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Il gioco più pericoloso di Richard Edward Connell
traduzione di Salvatore Ciancitto
Pubblicato su PB20


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I racconti di Progetto Babele

"Laggiù, sulla destra... da qualche parte... c'è una grossa isola..." disse Whitney "Piuttosto un mistero..."

"Di che isola si tratta?" domandò Rainsford.

"Le vecchie carte nautiche la chiamano l'Isola della Nave Intrappolata" replicò Whitney "Un nome suggestivo, non è vero? I marinai hanno un timore curioso del luogo. Non conosco il perché. Superstizioni..."

"Non riesco a vederla...", osservò Rainsford, tentando di scrutare attraverso l'umida notte tropicale, palpabile mentre premeva la propria calda e densa oscurità sull'imbarcazione.

"Hai degli occhi buoni" disse Whitney con una risata " e ti ho visto colpire un'alce che si muoveva nella boscaglia autunnale a più di trecento metri di distanza, ma perfino tu non riesci a vedere per cinque chilometri circa attraverso una notte Caraibica senza luna."

"Nemmeno per tre metri", ammise Rainsford "Hugh! E' come un velluto nero umido."

"Ci sarà abbastanza luce a Rio", promise Whitney. "Dovremmo farcela in pochi giorni. Spero che le pistole per giaguari siano arrivati da Pudrey. Dovremmo fare una bella battuta di caccia su per il Rio delle Amazzoni. Gran bello sport, la caccia!"

"Il miglior sport al mondo!", concordò Rainsford.

"Per il cacciatore...", corresse Whitney "Non per il giaguaro..."

"Non dire sciocchezze, Whitney", disse Rainsford. "Sei un cacciatore da caccia grossa, non un filosofo. A chi importa cosa pensa un giaguaro?"

"Forse al giaguaro...?", osservò Whitney.

"Bah! Non sono in grado di capire!..."

"Ma nonostante questo, sono dell'opinione che capiscano una cosa: la paura. La paura del dolore e la paura della morte."

"Stupidaggini!", rise Rainfsord. "Questo tempo torrido ti sta rendendo debole, Whitney. Sii realista. Il mondo è fatto di due categorie: i cacciatori e le prede. Per fortuna, io e te siamo cacciatori. Pensi che abbiamo già passato quell'isola?"

"Non riesco a capirlo al buio. Spero di si."

"Perché?" chiese Rainford.

"Il posto ha una certa fama... brutta."

"Cannibali?" suggerì Rainsford.

"Figuriamoci! Perfino i cannibali non vivrebbero in un posto dimenticato da Dio come quello. Ma ormai è entrata nelle storie dei marinai, in qualche modo. Non hai notato che la ciurma sembra avere i nervi a fior di pelle oggi?"

"Sono stati un po' strani, ora che me ne stai parlando. Perfino il Capitano Nielsen.."

"Si, perfino quel vecchio Svedese testardo, che andrebbe dal diavolo in persona per chiedergli da accendere. Quegli occhi blu freddi avevano uno sguardo che non gl'avevo mai visto. Tutto quello che sono riuscito a cavargli è stato . Poi mi ha detto, in maniera molto seria, come se l'aria intorno noi fosse in realtà velenosa. Ora, non devi ridere quando ti dirò questo: ho proprio sentito qualcosa simile a un improvviso brivido freddo.

Non c'era vento. Il mare era piatto come un vetro. Ci stavamo avvicinando all'isola in quel momento. Quello che ho sentito è stato un... un brivido nella mente, una specie di terrore improvviso."

"Pura immaginazione", disse Rainsford.

"Un solo marinaio superstizioso può infettare l'intera ciurma di una nave con la sua paura."

"Forse. Ma alle volte penso che i marinai possiedano un senso in più che dice loro quando sono in pericolo. Alle volte penso che il male sia qualcosa di tangibile....con lunghezze d'onda, proprio come il suono e la luce. Un posto malvagio può, per così dire, trasmettere le vibrazioni del male. Ad ogni modo, sono contento che stiamo uscendo da questa zona. Bene, penso che andrò a dormire adesso, Rainsford."

"Non ho sonno," disse Rainsford " Andrò a fumare ancora un po' sul ponte di poppa."

"Buonanotte, allora, Rainsford. Ci vediamo a colazione."

"Bene. Buonanotte, Whitney."

Non c'era alcun suono nella notte mentre Rainford sedeva là, a parte la vibrazione smorzata del motore che conduceva l'imbarcazione rapidamente attraverso le tenebre, e il fruscio e l'increspatura della scia dell'elica.

Rainsford, adagiandosi su una sdraio in legno, tirava boccate dalla sua pipa di radica preferita in maniera indolente. Il sopore voluttuoso della notte era su di lui. "E' così buio", pensò, "che potrei dormire senza chiudere gli occhi; la notte sarebbe le mie palpebre..."

Un suono improvviso lo fece trasalire. Lo udì all'estrema destra, e le orecchie, esperte di queste faccende, non potevano ingannarsi. Di nuovo sentì il suono e poi ancora un'altra volta. Da qualche parte, lontano nell'oscurità, qualcuno aveva sparato tre colpi di pistola.

Rainsford scattò in piedi e si mosse rapidamente lungo il corrimano, disorientato. Strinse gli occhi nella direzione dalla quale gli spari erano arrivati, ma era come cercare di vedere attraverso una coltre. Balzò sul corrimano e si tenne in equilibrio per ottenere una maggiore altezza; la pipa, colpendo una fune, fu scalzata dalla bocca. Fece un balzo verso di essa; un breve urlo rauco gli venne alle labbra mentre si rese conto di essersi allungato troppo e aver perso l'equilibrio. L'urlo fu strozzato non appena le acque del Mar dei Carabi calde come il sangue si chiusero sopra la sua testa.

Si divincolò verso la superficie e tentò di gridare, ma lo sciabordio dell'imbarcazione a tutta velocità lo colpì in piena faccia e l'acqua salata nella bocca aperta lo fece strozzare e soffocare. Disperatamente si diresse con poderose bracciate dietro le luci dell'imbarcazione che si affievolivano, ma si fermò prima di aver nuotato per quindici metri. Una certa freddezza era sopraggiunta; non era la prima volta che si era trovato in una situazione difficile. Esisteva la possibilità che le sua urla potessero essere udite da qualcuno a bordo, ma quella possibilità era scarsa e si faceva sempre più scarsa man mano che l'imbarcazione continuava ad andare a tutta velocità. A fatica si tolse gli indumenti e urlò con tutte le sue forze. Le luci dell'imbarcazione divennero deboli e ormai lontane lucciole; poi furono cancellate interamente dalla notte.

