, e questo deve aver solleticato quella piccola quantità di orgoglio che persino io devo avere da qualche parte. Egidio era un genio ed aveva bisogno di me. Acconsentii, per il bene della scienza.
Trasportare R.O.M.E.O. junior dal laboratorio al cortile dove avevo parcheggiato il vecchio ducato della facoltà non fu un’impresa di poco conto. Le tre batterie, in particolare erano pesantissime. In realtà non ne avevo mai viste di simili, contenevano centinaia di minuscole celle ripiene di una sostanza in continua ebollizione. Quando finalmente appoggiai la prima sul pianale del ducato, mi avvicinai per osservarla meglio. Uno degli elettrodi era certamente di piombo, ma non riuscivo a capire di quale lega fosse l’altro. Aveva il colore del rame ma con strane venature bruno giallastre. Allungai la mano per sentirne la consistenza.
“Non farlo.” Egidio mi guardava con aria incerta.
“Non le rompo!”, risposi un po’ stizzito.
“Oh, questo non è un problema, non sono molto fragili. E’ che toccare gli elettrodi.... è male.”
Fermai la mano a pochi centimetri dalla batteria. Avevo un brutto presentimento.
“Quanto male?” chiesi.
“Circa mille volt.”
“...mille...”
“Con meno non funziona. “ si scusò “Tre batterie da mille volt collegate in serie. Per un totale di tremila volt.”
Terminai di caricare le batterie con religioso rispetto, chiedendomi perchè mai mi lasciassi sempre coinvolgere in situazioni di questo tipo.
Caricammo le ultime attrezzature e, finalmente, Egidio fu soddisfatto ed Ducato lasciò il cortile del dipartimento di fisica con un rombo irregolare.
Non ero autorizzato ad usare quel furgone, era in un certo senso un peccato veniale, ma il pensiero di quel che portavamo con noi mi rendeva alquanto nervoso.
“Ecco” disse Egidio indicandomi un punto sulla carta geografica “questa è una località completamente deserta, qui potremo lavorare senza essere disturbati.”
Era piuttosto lontano ed il motore del furgone tossiva in maniera preoccupante. Sarebbe stato un lungo viaggio, così tentai di convincere Egidio a spiegarmi, finalmente, in cosa consistesse l’esperimento che avremmo dovuto compiere.
“R.O.M.E.O. junior non è solo una versione più compatta della prima macchina, sfrutta anche un principio fondamentalmente differente. Fin dall’inizio mi ero reso conto che il processo di disintegrazione richiedeva un quantitativo di energia che cresceva esponenzialmente al crescere della massa dell’oggetto irradiato. In parola povere, per atomizzare un oggetto di massa pari a cinquanta chilogrammi sarebbe stata necessaria tutta l’energia prodotta da una centrale atomica, mentre, per un oggetto di cento chilogrammi, beh.. non sarebbe bastata l’energia prodotta in tutto il mondo occidentale. Come puoi facilmente capire, questo avrebbe ridotto la mia macchina ad una curiosità da museo, affatto priva di valore pratico.”
Annuii e lui continuò.
“Pochi calcoli...“ - Sorrisi all’idea di cosa Egidio considerasse pochi calcoli - “...Mi bastarono per rendermi conto che dovevo passare ad un approccio differente: se l’energia necessaria per la disintegrazione non poteva essere fornita dall’esterno, allora doveva necessariamente essere generata all’interno del processo. Questo è il principio che sta alla base del funzionamento di “junior”. Lui non disintegra l’oggetto irradiato, si limita ad innescare la reazione a catena che lo fa. Le prime molecole che iniziano ad oscillare in risonanza trasmettono il moto a quelle limitrofe, avviando un processo che si interrompe solo quando l’intero corpo è consumato.”
“Geniale”, dissi, rabbrividendo,. “Ma che tipo di test hai in mente?”
“Oh, qualcosa di semplice, si tratta solo di prendere qualche fotografia, prima e dopo, insomma.”
“Egidio...”
”Si?”
“Che cosa vuoi disintegrare?”
Mi guardò con l’innocenza di un bambino.
“Una cosa da nulla.... solo un piccola montagna”.
Sbandai, perdendo per un istante il controllo del veicolo. La ruota posteriore si infilò in una buca sul ciglio della strada ed il furgone sussultò cigolando.
”Che cosa?” gridai, guardandolo con gli occhi sgranati “Io non avrò nessuna parte in questa follia!”
“Oh, ma non è necessario che tu abbia parte nell’esperimento, grazie comunque.”
”Ma se mi hai chiamato tu per aiutarti!” esclamai, sorpreso.
“Beh, lo hai già fatto, il mio problema era che, vedi.... mi serviva un autista. Io... non ho mai preso la patente.”
“Come?”
”Sai, quei quiz, erano così semplici e noiosi che non sono mai riuscito a concentrarmi a sufficienza per passare l’esame.”
Resistetti all’impulso di strozzarlo e continuai a guidare lentamente.
Mi sentivo umiliato. Irragionevolmente umiliato, lo ammetto, ma, comunque, umiliato.
Seguendo le istruzioni di Egidio, attraversai una Milano stranamente quieta ed addormentata e mi diressi verso Nord, in direzione dei laghi.
La strada deserta ed un filo di nebbia che stagnava sull’acqua immobile, davano al paesaggio un’aria irreale, complice la radio che insisteva a trasmettere canzoni da vecchio film americano. Costeggiammo la sponda orientale del Lago di Lecco per una trentina di minuti, senza parlare, mentre Egidio continuava a rivoltare tra le mani una vecchia mappa dell’istituto topografico militare.
”Qui, a destra!” mi disse all’improvviso.
Svoltammo in direzione di Sondrio ed il furgone iniziò ad arrampicare scoppiettando mentre risalivamo lungo la valle dell’Adda.
Era una splendida mattina di primavera e tutt’attorno ci circondavano superbe montagne verdeggianti mentre, più in là, brillavano i picchi rocciosi del Bernina, ancora coperti di neve.
Non eravamo lontani dal confine con la Svizzera quando ci fermammo ad un passaggio a livello. Un cartello turistico alla nostra destra invitava a visitare il Santuario della Madonna di Tirano ed io ne approfittai per scendere e sgranchirmi le gambe, costrette, da più di due ore, a litigare con una frizione troppo consumata.
“Manca ancora molto?” brontolai dal ciglio della strada mentre il’diretto Zurigo – Milano ci passava davanti sferragliando senza fretta.
“Oh, poco, veramente poco! Appena dopo l’abitato di Campocologno, dovrebbe esserci una mulattiera che sale obliqua verso la Valposchiavo. Qualche chilometro appena....”
“Ma non c’erano montagne più vicino a Milano?” chiesi rimettendomi al volante. A volte faccio domande stupide, lo so.
La strada si fece dapprima più piccola, quindi decisamente minuscola, mentre Egidio continuava a raccontarmi, senza che io gli prestassi la minima attenzione, di come fosse stato difficile trovare una formazione rocciosa che presentasse le caratteristiche di purezza ed omogeneità che erano assolutamente necessarie per la corretta riuscita dell’esperimento. Poi anche l’asfalto sparì, per lasciare posto alla ghiaia ed infine all’erba dei campi. Le mucche ci guardavano curiose, forse un po’ annoiate dal ronzare asfittico del vecchio diesel, mentre Egidio, mezzo fuori dal finestrino, continuava a guidarmi indicando col braccio improbabili svolte su altrettanto improbabili sentieri. Pure, incredibilmente, il furgone ce la fece ed alla fine parcheggiammo all’ombra di un grosso albero, in un alpeggio che avrebbe potuto tranquillamente essere un angolo di paradiso nascosto tra le Alpi Italo-Svizzere.