Rainsford si ricordò degli spari. Erano giunti dalla destra e tenacemente si mise a nuotare in quella direzione, nuotando con bracciate lente, ponderate, conservando le energie. Per un periodo di tempo apparentemente senza fine lottò contro l'acqua. Cominciò a contare le bracciate: ne avrebbe forse potuto fare ancora un altro centinaio e poi...

Rainsford sentì un suono. Giunse dal buio, il suono di un urlo alto, il suono di un animale in estremo tormento e terrore.

Non riconobbe l'animale che aveva prodotto il suono, non tentò nemmeno: con rinnovata vitalità nuotò verso il suono. Lo sentì di nuovo e poi fu interrotto da un altro rumore brusco e deciso.

"Un colpo di pistola", mormorò Rainsford, continuando a nuotare.

Dieci minuti di sforzo deciso portarono un altro suono alle orecchie, il più piacevole che avesse mai udito, il borbottio e il brontolio del mare contro la riva rocciosa. Era quasi sugli scogli prima che li vedesse; in una notte meno tranquilla si sarebbe schiantato contro di essi. Con la forza rimastagli si trascinò fuori dalle acque vorticose. Spuntoni dentellati sembravano sporgere nell'oscurità; con sforzo si mise in piedi, annaspando. Ansimante, le mani escoriate, raggiunse un posto piano sulla cima. Una fitta jungla discendeva dalla sommità delle cime. Quali pericoli quell'intrico di alberi e sottobosco potessero nascondergli non preoccupava Rainsford in quel momento. Tutto ciò che sapeva è che era in salvo dal suo nemico, il mare, e che la più totale stanchezza era su di lui. Si precipitò sul limitare della jungla e cadde a capofitto nel sonno più profondo della sua vita.

Quando aprì gli occhi capì dalla posizione del sole che era tardo pomeriggio. Il sonno gli aveva dato nuovo vigore e una fame pungente lo stava logorando. Si guardò attorno, quasi allegro.

"Dove ci sono colpi di pistola, ci sono uomini. Dove ci sono uomini, c'è cibo.", pensò. Ma che razza di uomini, si domandò, in un posto così minaccioso. Un fronte ininterrotto di jungla aggrovigliata e frastagliata contornava la riva.

Non vide alcun segno di un sentiero attraverso la fitta maglia di erbacce e alberi: era più semplice camminare lungo la riva, e Rainsford si mosse con difficoltà lungo la prossimità dell'acqua. Non lontano da dove era approdato, si fermò.

Qualcosa di ferito- con tutta probabilità, un grosso animale - si era trascinato a fatica nella boscaglia; l'erba della jungla era spezzata e il verde sottobosco era lacerato; una macchia di erba era sporca di rosso. Un oggetto di piccole dimensioni brillante al sole attirò l'attenzione di Rainsford e lo raccolse. Si trattava di una cartuccia vuota.

"Una ventidue", notò. "E' strano. Deve esser stato un animale piuttosto grosso. Il cacciatore doveva essere piuttosto nervoso per affrontarlo con una pistola leggera. E' chiaro che il bestione abbia ingaggiato una lotta. Suppongo che i primi tre colpi che ho sentito furono il momento in cui il cacciatore ha stanato la sua preda e l'ha ferita. L'ultimo colpo fu quando l'ha seguita fin qui e poi l'ha finita."

Esaminò il terreno attentamente e trovò ciò che aveva sperato di trovare: l'orma di stivali da caccia. Puntavano lungo la cima nella direzione che aveva intrapreso. In maniera impaziente si affrettò a risalire, ora scivolando su un ramo marcio o su una pietra sdrucciolevole, ma avanzando. La notte cominciava a calare sull'isola.

Un'oscurità fredda e tetra tingeva di nero il mare e la jungla quando Rainsford avvistò delle luci. Gli si presentarono non appena ebbe girato una stretta curva lungo la costa; e il suo primo pensiero fu di essersi imbattuto in un villaggio, poiché vi erano molte luci. Ma mentre proseguiva nella sua avanzata vide con suo immenso stupore che tutte le luci erano in un solo enorme edificio: una struttura superba con torri appuntite che affondavano in alto nell'oscurità. Gli occhi distinsero i contorni vaghi di un sontuoso castello in stile francese; era situato su un promontorio a picco e su suoi tre lati le scogliere si tuffavano là dove il mare lambiva avido nelle ombre.

"Un miraggio", pensò Rainsford. Ma non si trattava di un miraggio, quando aprì l'alto cancello di ferro con le punte. I gradini di pietra erano piuttosto reali; la massiccia porta con un gargoyle dallo sguardo malevolo come battente era piuttosto reale, eppure su tutto aleggiava un'aria irreale.

Sollevò il battente, e cigolò freddamente, come se non fosse mai stato utilizzato. Lo lasciò cadere e questo lo fece trasalire per via del suono rimbombante che produsse. Pensò di sentire dei passi all'interno; la porta rimase chiusa. Di nuovo Rainsford sollevò il pesante battente e lo lasciò cadere. La porta si aprì allora- si aprì all'improvviso come se vi fosse stata una molla - e Rainsford rimase a sbattere le palpebre nel fiume abbagliante di luce dorata che si riversava fuori da essa. La prima cosa che gli occhi di Rainsford distinsero fu l'uomo più grande che Rainsford avesse mai visto; una creatura gigantesca, di costituzione solida e con una barba nera fino alla vita. Nella mano teneva un revolver dalla canna lunga puntato direttamente al cuore di Rainsford.

Dal groviglio della barba due occhietti osservavano Rainsford.

"Non si allarmi", disse Rainsford con un sorriso che sperava fosse disarmante."Non sono un ladro. Sono caduto da un'imbarcazione. Mi chiamo Sanger Rainsford, da New York City,"

Lo sguardo minaccioso negli occhi non mutò. Il revolver puntato tanto rigidamente come se il gigante fosse una statua. Non dava alcun segno che comprendesse le parole di Rainsford o che le avesse perfino sentite. Indossava un'uniforme, un'uniforme nera con i bordi in astrakan grigio.

"Sono Sanger Rainsford di New York", Rainsford ricominciò. "Sono caduto da un'imbarcazione. Ho fame."

La sola risposta dell'uomo fu di sollevare con il pollice il cane del revolver. Poi Rainsford vide la mano libera dell'uomo portarsi alla fronte in un saluto militare e lo vide sbattere i tacchi tra loro e mettersi sull'attenti. Un altro uomo scendeva dagli ampi gradini di marmo, un uomo diritto e snello in abiti serali. Avanzò verso Rainsford e gli porse la mano.

Con una voce raffinata, marcata da un lieve accento che gli dava una maggiore accuratezza e calma, disse: "E' un piacere davvero enorme e un onore accogliere Mr. Sanger Rainsford, il famoso cacciatore, nella mia dimora".

In maniera automatica Rainsford strinse la mano dell'uomo.

"Ho letto il suo libro sulla caccia ai leopardi della neve in Tibet, sa...", spiegò l'uomo. "Sono il Generale Zaroff".

La prima impressione di Rainsford fu che l'uomo fosse particolarmente affascinante; la seconda fu che c'era una qualità originale, piuttosto bizzarra, sul viso del generale. Era un uomo alto, di oltre la mezza età, poiché i capelli erano di un bianco vivo; ma le sopracciglia spesse e i baffi militareschi appuntiti erano neri come la notte dalla quale Rainford era giunto. Anche gli occhi erano neri e molto luminosi. Aveva gli zigomi alti, un naso appuntito, un viso asciutto e scuro; il viso di un uomo abituato a dare ordini, il viso di un aristocratico. Volgendosi al gigante in uniforme, il generale gli fece un segno. Il gigante mise via la pistola, salutò e si ritirò.

"Ivan è un individuo straordinariamente robusto", sottolineò il generale, "ma ha la sfortuna di essere sordo-muto. Un essere semplice, ma, temo, come tutta la sua razza, un po' selvaggio".

"E' Russo?"

"E' un cosacco", disse il generale, e il sorriso mostrò delle labbra rosse e dei denti aguzzi. "Come me".

"Venga", disse, "non dovremmo chiacchierare qui. Possiamo parlare dopo. Ora ha bisogno di abiti, cibo e riposo. Li avrà. Questo è un luogo di enorme riposo."

Ivan era riapparso e il generale gli parlò con le labbra che si muovevano senza produrre alcun suono.

"Segua Ivan, per favore, Mr. Rainsford", disse il generale. "Ero in procinto di cenare quando è arrivato lei. L'aspetterò. Troverà che i miei abiti le andranno bene, suppongo."

Fu fino a un enorme camera da letto, con il soffitto a travi e un letto a baldacchino grande abbastanza per sei persone, che Rainsford seguì il silenzioso gigante. Ivan preparò un abito per la cena, e Rainsford, mentre lo indossava, notò che proveniva da un sarto londinese che di solito tagliava e cucina per nessun individuo inferiore al rango di duca.

La sala da pranzo nella quale Ivan lo condusse era notevole sotto molti aspetti. Aleggiava una certa magnificenza medievale: dava l'impressione di una sala baronale dei tempi feudali con i suoi pannelli di quercia, l'alto soffitto, gli ampi tavoli da pranzo dove una quarantina di uomini avrebbero potuto sedersi a mangiare. Intorno alla sala erano appese le teste di molti animali: leoni, tigri, elefanti, alci, orsi. Rainsford non ne aveva mai visti esemplari più grandi o più perfetti. Al grande tavolo il generale sedeva da solo.

"Prenda un cocktail, Mr Rainsford", propose. Il cocktail era sorprendentemente buono; e, Rainsford notò, la tavola era apparecchiata con i materiali migliori: lino, cristallo, argento, porcellana.

Mangiavano borsch, la zuppa ricca e rossa con panna acida tanto cara al palato Russo. Scusandosi in parte, il Generale Zaroff disse "Cerchiamo di fare del nostro meglio per conservare le comodità della civiltà qui. Per favore perdoni ogni mancanza. Stiamo fuori dalle piste battute, sa. Pensa che lo champagne abbia sofferto della lunga traversata oceanica?"

"Per niente", dichiarò Rainsford. Riteneva il generale un ospite molto attento e affabile, un vero cosmopolita. Ma c'era un piccolo aspetto del generale che rendeva Rainsford poco a suo agio. Ogni qualvolta sollevava lo sguardo dal proprio piatto trovava il generale che lo studiava, valutandolo in maniera attenta.

"Forse", disse il Generale Zaroff "è stato sorpreso che abbia riconosciuto il suo nome. Veda, leggo tutti i libri sulla caccia pubblicati in Inglese, Francese e Russo. Ho un'unica e sola passione nella vita, Mr Rainsford, ed è la caccia."

"Ha dei trofei meravigliosi qui", disse Rainsford mentre mangiava un filet mignon particolarmente ben preparato. "Quel Bufalo del Capo è il più grande che abbia mai visto."

"Oh, quella. Si, era un mostro."

"L'ha caricata?"

"Mi ha scagliato contro un albero", disse il generale. "Mi sono fratturato il cranio. Ma ho preso la bestia."

"Ho sempre pensato", disse Rainsford " che il Bufalo del Capo sia la caccia grossa più pericolosa di tutte."

Per un attimo il generale non rispose; sorrideva con suo curioso sorriso dalle labbra rosse. Poi disse lentamente "No. Si sbaglia. Il Bufalo del Capo non è la caccia grossa più pericolosa". Prese un sorso di vino."Qui nella mia riserva su quest'isola," disse nello stesso tono lento, "Vado a caccia di bestie ben più pericolose".

Rainsford espresse sorpresa. "Ci sono grandi battute di caccia su quest'isola?"

Il generale annuì. "Le più grandi".

"Davvero?"

"Oh, non è una cosa naturale qui, ovviamente. Devo popolare l'isola."

"Che cosa ha importato, generale?" domandò Rainsford. "Tigri?"

Il generale sorrise. "No", rispose. "Ho perso interesse per la caccia alla tigre alcuni anni fa. Ho sfruttato tutte le sue possibilità, vede. Non vi è rimasto alcun brivido nella tigre, nessun pericolo reale. Io vivo per il pericolo, Mr Rainsford".

Il generale estrasse dalla tasca un portasigarette dorato e offrì al suo ospite una lunga sigaretta nera con un filtro argentato; era aromatizzata e produsse un odore simile all'incenso.

"Faremo una gran battuta di caccia, lei ed io," disse il generale. "Sarò felicissimo di avere la sua compagnia"

"Ma che tipo di caccia..." cominciò a dire Rainsford.

"Glielo dirò", disse il generale. "Sarà divertito, lo so. Penso di poter dire, con ogni modestia, di aver fatto una cosa rara. Ho inventato una nuova sensazione. Posso versarle un altro bicchiere di Porto?"

"La ringrazio, generale".