Non ho difficoltà ad ammetterlo anche se, lo so, non mi fa molto onore, quando arrivammo ero talmente irritato dalla presenza di Egidio che riponevo tutte le mie speranze nella certezza, peraltro ragionevole, che quell’assurdo esperimento sarebbe fallito.
E le mie certezze si consolidarono ulteriormente quando, finalmente, scesi dal furgone e l’aria fresca della montagna risvegliò il mio raziocinio.
Proprio di fronte a me si ergeva il Sassalbo, un solitario e maestoso sperone di roccia illuminata dal sole sullo sfondo delle Alpi Orobie. Ottocento metri di pareti verticali e brulle, milioni di tonnellate di solido granito.
Guardai la macchina ricoperta di carta stagnola e l’ometto sporco che le si affaccendava attorno e sorrisi.
Quel coso patetico non avrebbe smosso un sasso, ovviamente.
Egidio mi guardò con gratitudine quando lo aiutai a scaricare l’apparecchiatura che posizionammo con cura all’ombra di un pino. Effettuò alcuni calcoli per determinare la posizione approssimativa del baricentro della montagna ed, aiutandosi con una bussola ed un compasso, vi puntò contro il globo dorato. Lavorava in silenzio e con estrema concentrazione mentre io sedevo poco distante, masticando un filo d’erba. Aprì la borsa di pelle ed estrasse un laptop ultimo modello, lo appoggiò delicatamente sull’erba, lo collegò alla macchina e lo accese con gesto solenne.
“Dev’essere quello che il rettore non riusciva più a trovare...” mi limitai a commentare
“Ahem....” fu l’unica risposta ed io mi chiesi se, in fondo, Egidio non avesse sbagliato carriera.
Quando ebbe finito tornammo al furgone, per scaricare le batterie. Egidio salì sul pianale per iniziare a spingerle, io restai a terra. Pochi istanti dopo, dalle profondità del vano di carico mi giunse un gemito.
“Dio mio....Dio mio....” ripeteva la voce piagnucolante.
“Che cosa è successo?”
”Le batterie! Due batterie si sono capovolte quando abbiamo sbandato e l’acido è uscito, sono inutilizzabili! Assolutamente inutilizzabili....”
Mi sentii assurdamente in colpa.
”Impossibile, fa vedere....”
”Inutilizzabili, ti dico!!”
Sedemmo a lungo in silenzio, la schiena appoggiata al furgone, ciascuno immerso nei propri pensieri. Io, vagamente in odor di rimorso, lui, sperduto in chissà quale elucubrazione mentale. Aveva una faccia impenetrabile e sembrava ancora più inumano del solito.
Improvvisamente il terreno iniziò a vibrare. Una vibrazione sorda e continua.
Ci voltammo in direzione della montagna, un ETR 470 delle ferrovie svizzere stava uscendo dalla galleria. Ci passò accanto ad alta velocità sferragliando sui binari per poi sparire in pochi secondi in direzione di Milano.
“Ma certo!!!” esclamò Egidio “Che stupido a non pensarci prima, devo essere davvero molto stanco. Quanto sono lunghi i cavi da alto voltaggio che abbiamo nel baule?”
”Non so” risposi, vagamente preoccupato, “venti, forse trenta metri....”.
”Basteranno, devono bastare...” esclamò balzando in piedi, “Seguimi.”
“Ma dove?”
“Tremila volt” sorrise “I treni italiani sono alimentati con corrente continua, a tremila volt.”
Feci oscillare il cavo. I sassi legati all’estremità erano una buona idea, con un po’ di fortuna avrebbe anche potuto funzionare. Anzi, no, pensai, se fossimo stati fortunati, non avrebbe funzionato.
“Allora” disse Egidio “ripassiamo il piano”
“Ok....”
“Hai indossato i guanti isolanti?”
“Si.”
“Gli occhiali protettivi”
“Si...”