Il generale riempì entrambi i bicchieri e disse, "Dio crea alcuni uomini poeti. Di alcuni Egli ne fa re, altri mendicanti. Di me ha fatto un cacciatore. La mia mano è stata fatta per il grilletto, diceva mio padre. Era un uomo molto ricco con un quarto di milione di acri in Crimea ed era uno sportivo appassionato. Quando avevo solo cinque anni mi diede una piccola pistola, fatta appositamente per me a Mosca, per sparare alle rondini. Quando uccisi alcuni dei suoi tacchini premiati, non mi punì: si complimentò con me per la mia abilità nel tiro. Uccisi il mio primo orso nel Caucaso quando avevo dieci anni. La mia intera vita è stata una caccia continua. Entrai nell'esercito - era d'obbligo per i figli dei nobili - e per un certo periodo comandai una divisione di cavalleria Cosacca, ma il mio vero interesse fu sempre la caccia. Ho cacciato qualunque tipo di selvaggina in ogni terra. Mi risulterebbe impossibile raccontarle quanti animali ho ucciso".

Il generale tirò una boccata dalla sigaretta.

"Dopo la debacle in Russia lasciai il Paese, perché era imprudente per un ufficiale dello Zar rimanere. Molti nobili Russi persero ogni cosa. Io, fortunatamente, avevo investito in maniera massiccia in titoli Americani, così non dovrò mai aprire una sala da tè a Monte Carlo o guidare un taxi a Parigi. Naturalmente, ho continuato a cacciare: grizzly nelle vostre Montagne Rocciose, coccodrilli nel Gange, rinoceronti in Africa Orientale. È stato in Africa che il Bufalo del Capo mi colpì e mi costrinse a letto per sei mesi. Non appena mi ripresi partii per il Rio delle Amazzoni a caccia di giaguari, poiché avevo sentito dire che fossero insolitamente scaltri. Non lo erano..." sospirò il Cosacco. "Non erano per niente una sfida per un cacciatore che sa quello che fa e ha un fucile molto potente. Rimasi amaramente deluso. Una notte ero sdraiato nella mia tenda con un mal di testa lancinante quando un pensiero terribile si insinuò nella mia mente a forza. La caccia cominciava ad annoiarmi! E la caccia, ricordi bene, era stata la mia vita. Ho sentito dire che in America gli uomini d'affari spesso crollano a pezzi quando rinunciano agli affari che erano stati la loro vita."

"Si, è così", disse Rainsford.

Il generale sorrise. "Non avevo alcun desiderio di crollare a pezzi," disse. "Devo fare qualcosa. Ora, la mia è una mente analitica, Mr Rainsford. Senza dubbio alcuno è per questo che mi piacciono i problemi posti dalla caccia."

"Senza dubbio, Generale Zaroff".

"Dunque", continuò il generale, "mi domandai il motivo per cui la caccia non mi affascinasse più. Lei è più giovane di me, Mr. Rainsford, e non ha cacciato quanto me, ma forse può indovinare la risposta."

"Quale era?"

"Semplicemente questa: la caccia aveva smesso di essere quella voi chiamate . Era diventato troppo facile. Ottenevo sempre la mia preda. Non c'è noia più grande della perfezione."

Il generale accese una nuova sigaretta.

"Nessun animale ha più alcuna possibilità con me. Non è un'esagerazione: è una certezza matematica. L'animale non ha altro che le sue zampe e il suo istinto. L'istinto non è una sfida per la ragione. Quando riflettei su questo fu un momento tragico per me, glielo assicuro."

Rainsford appoggiò i gomiti al tavolo, incrociando le braccia, assorto in quello che il suo ospite diceva.

"Mi è venuto come un'ispirazione quello che dovevo fare", proseguì il generale.

"E cos'era?"

Il generale fece il sorriso pacato di chi abbia affrontato un ostacolo e l'abbia superato con successo. "Ho dovuto inventare un animale nuovo da cacciare", disse.

"Un animale nuovo? Sta scherzando"

"Nient'affatto", disse il generale. "Non scherzo mai quando si tratta di caccia. Avevo bisogno di un animale nuovo. Ne trovai uno. Così comprai questa isola, costruii questa casa e qui organizzo la mia caccia. L'isola è perfetta per i miei scopi: ci sono foreste che contengono un labirinto di piste, colline, paludi..."

"Ma l'animale, Generale Zaroff?"

"Oh", disse il generale, "mi procura la caccia più eccitante al mondo. Nessun altro tipo di caccia può esservi paragonata per un istante. Caccio ogni giorno e ora non mi annoio mai, perché ho una preda con la quale posso mettere in competizione il mio ingegno."

Lo stupore di Rainsford si palesò sul viso.

"Volevo l'animale ideale da cacciare", spiegò il generale. "Così mi sono detto e la risposta fu, naturalmente "

"Ma nessun animale può ragionare", obbiettò Rainsford.

"Mio caro amico", disse il generale, " ce n'è uno che può".

"Ma lei non può voler dire del..." boccheggiò Rainsford.

"E perché no?"

"Non posso credere che sia serio, Generale Zaroff. Questo è uno scherzo macabro."

"Perché non dovrei essere serio? Sto parlando di caccia."

"Caccia? Per tutte le pistole, Generale Zaroff, sta parlando di omicidio."

Il generale rise di gusto. Osservò Rainsford canzonatorio. "Mi rifiuto di credere che in un giovanotto tanto moderno e civilizzato come sembra essere lei possa accogliere in sé idee romantiche circa il valore della vita umana. Di certo le sue esperienze in guerra..."

"Non mi hanno fatto scusare l'omicidio a sangue freddo", concluse Rainsford in maniera severa.

La risata scuoteva il generale. "Lei è straordinariamente buffo!" disse. "Non ci si aspetta oggigiorno di trovare un giovanotto della classe colta, perfino in America, con un opinione tanto ingenua e, se posso definirla così, tardo-Vittoriana. È come trovare una tabacchiera in una limousine. Ah, be', senza dubbio ha avuto antenati Puritani. Così tanti Americani pare li abbiano avuti. Scommetto che dimenticherà i suoi insegnamenti quando verrà a caccia con me. Si prepari a un brivido del tutto nuovo, Mr Rainsford."

"Grazie, sono un cacciatore, non un assassino".

"Santo Cielo", disse il generale, piuttosto calmo, "di nuovo quella parola spiacevole. Penso di poterle mostrare che i suoi scrupoli hanno scarso fondamento."

"Davvero?"

"La vita è per i forti, deve essere vissuta dai forti, e, se necessario, presa dai forti. I deboli del mondo sono statti messi qui per dare ai forti piacere. Io sono forte. Perché non dovrei usare il mio dono? Se desidero cacciare, perché non dovrei? Do la caccia alla feccia della terra: marinai provenienti da navi da carico - Neri, Cinesi, Bianchi, Meticci - un purosangue o un segugio valgono di più di una ventina di loro."

"Ma sono uomini", disse Rainsford con veemenza.

"Esattamente", disse il generale. "Ecco perché li uso. Mi dà piacere. Sanno ragionare, in qualche modo. Dunque sono pericolosi."

"Ma dove li trova?"

La palpebra sinistra del generale batté un rapido occhiolino. "Questa isola è chiamata Trappola per le Navi", replicò. "Alle volte un dio dei profondi abissi arrabbiato li manda da me. Qualche altra volta, quando la Provvidenza non è così gentile, aiuto io un po' la Provvidenza. Venga alla finestra con me."

Rainsford andò alla finestra e guardò fuori in direzione del mare.

"Guardi! Là fuori!" esclamò il generale, indicando un punto nella notte. Gli occhi di Rainsford videro solo il buio, e poi, mentre il generale premeva un bottone, al largo Rainsford vide un bagliore di luci.

Il generale ridacchiò. "Indicano un canale", disse, "dove non vi è nessuno; rocce giganti con spuntoni affilati come rasoi giacciono nascosti come mostri marini con le mascelle spalancate. Possono frantumare una nave tanto facilmente come frantumo questa noce". Lasciò cadere una noce sul pavimento di legno massiccio e scagliò il tallone su di essa frantumandola. "Oh si", disse con noncuranza, come in risposta a una domanda, "Ho l'elettricità. Cerchiamo di essere civilizzati qui".

"Civilizzati? E lei spara agli uomini?"

Vi fu una traccia di rabbia negli occhi neri del generale, ma durò solo un secondo; e disse, nel modo più amabile possibile, "Santo Cielo, che giovanotto retto che è! Le assicuro che non faccio quello che dice lei. Sarebbe troppo barbaro. Tratto questi visitatori con ogni riguardo. Hanno cibo in abbondanza ed esercizio fisico. Ottengono una forma fisica splendida. Lo vedrà da sé domani."

"Che vuole dire?"

"Visiteremo la mia scuola di addestramento", disse il generale sorridendo. "Si trova nella cantina. Ho circa una dozzina di studenti là sotto. Provengono dal brigantino spagnolo San Lucar che ha avuto la cattiva sorte di finire sugli scogli là fuori. Una partita molto scadente, mi dispiace dire. Esemplari scarsi e più abituati al ponte di una nave che alla jungla". Sollevò la mano e Ivan, che serviva a tavola, portò un denso caffè Turco. Rainsford, con uno sforzo, tenne a freno la lingua.

"E' una gara, vede", proseguì il generale in maniera blanda. "Propongo uno di loro che andremo a cacciare. Gli do una scorta di cibo e un ottimo coltello da caccia. Gli do tre ore di precedenza. Io devo seguirlo. A me tocca seguirlo, armato solo di una pistola del calibro e della gittata più piccoli. Se la mia preda mi sfugge per tre giorni interi, vince la gara. Se lo trovo", il generale sorrise, "perde".

"Supponiamo che si rifiuti di farsi cacciare?"

"Oh", disse il generale, "Gli do questa opzione, naturalmente. Non ha bisogno di giocare se non desidera farlo. Se non vuole essere cacciato, lo lascio a Ivan. Ivan una volta aveva l'onore di servire il Grande Zar Bianco in qualità di frustatore ufficiale e ha le proprie idee riguardo allo sport.

Immancabilmente, Mr Rainsford, immancabilmente scelgono la caccia."

"E se vincono?"

Il sorriso sul viso del generale si allargò. "Fino ad oggi non ho perso", disse. Poi aggiunse, repentino: "Non voglio che pensi che io sia uno sbruffone, Mr Rainsford. Molti di loro procurano solo il tipo più elementare di problemi. Ogni tanto abbatto un Tartaro. Uno ha quasi vinto. Alla fine ho dovuto usare i cani."

"I cani?"

"Da questa parte, per cortesia. Le faccio vedere."

Il generale accompagnò Rainsford ad una finestra. Le luci dalle finestre mandavano un'illuminazione tremolante che creava figure grottesche sul cortile sottostante e Rainsford poteva vedere muoversi nei dintorni una dozzina circa di enormi figure nere; quando si voltarono verso di lui, i loro occhi luccicarono di verde.

"Una muta piuttosto buona, penso" osservò il generale. "Vengono sciolti ogni sera alle sette. Se qualcuno tentasse di entrare - o uscire - dalla mia casa gli accadrebbe qualcosa di estremamente spiacevole." Mormorò un brano di una canzone delle Folies Bergere.

"E ora", disse il generale, "Voglio mostrarle la mia nuova collezione di teste. Viene con me in biblioteca?"

"Spero", disse Rainsford," che mi scuserà per stasera, Generale Zaroff. Non mi sento molto bene."

"Ah, davvero?" il generale si informò prontamente. "Bene, suppongo che sia naturale, dopo una lunga nuotata. Ha bisogno di una buona notte di sonno tranquillo. Domani si sentirà un uomo nuovo, ci scommetto. Poi andremo a caccia, eh? Ho una prospettiva piuttosto promettente..." Rainsford si affrettava a lasciare la stanza.

"Mi dispiace non possa venire con me stanotte", gridò il generale. "Mi aspetto una battuta piuttosto equilibrata: grosso, forte, nero. Sembra ingegnoso.... Be', buonanotte Mr. Rainsford, spero avrà una buona nottata di riposo".

Il letto era buono e il pigiama della seta più morbida, ed egli era stanco in ogni fibra del suo essere, ma nondimeno Rainsford non riuscì a calmare la sua mente con l'oppio del sonno. Giaceva ad occhi aperti. Per un momento gli parve di sentire dei passi furtivi nel corridoio fuori dalla porta. Cercò di spalancare la porta, ma non si aprì. Andò alla finestra e guardò fuori. La sua camera si trovava in alto su una delle torri. Le luci del palazzo erano spente ed era buio e silenzioso; ma c'era un frammento di una luna giallastra e alla sua pallida luce riusciva a vedere, in maniera incerta, il cortile. Là, muovendosi tra gli intrecci delle ombre, vi erano delle forme nere e silenziose; i segugi lo sentirono alla finestra, sollevarono lo sguardo, in attesa, con i loro occhi verdi. Rainsford tornò a letto e si sdraiò. Provò in ogni modo ad addormentarsi. Era riuscito ad appisolarsi quando, proprio nel momento in cui sopraggiungeva il mattino, sentì, lontano nella jungla, il debole colpo di una pistola.

Il Generale Zaroff non si presentò che a pranzo. Indossava in maniera impeccabile un abito in tweed da gentiluomo di campagna. Era premuroso nei riguardi allo stato di salute di Rainsford.