“Bene, bene!” si sfregò le mani “Il cavo A collega il binario del treno alla macchina, e qui non ci sono problemi. Parliamo del cavo B: il mio estremo è collegato a R.O.M.E.O. junior, ed il tuo è stato liberato dal rivestimento isolante. I sassi con cui lo abbiamo appesantito ti consentiranno senza problemi di imprimere una energia cinetica sufficiente a raggiungere l’obiettivo. Devi solo farlo ruotare un paio di volte e poi lanciarlo. Secondo i miei calcoli, si arrotolerà alla catenaria e chiuderà il circuito. A quel punto, prima di fondere per l’eccesso di calore, dovrebbe fornire trenta o quaranta secondi di alimentazione alla macchina. Più che sufficienti ad attivare il processo di disintegrazione.”
”Sicuro.” dissi, veramente poco convinto.
“Ah, Roberto...”
“Si?”
“Lascia andare il cavo appena lo vedi attorcigliarsi, ok?”
“Promesso....” sapevo che qualcosa non andava ma, in quel momento, giuro, non riuscivo a ricordare cosa. Era un dettaglio importante, ne ero certo, ma, per quanto cercassi di afferrarlo, continuava a sfuggirmi.
”Bene, bene!” Egidio si sfregò nuovamente le mani.
Bilanciai il peso sulle gambe ed iniziai a far ruotare il cavo. Simili a rudimentali bolas i pesi sibilavano nell’aria. “Ora!” gridò Egidio. Lanciai.
Fu un lancio perfetto, dopo un rapido volo il cavo raggiunse la catenaria e le si attorcigliò strettamente attorno.
“Lascia tutto!!!”
”Cosa?”
“Lascia tutto, ho detto” Egidio gridava ma io non riuscivo a sentirlo, un crepitio assordante mi circondava, scintille blu e verdi correvano e si intrecciavano attorno al cavo mentre il rivestimento plastico colava sull’erba. Mi guardai le mani, anche i guanti stavano bruciando, quanto più velocemente possibile, lasciai la presa e li gettai a terra. Poi l’esplosione mi rovesciò al suolo.
Non credo di essere svenuto, ma tutto, attorno a me, sembrava muoversi con assurda lentezza. Più che preoccupato, ero infastidito da quel mondo al rallentatore. Mi bruciavano le mani e mi girava la testa ed Egidio urlava qualche cosa che non riuscivo a capire. Ebbi l’impressione che passassero ore, ma in realtà, non deve essere durato più di qualche secondo. La prima immagine che ricordo è un brandello di cavo che oscilla appeso alla catenaria, mentre il rivestimento in pvc brucia e cola sulle rotaie in grosse gocce di fuoco.
“Com’è possibile, com’è possibile!” piagnucolava Egidio.
Mi voltai e lo vidi, aveva i capelli sconvolti, il viso annerito e le sopracciglia bruciacchiate ma, nel complesso, sembrava stare bene. R.O.M.E.O. junior invece, era ridotto ad un cumulo di rottami fumanti.
“La mia macchina! La mia macchina!” ripeteva ossessivamente girando intorno a quel patetico cumulo di rottami metallici, chinandosi in continuazione come se volesse accarezzare un amico morto e si ricordasse solo all’ultimo momento che, in realtà, si trattava di metallo incandescente.
Mi avvicinai ed Egidio, finalmente, si accorse della mia presenza.
“Com’è possibile?” mi chiese.
“Sto bene, grazie.” dissi.
Mi guardò come se non mi vedesse. “Un sovravoltaggio” disse. “Ma non è possibile.....”
Non ci fu verso di cavargli molto altro. Avevo le mani malamente scottate, strappai le maniche della tunica e me le fasciai in qualche modo. Caricammo i rottami nel furgone ed iniziammo un mesto viaggio di ritorno. Egidio non disse una parola, nè io mi sentivo di umore migliore. Quando finalmente svoltammo sulla strada principale, mi resi conto che ci trovavamo parecchio lontano da Milano. Sarebbe stato un lungo viaggio. In effetti, stando ai cartelli alle nostre spalle, la zona in cui ci eravamo inoltrati non era neppure Italia, ricadeva piuttosto, già sotto alla giurisdizione svizzera. La ferrovia che avevamo visto, infatti, era un tratto secondario della linea Milano - Zurigo. Di nuovo, un campanello tintinnava nella mia mente, di nuovo, non mi riusciva di capire di cosa si trattasse.