"Per quanto mi riguarda", sospirò il generale, "Non mi sento molto bene. Sono preoccupato, Mr. Rainsford. La scorsa notte ho scoperto tracce della mia antica malattia."

Allo sguardo interrogativo di Rainsford il generale disse: "Ennui. Noia".

Poi, prendendo una seconda porzione di crêpes Suzette, il generale spiegò: "La caccia non è andata bene la scorsa notte. Il tizio ha perso la testa. Ha fatto un sentiero che non ha offerto affatto alcun problema. Questo è il guaio con questi marinai; hanno le menti ottuse tanto per cominciare e non sanno come muoversi tra gli alberi. Fanno cose eccessivamente stupide e ovvie. È molto fastidioso. Un altro bicchiere di Chablis, Mr. Rainsford?"

"Generale", disse Rainsford in tono fermo, "desidero lasciare questa isola immediatamente."

Il generale sollevò il cespuglio di sopracciglia, sembrava offeso. "Ma, mio caro amico", protestò il generale, "è appena arrivato. Non ha ancora cacciato..."

"Vorrei andarmene oggi", disse Rainsford. Vide i profondi occhi neri del generale su di sé che lo studiavano. Il volto del Generale Zaroff improvvisamente si illuminò.

Riempì il bicchiere di Rainsford con il venerabile Chablis da una bottiglia impolverata.

"Stanotte", disse il generale, "andremo a caccia... lei ed io."

Rainsford scosse il capo. "No, generale", disse. "Non caccerò."

Il generale si strinse nelle spalle e delicatamente ingoiò un acino della serra. "Come desidera, amico mio", disse. " La scelta è completamente nelle sue mani. Ma non posso azzardarmi a suggerire che troverà la mia idea di sport più divertente di quella che possiede Ivan?"

Annuì verso l'angolo dove stava il gigante, minaccioso, con le grosse braccia incrociate sul petto grosso come una botte.

"Non ha intenzione di..." strillò Rainsford.

"Mio caro amico", disse il generale, "non le ho detto che faccio sempre quello che dico per quanto riguarda la caccia? Questa è un'enorme ispirazione. Bevo a un nemico degno della mia tempra... alla fine." Il generale sollevò il bicchiere, ma Rainsford rimase seduto a fissarlo.

"Troverà questo gioco degno di essere giocato", disse il generale in maniera entusiasta. "La sua mente contro la mia. La sua conoscenza dei boschi contro la mia. La sua forza e la sua tenacia contro le mie. Una partita di scacchi all'aperto! E la posta in gioco non è priva di valore, eh?"

"E se vinco..." cominciò a dire Rainsford con voce roca.

"Sarò ben disposto a dichiararmi sconfitto se non riesco a trovarla entro mezzanotte del terzo giorno", disse il Generale Zaroff. "La mia corvetta la porterà sulla terra ferma vicino a una città." Il generale lesse quello che Rainsford pensava.

"Oh, può fidarsi di me", disse il Cosacco. "Le do la mia parola di gentiluomo e di sportivo. Naturalmente, in cambio, deve acconsentire a non raccontare nulla della sua visita qui."

"Non acconsentirò a niente del genere", disse Rainsford.

"Oh", disse il generale, "in quel caso... Ma perché discuterne adesso? Tra tre giorni potremo discuterne con una bottiglia di Veuve Cliquot, a meno che..."

Il generale sorseggiò il vino.

Poi un'aria da uomo d'affari lo animò. "Ivan", disse a Rainsford, "le fornirà degli abiti per la caccia, cibo e un coltello. Le consiglio di indossare mocassini: lasciano scarse tracce. Le suggerisco anche di evitare la grossa palude all'angolo sud-est dell'isola. La chiamiamo la Palude della Morte. Ci sono le sabbie mobili. Uno stupido ci ha provato. La parte deplorevole della vicenda è stato che Lazarus l'ha seguito. Può immaginare i miei sentimenti, Mr. Rainsford. Amavo Lazarus; era il segugio migliore del gruppo. Ebbene, adesso deve scusarmi. Faccio sempre una siesta dopo pranzo. A stento avrà tempo per un riposino, temo. Vorrà cominciare subito, senza dubbio. Non la inseguirò fino all'imbrunire. Cacciare di notte è molto più eccitante che di giorno, non crede? Aurevoir, Mr. Rainsford, aurevoir". Il Generale Zaroff, con un profondo inchino cortese, si allontanò dalla stanza.

Da un'altra parte giunse Ivan. Sotto un braccio portava dei vestiti da caccia color kaki, una bisaccia con il cibo, un fodero di pelle contenente un coltello da caccia a lama lunga; la mano destra rimase sul revolver con il cane sollevato conficcato nella fusciacca cremisi intorno alla vita.

Rainsford si era fatto strada tra la boscaglia per due ore. "Devo mantenere i nervi saldi. Devo mantenere i nervi saldi", diceva a denti stretti.

Non era ancora del tutto lucido quando i cancelli del palazzo si chiusero con uno scatto alle sue spalle. La sua unica idea all'inizio fu di porre una certa distanza tra lui e il Generale Zaroff e, per questo scopo, si era gettato a capofitto nella fuga, spronato dai aspri vogatori di qualcosa molto simile al panico. Ora aveva ripreso padronanza di sé, si era fermato, e stava valutando sé stesso e la situazione. Vide che una fuga in linea retta era inutile; inevitabilmente lo avrebbe condotto faccia a faccia con il mare. Si trovava in un quadro con una cornice di acqua, e le sue azioni, chiaramente, dovevano aver luogo all'interno di quella cornice.

"Gli darò una pista da seguire", mormorò Rainsford, e deviò dal percorso accidentato che aveva seguito nella jungla priva di sentieri. Eseguì una serie di giri intricati; doppiò la sua pista più volte, ricordando tutto l'insieme di tradizioni legate alla caccia alla volpe, e tutti i sotterfugi della volpe. La notte lo colse con le gambe doloranti per la stanchezza, con le mani e il viso sferzati dai rami, su un crinale fitto di boschi. Sapeva sarebbe stato da matti andare alla cieca nel buio, anche se ne avesse avuta la forza. Il suo bisogno di riposo era impellente e pensò: "Ho giocato il ruolo della volpe, ora devo fare il gatto della favola". Un grosso albero con il tronco spesso e rami spiegati era nelle vicinanze, e, avendo cura di non lasciare il minimo segno, si arrampicò fino alla biforcazione dei rami, e, stesosi su uno degli ampi e grossi rami, alla meno peggio, si mise a riposare. La sosta gli portò nuova fiducia e quasi una sensazione di sicurezza. Persino un cacciatore tanto zelante come il Generale Zaroff non poteva rintracciarlo là, disse a sé stesso; solo il diavolo in persona poteva seguire quella pista complicata attraverso la jungla al calare del buio. Ma forse il Generale era un diavolo...

Una notte apprensiva strisciò lenta come un serpente ferito e il sonno non giunse a Rainsford, sebbene il silenzio di un mondo morto fosse sulla jungla. Verso il mattino quando un grigio squallido colorava il cielo, il grido di qualche uccello spaventato concentrò l'attenzione di Rainsford in quella direzione. Qualcosa avanzava attraverso la boscaglia, giungendo in maniera lenta, attenta, giungendo dalla stessa strada tortuosa da cui era giunto Rainsford. Si appiattì sul ramo e, attraverso uno schermo di foglie quasi spesso quanto un arazzo, osservò...che quello che si stava avvicinando era un uomo.

Era il Generale Zaroff. Si era fatto strada con gli occhi fissi nella più alta concentrazione sul terreno davanti a sé. Si fermò, quasi sotto l'albero, si mise in ginocchio e studiò il terreno. L'impulso di Rainsford fu di lanciarsi come una pantera, ma vide che la mano destra del generale stringeva qualcosa di metallo: una piccola automatica.

Il cacciatore scosse il capo diverse volte, come se fosse perplesso. Poi si rimise in piedi e prese dal suo portasigarette una delle sue sigarette nere: il fumo pungente simile all'incenso salì alle narici di Rainsford.

Rainsford trattenne il respiro. Gli occhi del generale si spostarono dal terreno e si muovevano centimetro per centimetro su per l'albero. Rainsford si irrigidì, ogni muscolo teso pronto per un salto. Ma gli occhi acuti del cacciatore si fermarono prima che raggiungessero il grosso ramo su cui Rainsford stava sdraiato; un sorriso si allargò sul viso abbronzato. In maniera piuttosto calcolata soffiò un anello di fumo in aria; poi diede le spalle all'albero e si incamminò tranquillo, lungo il sentiero dal quale era giunto. Il fruscio del sottobosco contro gli stivali da caccia divenne sempre più indistinto.

L'aria trattenuta esplose violentemente dai polmoni di Rainsford. Il suo primo pensiero gli diede la nausea e lo paralizzò. Il generale era in grado di seguire una pista attraverso gli alberi di notte; era in grado di seguire una pista estremamente difficile; deve avere poteri misteriosi; solo per pura e semplice fortuna il Cosacco non era riuscito a vedere la sua preda.

Il secondo pensiero di Rainsford fu persino più terribile. Gli procurò un brivido di terrore freddo lungo tutto il suo essere. Perché il generale aveva sorriso? Perché era tornato indietro?

Rainsford non voleva credere a ciò che la sua ragione gli diceva fosse vero, ma la verità era tanto evidente come il sole che si era ormai fatto strada attraverso la bruma del mattino. Il generale stava giocando con lui! Il generale lo stava risparmiando per un altro giorno di caccia! Il Cosacco era il gatto, lui il topo. Fu allora che Rainsford conobbe il pieno significato della parola terrore.

"Non perderò la calma. No."

Scivolò giù dall'albero e deviò di nuovo nella boscaglia. Il volto era deciso e costrinse gli ingranaggi della sua mente a funzionare. A quasi trecento metri dal suo nascondiglio si fermò dove un enorme albero morto si appoggiava precario su uno più piccolo ancora vivo. Liberatosi della bisaccia con il cibo, Rainsford estrasse il coltello dal fodero e cominciò a lavorare con tutte le sue forze. Il lavoro fu terminato alla fine e si gettò dietro un tronco caduto a quasi quaranta metri di distanza. Non dovette aspettare a lungo. Il gatto stava tornando per giocare con il topo.

Seguendo la pista con la sicurezza di un segugio, giunse il Generale Zaroff. Niente sfuggiva a quegli occhi neri indagatori, nessun filo di erba spezzato, nessun rametto piegato, nessun orma, non importa quanto sbiadita, nel muschio. Il Cosacco era talmente intento nel suo inseguimento silenzioso che fu sopra la cosa che Rainsford aveva fatto prima di vederla. Il piede tocco il ramo sporgente che era il grilletto. Anche se lo toccò, il generale percepì il pericolo e fece un balzo indietro con l'agilità di una scimmia. Ma non fu abbastanza veloce: l'albero morto, sistemato in maniera delicata sopra quello vivo tagliato, crollò e colpì di striscio il generale a una spalla mentre cadeva, se non fosse stato per la sua prontezza, sarebbe rimasto schiacciato sotto il suo peso. Barcollò, ma non cadde, né fece cadere il revolver. Rimase là, a sfregarsi la spalla ferita e Rainsford, con la paura che gli attanagliava di nuovo il cuore, sentì la risata di scherno del generale riecheggiare per la jungla.

"Rainsford", chiamò il generale, "se riesce a sentire la mia voce, come suppongo lei possa fare, permetta di congratularmi con lei. Non molti uomini sanno come fare una trappola Malese per uomini. Fortunatamente per me, anche io ho cacciato in Malacca. Si sta dimostrando interessante, Mr. Rainsford. Ora vado a farmi medicare la ferita, è leggera. Ma tornerò. Tornerò."

Quando il generale, per curare la spalla ammaccata, se ne fu andato, Rainsford riprese la sua fuga. Era una fuga adesso, una fuga disperata e senza speranza che lo condusse per alcune ore. Giunse l'imbrunire, poi il buio ma ancora proseguiva. Il terreno divenne più soffice sotto i mocassini; la vegetazione divenne più rigogliosa, più densa; gli insetti lo pungevano selvaggiamente.

Poi, mentre faceva un passo in avanti, il piede affondò nella fanghiglia. Tentò di liberarsi con uno strattone, ma il fango succhiava il piede crudelmente come se fosse una sanguisuga gigante. Con un sforzo violento, riuscì a liberare il piede. Sapeva dove si trovava adesso. La Palude della Morte e le sue sabbie mobili.

Le mani erano strette in pugni come se il suo sangue freddo fosse qualcosa di tangibile che qualcuno nel buio stesse tentando di strappare alla sua presa. La morbidezza della terra gli aveva dato un'idea. Si allontanò dalle sabbie per circa due metri e, come un enorme castoro preistorico, cominciò a scavare.

Rainsford si era trincerato in Francia quando un secondo di ritardo avrebbe significato la morte. Quello era stato un passato tranquillo paragonato al suo scavare di adesso. La buca si faceva sempre più grande; quando fu al disopra delle sue spalle, si arrampicò fuori e da alcuni arbusti tagliò dei paletti e ne affilò le punte. Piantò questi paletti sul fondo della buca con le punte rivolte verso l'alto. Con dita veloci intessé un tappeto grezzo di erbacce e rametti e con esso coprì l'apertura della buca. Poi, madido di sudore e dolorante per la stanchezza, si rannicchiò dietro al ceppo di un albero colpito da un fulmine.