Quando, faticosamente terminammo di trascinare i miseri resti di R.O.M.E.O. nel laboratorio di Egidio era ormai notte fonda. Le mani mi facevano davvero molto male, in più, avevo fame e mi girava la testa.
“Buonanotte, allora.” lo salutai.
Neppure mi rispose, così restai a guardarlo ancora un momento, mentre saliva le scale, poi me ne andai. Fortunatamente la mia macchina era ancora nel parcheggio, avevo davvero bisogno di tornare a casa e di dormire. Decisi che, il giorno successivo, non sarei andato al lavoro. Qualcuno mi avrebbe sostituito.
Un lungo bagno caldo e due uova strapazzate mi rimisero in sesto quel tanto che bastava, eppure, per quanto fossi stanco, una volta a letto, non mi riuscì di prendere sonno. Come facevo sempre in questi casi, allungai la mano ed estrassi un volume a caso dalla pila di riviste e libri letti soltanto a metà che ingombravano la pedana.
Treni e ferrovie - mensile, quando si parla di coincidenze... Iniziai a leggere:
... Recentemente, sulle linee AV Milano-Napoli è stato adottato il sistema di elettrificazione monofase a 25kV c.a. 50Hz, innovativo rispetto al sistema a 3kV corrente continua con il quale è elettrificata l'intera rete ferroviaria italiana. Sulle interconnessioni, i nodi urbani e nei tratti in cui l'AV è in stretto affiancamento con la linea esistente - per evitare interferenze con gli attuali sistemi di segnalamento - la tensione di alimentazione è pari a 3 kV.
In effetti, l’alimentazione a 3kV corrente continua ha sempre creato difficoltà di interfacciamento tra le linea ferroviaria del nostro paese e quella dei paesi confinanti. Per i collegamenti con la Svizzera, ad esempio, paese dove i treni sono alimentati a 15 Kv corrente alternata, è stata necessaria l’introduzione di motrici specificamente modificate – le ETR 470 – per poter funzionare con ambedue le tensioni di alimentazione.
... la Svizzera, paese dove i treni sono alimentati a 15 Kv corrente alternata ...
Abbastanza stupido da parte mia, avrei dovuto ricordarmene. Avevo già letto quell’articolo qualche settimana prima. Quindicimila volts... povero R.O.M.E.O. gli avevamo, letteralmente, fritto le valvole.
Questo comunque spiegava tutto, anche le mie mani scottate. Ebbi un brivido e ringraziai i guanti isolanti. Avrei dovuto telefonare ad Egidio? Me lo immaginai nel laboratorio intento a sezionare il cadavere della sua creatura alla ricerca disperata di un errore di progettazione che non c’era.
Guardai il telefono sul comodino. Avevo il numero del suo laboratorio nel portafoglio.
Sorrisi, mi tolsi gli occhiali, spensi la luce e mi addormentai.
Che volete, una lezione di modestia fa bene anche ai geni, a volte.
Quella notte dormii molto male. E non era certo la mia coscienza a turbarmi. Nei miei sogni stavo cercando di sfuggire ad un pericolo invisibile ed incombente. Non capivo di cosa si trattasse ma correvo, poi, quando sfinito, finalmente mi giravo per guardare alle mie spalle, mi svegliavo. Appena riuscivo a riprenderere sonno, il sogno ricominciava. E poi c’era quel rumore, un sibilo cupo e continuo, quasi sotto la soglia delle frequenze udibili. Contrariamente al solito, l’arrivo del mattino fu un vero sollievo.
Mi lavai i denti e mi stirai pigramente davanti allo specchio. Anche senza le occhiaie, non avevo un bell’aspetto. Telefonai all’università dicendo che stavo male e che non sarei andato, mi preparai una spremuta con tre aranci ed un limone e mi sedetti sul divano.
Accesi la TV, niente cartoni animati. Trasmettevano invece una edizione straordinaria del telegiornale del mattino. Il cronista aveva sul volto una maschera di cordoglio professionale, appoggiai il telecomando sul cuscino e mi preparai ad ascoltare il consueto elenco di sciagure e calamità.
“...confermiamo la notizia che vi abbiamo dato qualche minuto fa. Per quanto incredibile. Il diretto Zurigo Milano delle 6.35 antimeridiane risulta... scomparso! L’intero treno. Ha lasciato in orario la stazione di Zurigo ed è stato visto transitare regolarmente per la Valposchiavo, ma non ha mai raggiunto la stazione di Campocologno. Inizialmente si era pensato ad un semplice guasto sulla linea elettrica. Questa ipotesi, anche se non avrebbe potuto spiegare l’interruzione istantanea e completa di tutti i contatti, era comunque sostenuta dal fatto che sulla stessa linea, nella mattinata di ieri, si era verificata una inspiegabile interruzione nell’alimentazione elettrica.
Tuttavia i rapporti dei primi mezzi di soccorso, per quanto contraddittori, hanno immediatamente smentito questa possibiltà. Ma passiamo la parola al nostro inviato Stefano Martinelli che si trova sul posto fin dalle prime ore di questa mattina. Ci sei Stefano?”
“Si, studio, ci sono. Qui sta accadendo qualcosa di veramente incredibile. Sono da poco arrivati anche i mezzi speciali dell’esercito e ci hanno obbligato ad allontanarci, non solo, ci hanno sequestrato tutti i filmati che avevamo girato.”
“Cosa?”
“Esatto, una cosa senza precedenti, siamo comunque riusciti ad installare questa seconda postazione d’emergenza a circa cinquecento metri dalla zona interessata. Stiamo usando una vecchia telecamera a mano e quindi ci scusiamo fin da ora con i telespettatori per la qualità scadente delle riprese.”
“Qualità scadente delle riprese” doveva essere un eufemismo giornalistico, in effetti non si vedeva quasi nulla, e l’operatore continuava ad inquadrare ora i piedi ed ora il viso del giornalista come se non gli riuscisse di fermarsi un istante.
“Prova a raccontarci cosa sta succedendo, Stefano, ci sono stati molti morti nel deragliamento? Si è trattato di un incidente o di un attentato?”
“E’ questo uno dei punti misteriosi, non si registrano nè morti nè feriti, o meglio non si sa. Non si può nemmeno parlare di deragliamento, in un certo senso... L’intero treno è scomparso!”
”Cosa? Cosa intendi per scomparso?”
“So che sembra incredibile, ma è come se si fosse volatilizzato nel nulla. Semplicemente, è partito e non è mai arrivato. Un ETR 470 con dieci vagoni e più di cento persone a bordo.”
“Ma questo è impossibile. Ci sono tracce di un’esplosione?”
“Nessuno lo sa, l’intera zona è ora sotto il controllo della polizia militare svizzera, ma da quello che abbiamo visto... Ora, so che sarà difficile crederci, ma vi possiamo garantire che è la verità...
Tutto il paesaggio non è come dovrebbe essere. Secondo la mappa, qui ci dovrebbero essere una serie di picchi rocciosi, una montagna di quasi tremila metri, una galleria, un alpeggio.... ma in realtà, non c’è nulla. Sembra di essere in un angolo di deserto, ci sono dune di sabbia finissima ed incolore e basta. E poi....
“E poi cosa? Prosegui, Stefano, per favore.“
“E poi c’è questa strana luminescenza verdastra che sembra permeare ogni cosa. E’ difficile da spiegare.”