Sapeva che il suo inseguitore stava giungendo; sentiva il suono felpato dei piedi sulla terra soffice, e la notte gli portava il profumo della sigaretta del generale. Sembrò a Rainsford che il generale arrivasse con una sveltezza insolita; non sentiva la sua avanzata, passo dopo passo. Rainsford, rannicchiato là, non riusciva a vedere il generale né poteva vedere la buca. Visse un anno in un minuto. Poi sentì l'impulso di urlare a squarciagola di gioia, poiché sentì il secco crepitio dei rami che si spezzano mentre la copertura della buca cedeva; sentì il grido acuto di dolore mentre i paletti acuminati trovavano il loro bersaglio. Saltò fuori dal suo nascondiglio. Poi si fece piccolo. A un metro di distanza dalla buca c'era un uomo in piedi, con una torcia elettrica in mano.

"Ben fatto, Rainsford", disse la voce del generale. "La sua buca Birmana per tigri ha rivendicato uno dei miei cani migliori. Ancora un punto a suo favore. Penso, Mr. Rainsford, che vedrò cosa sarà in grado di fare contro la mia intera muta. Andrò a casa a riposarmi adesso. Grazie per la serata molto divertente".

All'alba Rainsford, sdraiato vicino alla palude, fu svegliato da un suono che gli fece comprendere di avere cose nuove da imparare riguardo la paura. Era un suono distante, debole e incerto, ma lo conosceva. Era l'abbaiare di una muta di segugi.

Rainsford sapeva che poteva fare solo una di due cose. Poteva rimanere dove si trovava e aspettare. Sarebbe stato un suicidio. Poteva fuggire. Sarebbe stato posporre l'inevitabile. Per un momento rimase là a pensare. Un'idea che possedeva un'occasione azzardata gli venne in mente, e, stringendo la cintura, si allontanò dalla palude.

Il latrare dei cani si faceva più vicino, poi ancora più vicino, e ancora, e più vicino che mai. Su un crinale Rainsford si arrampicò su un albero. Sotto un corso d'acqua, non lontano poco più quattrocento metri, poteva vedere i cespugli muoversi. Strizzando gli occhi, vide la figura magra del Generale Zaroff; proprio davanti a lui Rainsford distinse un'altra figura le cui spalle ampie si ergevano attraverso la sterpaglia alta della jungla; era il gigantesco Ivan e sembrava spinto in avanti da qualche forza invisibile; Rainsford sapeva che Ivan era intento a mantenere la muta al guinzaglio.

Sarebbero stati su di lui in un minuto. La sua mente si mise al lavoro freneticamente. Pensò a un trucchetto indigeno che aveva imparato in Uganda. Scivolò dall'albero. Afferrò un giovane arbusto elastico e vi assicurò il coltello da caccia, con la lama puntata alla pista; con un pezzetto di vite selvatica annodò indietro l'arbusto. Poi se la diede a gambe. I segugi alzarono la voce non appena fiutarono il nuovo odore. Rainsford capì adesso come si sente un animale braccato.

Dovette fermarsi per prendere respiro. Il latrare dei cani si interruppe di colpo e anche il cuore di Rainsford si fermò. Dovevano aver raggiunto il coltello.

Si arrampicò eccitato su un albero e guardò indietro. I suoi inseguitori si erano fermati. Ma la speranza che Rainsford aveva nella mente mentre si arrampicava morì, poiché vide nella vallata che il Generale Zaroff era ancora in piedi. Ma Ivan no. Il coltello, guidato dal ritrarsi dell'albero che scattava come una molla, non aveva fallito del tutto.

Rainsford era quasi ruzzolato a terra quando la muta riprese a latrare.

"Calma, calma, calma!" diceva ansimando, mentre scappava. Un'apertura blu si mostrò tra gli alberi nel folto avanti. I segugi si fecero ancora più vicini. Rainsford si sforzò di proseguire verso quella apertura. La raggiunse. Era la sponda del mare. Attraverso una cala poteva vedere la pietra grigio scuro del palazzotto. A sei metri sotto di lui il mare brontolava e soffiava. Rainsford esitò. Sentiva i cani. Poi saltò lontano in mare...

Quando il generale e la sua muta raggiunsero il luogo presso il mare, il Cosacco si fermò. Per alcuni minuti rimase a scrutare la vastità di acqua verde-azzurra. Scrollò le spalle. Poi si sedette, prese un sorso di brandy da una fiaschetta di argento, accese una sigaretta e mormorò un pezzetto dalla Madame Butterfly.

Quella sera il Generale Zaroff fece una straordinaria cena nella sua sala da pranzo rivestita di pannelli di legno. Ad accompagnarla una bottiglia di Pol Roger e mezza bottiglia di Chambertin. Due leggere seccature lo allontanavano da uno stato di gioia perfetta. Una era il pensiero che sarebbe stato difficile rimpiazzare Ivan; l'altra era che la sua preda gli era sfuggita; naturalmente, l'Americano non aveva giocato secondo le regole: così rifletteva il generale mentre assaporava il suo liquore dopocena. Nella biblioteca lesse, per rilassarsi, alcuni brani di Marco Aurelio. Alle dieci salì in camera sua. Era piacevolmente stanco, si disse, mentre chiudeva la porta a chiave. C'era un leggero chiaro di luna, così, prima di accendere la luce, andò alla finestra e guardò in basso nel cortile. Riusciva a vedere i grossi segugi e urlò loro "Avremo più fortuna la prossima volta". Poi accese la luce.

Un uomo, che era rimasto nascosto tra le tende del letto, era in piedi nella stanza.

"Rainsford!" urlò il generale. " In nome di Dio come ha fatto ad arrivare qui?"

"A nuoto", disse Rainsford. "Ho ritenuto fosse più veloce che attraversare la jungla a piedi."

Il generale trattenne il respiro e sorrise. "Mi congratulo con lei", disse. "Ha vinto la partita."

Rainsford non sorrise. "Sono ancora una bestia braccata", disse con voce bassa e roca. "Si prepari, Generale Zaroff."

Il generale fece uno dei suoi inchini più profondi. "Capisco", disse. " Splendido! Uno di noi farà da pasto per i segugi. L'altro dormirà in questo letto eccellente. In guardia, Rainsford."

...

Non aveva mai dormito in un letto migliore, stabilì Rainsford.

© Richard Edward Connell
Traduzione a cura di Salvatore Ciancitto







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