“Potrebbe essersi trattato di un attacco nucleare, una nuova arma del terrorismo internazionale? Un esperimento militare fallito? Ci sono tracce di radioattività?”
“No, abbiamo avuto già modo di chiederlo ai militari, nessuna traccia di radioattività. La mia opinione personale è che i militari siano anche più perplessi di noi. Qualunque cosa sia successa qui, è un totale mistero, anche se c’è chi ha ravvisato dei paralleli con quanto accadde a Tunguska nel millenovecentootto, quando...”
“Stefano...” “
“Si, studio?”
“Dietro di te, cos’è quel bagliore?”
“Dov.......”
“Stefano... Stefano? Scusate, il collegamento si è interrotto, deve trattarsi di un problema tecnico. Ci ricollegheremo al più presto con Stefano Martinelli per tenervi informati su questo incredibile caso, ma prima, facciamo un breve aggiornamento sull’attuale crisi di governo....”
Spensi il televisore.
Il fischio che mi aveva ronzato nelle orecchie tutta la notte si stava facendo più intenso, reale. Non era più possibile fingere di ignorarlo.
Guardai fuori dalla finestra, la gente cominciava ad uscire dalle case. Qualcuno si guardava intorno con aria smarrita, qualcun’altro allargava le braccia. Lo sentivano anche loro. Un bambino, tra le braccia della madre, stava piangendo.
Suonò il telefono. Alzai la cornetta senza staccare gli occhi da quel che succedeva al di là dei vetri.
“Roberto? Sono Egidio!” la voce dall’altra parte del filo era squillante come quella di un bimbo. “Ho capito tutto! E’ stato un sovravoltaggio, non può essere stato niente altro. Per un qualche motivo la linea cui ci siamo collegati non era a tremila volt, la tensione era probabilmente almeno cinque o sei volte superiore.”
“Complimenti.” Sussurrai.
La folla stava crescendo ed alcuni indicavano il cielo. Si sentiva il rombare dei jet militari ed il rumore più sordo di alcuni elicotteri.
“Posso ricostruire R.O.M.E.O., R.O.M.E.O. III avrà un sistema di controllo più sofisticato e.... mi stai ascoltando?”
“Certo Egidio, ti ascolto....”
”Tu credi che mi daranno il premio Nobel?”
Fuori, nella strada, qualcuno stava urlando mentre, la luminescenza verdastra che illuminava l’orizzonte, si faceva sempre più brillante e sempre più vicina. Chiusi gli occhi, mi sentivo molto, molto stanco.
“No, Egidio” dissi “Penso proprio che non vincerai mai il premio Nobel.”
©
Marco R. Capelli
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Dodici racconti orfani di Marco R. Capelli
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Altre informazioni / L'autore
In questo libro, troverete molte finestre aperte su stagioni e paesaggi diversi di un mondo immaginario eppure, in un certo modo, coerente. Un teatrino di personaggi sperduti, testardi, a volte brutali, mossi dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto al quale non sanno dare un nome preciso ma che sognano confusamente di colmare. E questa necessità li spinge a viaggiare, a cercare, a rovesciare il tavolo, a cambiare tutte le carte della mano, contro ogni logica, perché o si trova una scala reale o non ha senso giocare. E tanti saluti a chi si contenta di vincere con una doppia coppia.
Siano essi geniali (e molto distratti) ingegneri, brutali e giganteschi barbari imprigionati in un mondo a metà fra Howard e Lord Dunsany, ombre nel deserto, impiegati non del tutto disposti a piegarsi, vecchi e bellicosi contadini toscani o fantasmi, a loro modo piuttosto concreti.
Completano il tutto un paio di divagazioni giovanili, che ho incluso più che altro per nostalgia, come fossero quei pezzi che si trovano a volte nei musei, quelli che nessuno sa davvero cosa fossero o a cosa servissero ma sembra brutto lasciarli in una cassa sul retro. Così li si espone con una avvertenza in caratteri piccoli: ritrovamento non catalogato, uso incerto. Agitare con prudenza.
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